LA SINISTRA, GLI ULTIMI E I PENULTIMI

Da tempo si parla a sinistra di una riflessione autocritica che aiuti a capire le cause della crisi di rappresentanza delle classi subalterne che essa attraversa e delle ragioni dei crescenti consensi verso la destra in Italia e non solo: a questa domanda cerca di rispondere Federico Rampini nel suo ultimo libro ”La notte della sinistra”, Mondadori, 2019 ma la lettura delle sue considerazioni induce ad andare oltre.

Rampini ricorda che da troppo tempo le sinistre hanno abbracciato la causa dei top manager, dell’Uomo di Davos; del globalismo visto come un fatto positivo, mentre questo processo impoveriva le classi subalterne e significativamente ricorda che la sinistra è diventata il partito dello spread, che tifa per l’Europa «a prescindere», adotta e pratica le sue scelte liberiste e accetta che essa sia governata dalle oligarchie che praticano la pirateria fiscale (con riferimento a Lussemburgo e Olanda) a danno degli altri paesi dell’Unione, in buona sostanza un’Europa che fa propri i parametri dei tecnocrati.
Rispondendo alla domanda su come tutto questo sia stato possibile l’autore elenca una serie di errori e sul piano internazionale ricorda che non è stato Trump, ma la polizia messicana a far scrivere un numero — in pennarello — sul braccio dei bambini alla frontiera, non è stato Trump ma Clinton ad avviare la costruzione del Muro, non è stato, Trump ma Obama a ordinare di separare i figli dai genitori migranti, non sono stati i governi della destra a smantellare le conquiste operaie ma quelli della sinistra.

Il tradimento

E’ stata ancora una volta la sinistra a non accorgersi degli operai che hanno perso il lavoro per le delocalizzazzioni e la crescita dell’automazione, o dei «nuovi operai», del progressivo degrado delle condizioni di lavoro, del commesso di Amazon, del centralinista dei call center, dei giovani precari. Assecondando le politiche neo liberiste la sinistra ha accelerato la destrutturazione del rapporto di lavoro e per fermare lo sguardo all’Italia ah inaugurato la politica dell’EUR, procedendo al sistematico smantellamento delle conquiste operaie del ciclo di lotte precedente: scala mobile, art 18 e varo del job Act, come pietra tombale definitiva su quelle che furono le conquiste operaie. Per la sinistra l’abbattimento del contenzioso costituito dalle cause di lavoro è diventato un obiettivo da perseguire e realizzato con successo, anche se ciò ha significato la cancellazione dei diritti dei lavoratori. Altrettanto dicasi per la cassa integrazione i cui costi sono sempre stati pagati dai lavoratori, oggi abolita.
Come non odiare, non considerare nemica la sinistra e i suoi partiti. Il sogno di ogni lavoratore è stato quello di appendere i responsabili di tutto ciò a dei ganci da macellai come maiali squartati, ma non potendo e non riuscendo a farlo per mancanza di forze hanno guardato altrove.
Per capire basta ricordare che dopo il più grande ciclo di lotte degli inizi del novecento in Italia, culminato nell’occupazione delle fabbriche, il giorno dopo il tradimento confederale e l’abbandono delle fabbriche Mussolini scrisse sul Popolo d’Italia rivolto alla sinistra: Avete tradito, i lavoratori non ve lo perdoneranno ! E ora vi prenderemo uno ad uno e vi distruggeremo. E così fece col consenso degli italiani!
Erano state create le basi di massa del fascismo, o se preferite dire oggi, mutatis mutandis la condizioni per il successo della Lega. E il regime durò 20 anni e cadde perché il proletariato italiano riuscì ad approfittare dello scontro intercapitalistico e inserì la propria lotta nel conflitto mondiale

Il ruolo dell’emigrazione oggi

Dimentichi dei penultimi – i lavoratori del proprio paese – la sinistra ha rivolto la sua attenzione ai migranti, cioè agli ultimi nella catena dello sfruttamento, non accorgendosi che così facendo abbandonava le sue radici, praticando una sorta di pietismo buonista, in nome della tutela dei diritti umani. Rampini ricorda che “”Non a caso i due presidenti-icona del progressismo del XX secolo, Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy, fecero una politica molto dura sull’immigrazione, chiudendo di fatto le frontiere; mentre i capitalismi d’assalto di frontiere non vogliono sentir parlare, perché hanno bisogno di manodopera a basso costo”. I migranti, arrivati clandestinamente, a volte scavalcano i lavoratori autoctoni, disposti come sono a lavorare molto in cambio di poco, magari in nero;” del resto, se sono entrati in un Paese violando le sue norme, perché dovrebbero rispettarle in seguito?”- rileva Rampini – e aggiunge, “i messicani o gli africani non sono certo venuti in America o in Italia per comprimere i diritti e i salari dei lavoratori; ma un’immigrazione senza controllo è destinata inevitabilmente a comprimere i diritti e i salari dei lavoratori.”
Queste considerazioni non sono prive di fondamento e in effetti lo sviluppo della lotta di classe dipende anche dalla struttura e composizione del mercato del lavoro e dal ruolo che gioca rispetto ai salari la presenza di un esercito industriale di riserva più o meno ampio.
Ma è lecito chiedersi: al di là di ogni considerazione umanitaria è realistico oggi pensare a una chiusura delle frontiere a fronte della guerra e della sofferenza di milioni di persone. E ancora, soprattutto, di fronte a una crescente emergenza climatica fino a che punto è realistico pensare di arrestare il fenomeno migratorio.

Che fare

Il problema perciò si affronta sul piano generale, varando una politica migratoria fatta di governo dei flussi e di predisposizione di strumenti di governo della fase di immissione dei migranti nel territorio ricevente. Altre volte nella storia gli Stati maggiormente sviluppati hanno dovuto affrontare il problema migratorio e a cominciare dall’impero romano lo hanno affrontato con provvedimenti giuridici e sociali che avevano come fine la sistematica assimilazione dei nuovi venuti.
Intelligentemente i nostri antenati non avevano pregiudizi religiosi, linguistici e di usi e costumi. Ma erano consapevoli della desiderabilità del loro “modello” di civiltà dal confronto con quella dei migranti sarebbe uscita trasformata, ma che questo processo è nell’ordine delle cose. La vita dei popoli è la vita delle donne e degli uomini e come tale nasce, cresce e si trasforma e così facendo si rinnova e rafforza. È la vita. Il problema non è dunque sognare la fortezza nella quale chiudersi per buttar giù dagli spalti la diversità, tutelando esclusivamente la vita degli abitanti del castello perché come all’interno del castello i signori e i villici non hanno niente in comune la comunanza di interessi esiste soltanto tra ultimi e penultimi, che insieme costituiscono le classi subalterne e non certo tra i cittadini di una stessa nazione, ricchi e poveri che siano. Ciò non significa che non ci sono delle contraddizioni tre gli sfruttati tra quelli che generalmente definiamo classi subalterne. Queste vanno superate innanzi tutto concedendo la cittadinanza nell’ambito di una migrazione governata e gestita attraverso processi di integrazione culturale e esperienziale e soprattutto con comuni regole nell’accesso al mercato del lavoro e pari salari. Ciò vuol dire impiegare energie e risorse per organizzare i lavoratori immigrati e costruire strutture unitarie di rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
Ma soprattutto vuol dire reintrodurre per tutti garanzie relativamente all’accesso al lavoro, alla salvaguardia delle condizioni di lavoro, all’adozione di misure contro il dumping, sia salariale che fiscale, in modo da ostacolare i processi di delocalizzazione e deindustrializzazione. In altri termini vuol dire abbandonare il neoliberismo rivalutando il ruolo dei poteri pubblici sia nella gestione di tutto ciò che è bene comune sia nell’erogazione dei servizi essenziali: casa, acqua, luce, sanità, sostentamento, mobilità sul territorio che vanno garantiti a tutti. Significa buttarsi dietro le spalle il neoliberismo, le politiche di fiscal compact, il ritorno sotto qualsiasi forma del blairismo. Ad esempio stabilire che il diritto alla casa è tale per tutti e perciò varare un piano di edilizia popolare che passi innanzi tutto dalla requisizione delle case sfitte, la costruzione di nuove case popolari, il risanamento di quelle esistenti e dei servizi dei quartieri periferici. Su questo si può anche fare debito e impegnare le generazioni future, imporre ai più ricchi una tassa patrimoniale progressiva.
Il problema non si risolve limitando il campo dello scontro con il capitale al territorio dello Stato perché uno spazio economico con regole comuni non è costituito dall’entità giuridica dello Stato ma dai centri di potere di gestione e di indirizzo che o adottano le scelte per conto dal capitale economico e finanziario che controlla quell’area, e dalla forza che esso ha per imporle. Ne serve pensare che lo Stato possa fare da argine al dispiegarsi dell’azione di potentati economici, anzi quanto più la forma giuridica dei poteri corrisponde all’ampiezza e agli ambiti di dominio del capitale, l’azione di contrasto al suo potere può risultare efficace.
In altri termini non è ritornando ai confini dello Stato nazionale che l’azione di contrasto al capitale soprattutto finanziario da parte delle classi subalterne può avere successo. Il livello dello scontro tre capitale e lavoro è oggi inedito, assume una dimensione globale ed è su questa scala che va combattuta la battaglia. Non esistono scorciatoie possibili. Per farlo la sinistra con tutto il peso delle sue organizzazioni politiche ma soprattutto sindacali e sociali deve saper contendere al capitale la gestione del territorio, il controllo di processi decisionali che lo governano i sotto sistemi di gestione dei servizi e di distribuzione delle risorse, l’accesso all’energia e alla soddisfazione di tutti i bisogni più elementari, perché solo in questo modo si possono costituire le basi di gestione di un contro potere condiviso in grado di contendere al capitale la gestione della vita sociale e produttiva.

Gianni Cimbalo