BREXIT: I CONTI SENZA L’OSTE

La Gran Bretagna decise di entrare nell’Unione Europea il 1 gennaio 1973, costretta dall’ormai inarrestabile sfaldamento del suo impero coloniale. Il Regno Unito, così come anche la Francia e altri imperi coloniali, tentarono invano di resistere alla loro disgregazione, anche se l’ex impero britannico smetterà di esistere ufficialmente soltanto nel 1997[1]. Dopo 45 anni di permanenza nell’Unione, durante i quali il paese si è integrato e coordinato con le politiche degli altri Stati, il 29 marzo prossimo dovrebbero essere interrotti i rapporti economici ed istituzionali, ma l’operazione si rivela politicamente difficile.

Divorzio istituzionale

Ma cos’è che impedisce alla Gran Bretagna di riprendere il suo ruolo autonomo nello scacchiere internazionale ? Il principale ostacolo è costituito dagli effetti della decisione obbligata della Gran Bretagna, in base ai trattati CEE, a rinunciare a regolamentare in proprio non solo la legislazione in materia commerciale e societaria ma di un’insieme di materie sulle quali l’ordinamento britannico ha delegato la normazione all’Europa consentendo che questa divenisse immediatamente efficace sul proprio territorio. Un ritiro senza accordo e senza l’approvazione del Bill (in effetti di più di una legge) che sana i vuoti normativi getterebbe il paese nel caos. A ciò si aggiunga la necessità, conseguente alla Brexit, di normare sull’efficacia della giurisprudenza della Corte EDU in Gran Bretagna e dell’efficacia delle sue sentenze nel Regno Unito.
A questi riflessi istituzionali gravissimi se ne aggiungono altri. Ad esempio è molto probabile che il divorzio fra Unione europea e Regno Unito comporterà un nuovo referendum per l’indipendenza in Scozia, posto che in Scozia la maggioranza ha votato a favore della permanenza nell’Unione Europea. La eventuale secessione della Scozia significherebbe tra l’altro rinunciare al petrolio del mare del Nord e a un legame secolare che metterebbe in crisi la corona britannica.
Ma mentre il pericolo scozzese è ipotetico non altrettanto avviene per Irlanda del Nord dove dovrebbe essere ripristinata la frontiera con il sud dell’isola, rimettendo in discussione il processo di pace che ha posto fine a una sanguinosa e costosissima guerra sul piano dei morti come dei conti economici e sociali.
Ci sono insomma mille ragioni per temere un disastro tanto più nel caso di un’uscita dall’Unione senza accordo e ciò a causa dell’ingestibilità dei rapporti commerciali del paese che nell’arco di 45 anni di adesione ha costruito interdipendenze, connessioni economiche e rapporti integrati di produzione difficili da recidere. Prima che l’Inghilterra sia in grado di operare secondo le regole del Wto, ci sono nove statuti e 600 strumenti statutari che dovrebbero essere adottati con la conseguenza di dover produrre e approvare in breve tempo un’enorme quantità di legislazione interna.

Curarsi meno mangiare peggio con costi maggiori

Ad esempio un immediato effetto negativo si avrebbe per quanto riguarda da possibilità del sistema sanitario nazionale di continuare a erogare farmaci di largo ed essenziale consumo. Stando a quanto afferma una multinazionale svizzera che opera nel settore farmaceutico “Ci sono 84 farmaci generici molto importanti che già oggi non si riescono ad avere e presto diventeranno 200”, spiega Graham Phillips, del Pharmacy Group. “Penso sarà difficile per certi tipi di farmaci. In alcuni casi dovremo rimpiazzare il generico con uno di una marca che rischia di essere 10 volte più cara. Se riusciremo a riceverlo, tra l’altro”. Questa notizia è stata confermata durante il recente dibattito in Parlamento sull’approvazione della proposta May dal ministro per la Brexit Stephen Barclay, il quale ha affermato che i farmaci e i prodotti medici sono la nostra priorità; le capacità di trasporto di questi prodotti via mare sono già state aumentate”. A pagare il prezzo di una no deal-Brexit non sarebbero però solo i britannici, ma anche i pazienti del resto d’Europa che dipendono dai farmaci prodotti in Inghilterra.
Inoltre una Brexit senza accordo potrebbe raddoppiare i prezzi per alcuni prodotti come la carne e i latticini, mentre aumenterebbe il rischio di dispute commerciali e sanzioni, come risultato di un ridotto accesso al mercato britannico per le imprese tanto che nel giro di 15 anni si avrebbe un Pil inferiore del 10,7% rispetto allo scenario della permanenza del Paese nell’Ue. Questo perché non è possibile alcuna “transizione graduale” alle regole del Wto e il Regno Unito dovrà iniziare a negoziare oltre 50 accordi di libero scambio partendo da zero e pagando nel frattempo i dazi.
Sono questi i motivi che consigliano di continuare la trattativa fino a dopo il 29 marzo ma non si può comunque andare oltre il 30 giugno, perché allora il nuovo Parlamento europeo sarà costituito. La May, nel dibattito parlamentare del 29 gennaio ha ottenuto il mandato a chiede modifiche al backstop, ma i leader U. E. finora si sono rifiutati, affermando che l’accordo “non è aperto a rinegoziazioni” e “include il backstop”.

La Brexit e i limiti di Corbyn

La fortuna della May risiede nel fatto che il partito laburista è tutt’altro che compatto sulla opposizione alla Brexit. L’obiettivo del suo leader è infatti la caduta del governo e nuove elezioni, piuttosto che quella di fare propria la posizione di coloro, e sono un numero crescente nel paese, che vorrebbero non uscire dall’Unione, magari ricorrendo a un nuovo referendum. Corbyn considera prioritario intervenire su riforme di carattere strutturale e sociale, dando attuazione ad un programma che dovrebbe porre rimedio ai guasti del neoliberismo e alle scelte di Tony Blair, è tutto proiettato sulla politica interna e sulla caduta del Governo senza rendersi conto che per ottenere questo risultato ha bisogno di alleanze.
Per Corbyn è più importante intervenire sulla gestione delle ferrovie ripristinando la gestione pubblica, sulla politica degli alloggi, sul sistema di istruzione, ma non si rende conto che una diminuzione del Pil e una crisi profonda dell’economia costituiscono un ostacolo insormontabile che impedisce qualsiasi riforma e quindi sbarra la strada del potere al Labour .
Saranno forse la forza le cose e le difficoltà strutturali e di gestione della Brexit ad imporre un ripensamento e la crescente consapevolezza che un rapporto privilegiato e storico con gli Stati Uniti non può sostituire i benefici derivanti dal mercato unico europeo. L’Inghilterra di oggi è l’ombra di quella imperiale di ieri. La sua composizione sociale e culturale sta mutando irreversibilmente e un ripristino dell’alleanza anglo sassone e dell’atlantismo è oggi impraticabile. Presto Inghilterra rurale che ha votato la Brexit, ma anche parte della vecchia classe operaia, costituirà la parte residuale del paese a fronte dei giovani che chiedono più integrazione internazionale e un rapporto con l’Europa della quale si sentono parte.
E’ tempo che anche Jeremy Corbyn se ne renda conto.

[1] Appena un anno prima di entrare a far parte della CEE, nel 1972 la Gran Bretagna aveva lasciato l’EFTA (organizzazione europea di libero scambio) nata nel 1960 come risposta alla CEE, di cui faceva parte fin dalla sua fondazione.