Le profonde trasformazioni climatiche indotte dalla crescita di emissioni di anidride carbonica, conseguenza prime dello sviluppo economico del pianeta, hanno alterato e ancor più altereranno l’equilibrio climatico contribuendo ad accentuare la desertificazione di aree sempre più grandi, alimentando una migrazione economica di necessità verso altre aree del pianeta.
Al tempo stesso le aree più sviluppate della Terra e segnatamente l’Europa e il nord America, si caratterizzano per una desertificazione demografica che avanza con ritmo sostenuto e con dimensioni che appare difficile invertire nel breve periodo. I due fenomeni hanno ovviamente cause diverse, ma è singolare che si sviluppino in parallelo.
Le trasformazioni climatiche come è noto sono la conseguenza della costante crescita di emissioni dovute all’uso del carbone e del petrolio, alle lavorazioni industriali, all’allevamento del bestiame e sono accresciute dalla costante deforestazione di larghe e vaste aree del pianeta. Il risultato è la produzione di enormi quantità di gas serra, chiamati così in quanto agiscono un po’ come il vetro di una serra, catturando il calore emesso dalla Terra dopo la ricezione dell’energia solare, impedendogli di ritornare nello spazio, intrappolandola quindi nell’atmosfera. Così, anidride carbonica, metano, protossido di azoto, gas fluorurati vanno ad aggiungersi a quelli naturalmente presenti nell’atmosfera, incrementando l’effetto serra naturale e determinando così il fenomeno del riscaldamento climatico globale. Viene meno in tal modo quell’economia locale basata sulla produttività della terra e l’abitabilità di molte aree del pianeta.
Si dirà che siamo di fronte ad un fenomeno non nuovo e che il nostro è un pianeta vivo che si trasforma costantemente e che dunque questi fenomeni sono nell’ordine delle cose ma a differenza del passato proprio nelle aree limitrofe a quelle diversificate la popolazione continua a crescere. Nella dimensione globale del mondo si manifesta quindi la scelta degli individui più forti a investire nella migrazione alla ricerca di opportunità migliori. L’intervento umano sulle economie di sussistenza e sugli sconvolgimenti le attività delle multinazionali provocano sulle comunità locali: sfruttamento, distruzione del territorio, emarginazione, espulsione dalle sedi naturalmente occupate da millenni e conseguente sradicamento. La scelta di emigrare non è tuttavia solo una scelta individuale ma va ricondotta almeno bell’ambito del clan familiare di provenienza del migrante poiché è questo quando non l’intera comunità che investe sul migrante, per aprire la strada e segnare un cammino.
A ciò si aggiunga che spesso ci troviamo di fronte ad un’emigrazione di necessità dovuta alla guerra o alla persecuzione politica per cui emigrare diviene l’unica scelta possibile per salvare la vita. Ecco perché i luoghi di destinazione dei migranti vengono scelti non solo in funzione delle opportunità economiche di sopravvivenza, ma anche rispetto al potenziale esercizio dei diritti di libertà civile e realizzazione umana. A incentivare la migrazione concorre l’idea che le società economicamente avanzate presentino margini di assorbimento delle forza lavoro e che la retorica di questi paesi nel promuovere i diritti umani debba avere come conseguenza di consentire a chi ne abbia la capacità di sfruttare le potenzialità di una vita migliore attraverso l’impegno, il merito, la libera competizione.
Si creano così tutte le condizioni perché il flusso migratorio si diriga in misura maggiore verso quei paesi che sembrano offrire maggiori opportunità
La decrescita infelice
A loro volta i paesi destinatari dell’emigrazione sono afflitti da una decrescita della popolazione che sembra inarrestabile. La loro decrescita demografica dipende in larga parte dal diminuito tasso di natalità le cui cause sono molteplici. Tra le prime vi sono senza dubbio le politiche familiari, inadeguate a sostenere la crescita demografica, l’assenza di sostegno alla natalità, ma va messa in conto anche la diminuzione della mortalità infantile che fa ritenere superato il pericolo dell’estinzione della specie da scongiurare con un’alta natalità, in modo da garantire comunque la sopravvivenza della popolazione. Così, abbattuti i tassi di mortalità infantile a causa del miglioramento dell’assistenza medica e prolungatasi la durata della vita, si è innescata la tendenza a rinviare l’età nella quale le donne decidono di concepire e ciò anche a causa del crescente e giusto desiderio della donna a realizzarsi nel lavoro e nella vita sociale di relazione e della tendenza delle famiglie ad acquisire sicurezza economica prima di procreare, dando vita una genitorialità responsabile. Inoltre va detto che la crescita della popolazione anziana richiede maggiori risorse fiscali ai giovani, assorbe quelle destinate alle nuove famiglie per cui la procreazione si sposta nel tempo, ad un’età nella quale la donna è meno fertile. Questo insieme di cause ha fatto scendere in molti paesi il tasso di fertilità al disotto del 2,1 soglia sotto la quale la popolazione decresce.
L’Italia che registra il tasso di natalità dell’1,33 va collocata tra i paesi europei a più basso tasso di fertilità dopo la Bulgaria per cui se l’indice di fertilità non aumenterà nei prossimi decenni, nel corso di due generazioni il numero delle donne italiane e quindi degli italiani sarà dimezzato.
L’ineluttabilità dell’emigrazione
I vuoti e le carenze dell’incremento della popolazione vengono compensati da spostamenti di popolazione che vanno esaminati per comprendere quali saranno i cambiamenti indotti nell’assetto etnico del paese. Tassi di crescita particolarmente bassi come quello italiano sono stati compensati attraverso diversi tipi di emigrazione. L’Italia è uno dei paesi che ha attinto largamente all’emigrazione dall’Est Europa dalla Romania e dalla Moldavia (almeno 1 milione e mezzo di migranti) e poi dall’Albania (circa mezzo milione) nonché dall’Ucraina e da altri paesi dell’Est. Questo tipo di migrazione è considerata etnicamente compatibile in quanto molte sono le radici culturali religiose e le tradizioni in comune.
Per quanto riguarda gli albanesi la cui emigrazione è arrivata già alla seconda generazione si tratta di un’antica presenza sul territorio italiano posto che dal XV secolo sono presenti popolazioni arbëreshë in Italia. Va detto tuttavia che le due componenti di popolazione non si sono mai saldate poiché mentre la componente storica si configura come una minoranza territoriale riconosciuta legislativamente la nuova emigrazione si è insediata in modo diffuso nel paese ed è stato sostanzialmente assimilata. Quella rumena è moldava più recente e certamente la più numerosa presenta caratteristiche linguistiche, religiose e di costume certamente compatibili con i caratteri etnici della popolazione italiana e sembra presentare pochi problemi di integrazione culturale. Non può pertanto parlarsi – come si fa da destra – di sostituzione etnica per ciò che riguarda questa parte della popolazione migrante. La consistenza della restante emigrazione proveniente dall’Est Europa non sembra costituire un problema rilevante in quanto ad assimilazione etnica.
Ai gruppi fin qui segnalati vanno aggiunti circa quattrocentomila migranti provenienti da India Bangladesh, Pakistan e Siri Lanka e circa trecentomila provenienti dalla Cina che nel loro complesso rappresentano un numero decisamente esiguo per prefigurare una sostituzione etnica. Altrettanto dicasi per gli emigranti nord africani, provenienti da Marocco Tunisia ed Egitto che nel loro complesso non superano il mezzo milione.
Se si guarda al numero complessivo di migranti cittadini stranieri regolarmente presenti in Italia la prospettiva di una sostituzione etnica, anche a fronte della persistenza della crisi demografica benché paventata dai sovranisti nostrani è del tutto irrealistica. Mancano i numeri e, stante la situazione demografica proiettata nel tempo, questa non è affrontabile si non ricorrendo all’emigrazione, posto che con il decrescere della popolazione calano anche le possibilità di sviluppo economico e che quindi la crisi demografica porterà con se anche quella economica come dimostrano molti studi. Non è un caso che la produttività del sistema Italia non cresce da tempo.[1]
Gli immigrati irregolari
A fronte di questa situazione c’è chi pensa di risolvere il problema ricorrendo ad un esercito stanziale di immigrati irregolari, un coacervo indistinto di uomini e donne al quale attingere secondo il bisogno. La metafora da noi utilizzata non è casuale e si riferisce a quel mondo di immigrati irregolari, per lo più africani e quindi di pelle nera, buttati in fondo al pozzo dell’illegalità e legislativamente confinati, ai quali si attinge per i lavori più umili e malpagati e che sono respinti al margine dell’illegalità, ma con la funzione politica di tener viva la paura del diverso e di stimolare gli istinti razzisti della popolazione.
Certo c’è del vero nel fatto che emarginazione, illegalità della propria condizione, alimentano comportamenti criminali, offrono terreno di coltura allo spaccio, alla prostituzione, al caporalato di basso livello, che però è quello che porta i lavoratori sui campi a prezzi stracciati e li fa vivere nelle baraccopoli e in condizione di assoluta indigenza, ma si tratta di caporalato di Stato, voluto dalle leggi, dai regolamenti, dalla cultura dell’illegalità programmata e di necessità, dal razzismo di Stato.
Da qui i decreti sicurezza 1 e 2 volti apparentemente alla chiusura dei porti e al contrasto agli arrivi ma in realtà finalizzati alla chiusura degli SPRAR, a ricacciare i richiedenti asilo nell’illegalità a criminalizzare i migranti irregolari perché siano ricattabili e costituiscano una merce a perenne disposizione del mercato del lavoro.
Svolgeranno così una doppia funzione;
a) contribuiranno a far credere alla popolazione che la consistenza dei migranti è pari al 25 % della popolazione quando tra quella regolare che abbiamo descritto e quella irregolare non supera 8,5% della popolazione;
b) costituiranno un serbatoio di manodopera ricattabile da utilizzare per abbassare il livello di contrattazione del salario e dell’occupazione dei lavoratori (italiani e immigrati regolari che siano).
Non c’è che dire un capolavoro del caporale!
[1] Per tutti: Antonio Fazio, Sviluppo e declino demografico in Europa e nel mondo, Edizioni Marietti Roma, 2012.