IL CAPORALE MINISTRO

Molti tra i commentatori ed esegeti della politica dell’attuale ministro degli interni ne descrivono la politica sull’emigrazione come una condotta in continuità con il suo predecessore Minniti al quale si attribuisce il “merito” della riduzione degli sbarchi in Italia, questo quasi a rivendicare la mancanza di novità e i “meriti” del suo predecessore. E tuttavia vi sono profonde differenze tra le politiche adottate dai due ministri che o non vengono colte oppure sono sottovalutate.

La politica criminale di Minniti

Il predecessore dell’attuale Ministro degli interni ha indubbiamente ridotto gli sbarchi nel paese. Uomo da sempre vicino ai servizi ha intessuto per loro tramite un intenso lavorio diplomatico con le tribù libiche, contrattando con loro la costituzione di appositi compound (un gruppo di edifici che hanno una funzione comune e che sono circondati da una delimitazione fisica come ad esempio un muro sorvegliato), in pratica un lager, una prigione nelle quali stivare i potenziali migranti presenti in Libia paese nel quale convergono tradizionalmente i percorsi carovanieri provenienti dal centro Africa e da Eritrea considerati dai migranti come il luogo del più facile accesso al “Mare bianco di mezzo”, nome con il quale in lingua araba si designa il Mediterraneo.
Il flusso verso la Libia è alimentato dalla convinzione che l’instabilità politica del territorio permetterebbe una maggiore transitabilità: su questa errata convinzione le tribù del paese hanno fondato i loro affari trasformandosi in mercanti di uomini, donne e bambini e realizzando la tratta dei migranti, replicando in chiave moderna il commercio degli schiavi.
Le tribù, acquisito il controllo del flusso, lo hanno gestito economicamente percependo finanziamenti da parte italiana per bloccarlo e hanno periodicamente alimentato o bloccato il flusso a seconda delle convenienze politiche del momento e ne hanno approfittato per alzare i prezzi verso chi si proponeva comunque di effettuare il passaggio. A riprova di quello che affermiamo sta il fatto che il transito si stà spostando in Tunisia ora che buona parte dei migranti si sta accorgendo che il passaggio per il tramite della Libia è così difficoltoso.
Da tutto ciò consegue che la politica migratoria di Minniti è stata soltanto il tentativo di mettere una pezza al guaio precedente del governo Berlusconi di aver contribuito insieme agli americani e ai francesi a destabilizzare il paese invece di contrastarne i progetti. Da parte nostra non possiamo dimenticare che a sostenere l’azione di destabilizzazione della Libia fu il demerito presidente della Repubblica Napolitano che tanti danni ha fatto all’Italia. L’ex ministro degli interni oggi sostiene da parte sua che il blocco degli arrivi era soltanto la prima fase della sua politica; sarebbe seguita una fase di integrazione dei migranti me a riguardo facciamo notare che le persecuzioni contro il modello Riace di integrazione sono cominciate durante la sua gestione del ministero degli interni e che comunque la realizzazione di lager per i migranti in Libia è certamente una scelta criminale
Fatta chiarezza sulla celebrata gestione da parte dell’ex Ministro andiamo invece ad esaminare la politica di quella attuale.

Il caporale

L’attuale occupante del Viminale ama farsi definire con un certo vezzo “il comandante”, ma si comporta da caporale. Da un lato pratica la chiusura dei porti alle navi, ma non ai barchini (anche perché non ci riuscirebbe) e conduce una strenua battaglia contro le ONG, presentate come il nemico da battere, in ciò sostenuto dai suoi alleati di governo che le hanno definite taxi del mare, coinvolti come sono nel delirio sovranista salviniano. Ma mentre il sovranismo salviniano è strumentale a un’azione di propaganda elettorale costante volta a captare il consenso degli allocchi e quello dei proletari rancorosi delusi e traditi dalla sinistra buonista e umanitaria, animata dai buoni sentimenti borghesi le posizioni dei cinque stelle sono ispirate da un radicato disprezzo per gli ultimi in quanto a loro dire potenziali clienti del PD e destinatari della pietà delle cosiddette classi dirigenti e dei ceti medi detentori di una cultura borghese.
Quello che ha le idee più chiare e un progetto di gestione economica dell’emigrazione è appunto il caporale il quale è consapevole che lo sviluppo della lotta di classe dipende anche dalla struttura e composizione del mercato del lavoro e dal ruolo che gioca rispetto ai salari la presenza di un esercito industriale di riserva. In quest’ottica i migranti sono i soggetti ideali: I migranti, arrivati clandestinamente, scavalcano i lavoratori autoctoni nella disponibilità allo sfruttamento, disposti come sono a lavorare molto in cambio di poco, magari in nero, a causa del fatto che sono costretti alla clandestinità. Non sono venuti in Italia per comprimere i diritti e i salari dei lavoratori ma di fatto sono costretti a prestarsi al gioco; un’immigrazione senza controllo è destinata inevitabilmente a comprimere i diritti e i salari dei lavoratori.
Il caporale lo sa bene e per mantenere costante il flusso degli emarginati mentre blocca nuovi arrivi toglie la possibilità di regolarizzazione a coloro che stavano per inserirsi, si fa restituire senza batter ciglio migranti dalla Germania e mantiene costante l’ampiezza dell’esercito industriale di riserva. Non solo ma così facendo mantiene alta la percezione sull’ampiezza della popolazione migrante.
Decisamente un capolavoro adatto a sedurre da un lato gli imbecilli e dall’altro i caporali come lui che gestiscono i lavoratori giornalieri e a nero nei tanti San Ferdinando o nelle terre del foggiano, quanto non nelle gli allevamenti del Piemonte della Lombardia del veneto e dell’Emilia Romagna. Non è un caso che qui padroni e padroncini votano Lega.
Alla luce di questi dati di fatto ben si comprendono le radici economiche del razzismo e quindi il radicamento e la radicalità di questo sentire, l’interesse economico che questo nasconde spesso mascherato da considerazioni sul fatto che i Singh amano le mucche quindi e bene che stiano nelle stalle e nei pollai, che gli afgani e gli africani sono frugali e possono ben dormire in un container fatiscenti trattati da re rispetto agli accampati nelle baracche di plastica e rifiuti ferrosi di San Ferdinando, e pazienza se ogni tanto prendono fuoco.

Gli errori della sinistra

Malgrado queste evidenze la critica al governo e alla politica di Salvini sull’emigrazione non aggredisce i nodi strutturali del problema, non si da una strategia e soprattutto non persegue la strada dell’integrazione, dell’alleanza tra ultimi e penultimi, della costruzione con gli operai e i contadi autoctoni, lasciando che lo scontro e le contraddizioni presenti all’interno del mondo degli sfruttati o consumino e corrodano i rapporti di classe.
Il problema andrebbe affrontato sul piano generale, proponendo una politica migratoria caratterizzata dalla programmazione dell’immissione dei migranti sul territorio avendo come fine la sistematica assimilazione dei nuovi venuti. Bisognerebbe non avere pregiudizi religiosi, linguistici e relative agli usi e costumi e porsi come obiettivo l’integrazione partendo dalla parità di salario e difendendo in positivo e le condizioni di lavoro di tutti, nella consapevolezza che non occorre difendere la fortezza nella quale chiudersi per buttar giù dagli spalti la diversità, tutelando esclusivamente la vita degli abitanti del castello perché come all’interno del castello i signori e i villici non hanno niente in comune la comunanza di interessi esiste soltanto tra ultimi e penultimi, che insieme costituiscono le classi subalterne e non certo tra i cittadini di una stessa nazione, ricchi e poveri che siano.
C’è inoltre da considerare che accanto ai migranti diseredati ci sono altri tipi di migranti: quelli che vengono in aereo col visto turistico e poi non ripartono, quelli che giocano sul mercato privilegiato delle professioni, che sono facilitati nell’inserimento dalla loro collocazione di classe. Ciò non significa che non ci sono delle contraddizioni anche tra gli sfruttati, tra quelli che generalmente definiamo classi subalterne.
Queste vanno superate innanzi tutto concedendo la cittadinanza nell’ambito di una migrazione governata e gestita attraverso processi di integrazione culturale e esperienziale e soprattutto con comuni regole nell’accesso al mercato del lavoro e pari salari. Ciò vuol dire impiegare energie e risorse per organizzare i lavoratori immigrati e costruire strutture unitarie di rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
Ma soprattutto vuol dire reintrodurre per tutti garanzie relativamente all’accesso al lavoro, alla salvaguardia delle condizioni di lavoro, all’adozione di misure contro il dumping, sia salariale che fiscale, in modo da ostacolare i processi di delocalizzazione e deindustrializzazione. In altri termini vuol dire abbandonare il neoliberismo rivalutando il ruolo dei poteri pubblici sia nella gestione di tutto ciò che è bene comune sia nell’erogazione dei servizi essenziali: casa, acqua, luce, sanità, sostentamento, mobilità sul territorio che vanno garantiti a tutti. Significa buttarsi dietro le spalle il neoliberismo, le politiche di fiscal compact, il ritorno sotto qualsiasi forma del blairismo. Ad esempio stabilire che il diritto alla casa è tale per tutti e perciò varare un piano di edilizia popolare che passi innanzi tutto dalla requisizione delle case sfitte, la costruzione di nuove case popolari, il risanamento di quelle esistenti e dei servizi dei quartieri periferici. Su questo si può anche fare debito e impegnare le generazioni future, imporre ai più ricchi una tassa patrimoniale progressiva.
Il problema non si risolve limitando il campo dello scontro con il capitale al territorio dello Stato perché uno spazio economico con regole comuni non è oggi costituito soltanto dallo spazio giuridico dello Stato, ma dai centri di potere di gestione e di indirizzo che adottano le scelte per conto dal capitale economico e finanziario che controlla quell’area, dalla forza che il capitale ha di imporsi. Né serve pensare che lo Stato possa fare da argine al dispiegarsi dell’azione di potentati economici, anzi quanto più la forma giuridica dei poteri corrisponde all’ampiezza e agli ambiti di dominio del capitale, l’azione di contrasto al suo potere risulta efficace.
In altri termini non è ritornando ai confini dello Stato nazionale che l’azione di contrasto al capitale soprattutto finanziario da parte delle classi subalterne può avere successo. Il livello dello scontro tra capitale e lavoro è oggi inedito, assume una dimensione globale ed è su questa scala che va combattuta la battaglia. Non esistono scorciatoie possibili. Per farlo la sinistra con tutto il peso delle sue organizzazioni politiche, ma soprattutto sindacali e sociali deve saper contendere al capitale la gestione del territorio, il controllo di processi decisionali che lo governano i sotto sistemi di gestione dei servizi e di distribuzione delle risorse, l’accesso all’energia e alla soddisfazione di tutti i bisogni più elementari, perché solo in questo modo si possono costituire le basi di gestione di un contro potere condiviso in grado di contendere al capitale la gestione della vita sociale e produttiva.
Su questo terreno il caporale non riesce a competere e se la sinistra vuole vincere deve cominciare innanzi tutto a scegliere il campo di battaglia.