Come uscire dall’uscita? È l’interrogativo un po’ kafkiano che arrovella la popolazione di quella che fu la Gran Bretagna. Simbolo di questo guado in cui sono impantanati gli inglesi è la premier May, campionessa mondiale di sopravvivenza. È lontana la iattanza con cui i brexiter hanno festeggiato l’inattesa vittoria referendaria. Anche la Lega nostrana ha smesso di sbandierare l’esempio britannico come punto di riferimento virtuoso di fuoriuscita dall’Unione.
Invero la vandea inglese ha col voto fatto sì che il “leave” vincesse, basandosi sulla non estinta convinzione che l’isola, un tempo centro di un vastissimo impero, fosse ancora una forza economica in grado di ottenere vantaggi notevoli dal proprio isolamento. La propaganda ha fatto leva su questo sentimento orgoglioso, diffondendo un incauto ottimismo. Così l’Inghilterra profonda e rurale ha trionfato sulle minoranze scozzesi, gallesi e nordirlandesi e sulla parte produttiva del paese, aprendo la via alla dissoluzione della “Gran Bretagna”. Quello che non era stato messo nel conto è che da tempo la struttura produttiva del Paese si era fortemente indebolita e che la City era divenuta il motore vero dell’economia nazionale, trasformando lo Stato in una potenza finanziaria e non più industriale.
Eclissatosi Cameron, che aveva legato il proprio futuro politico al “remain” e che quindi, preso atto della sconfitta si era dimesso (tenendo fede alla parola data, non come i politici nostrani), la guida del processo della rescissione dei rapporti con l’Unione Europea veniva assunto da Theresa May, leader poco duttile e molto spregiudicata. I problemi imprevisti avrebbero fatto tremare “le vene ai polsi” a chiunque, ma non alla nostra intrepida signora. Prima di tutti quelli politici legati ad una difficile trattativa con la Commissione Europea decisa a non cedere troppo sul fronte dei debiti contratti dalla Gran Bretagna. Ed ancora quelli politici legati all’insofferenza della Scozia dall’allontanamento dalla UE, con la conseguente minaccia di un nuovo referendum indipendentista, stavolta certamente vittorioso, che priverebbe l’Inghilterra del prezioso petrolio del Mare del Nord.
Esistono poi dei problemi istituzionali, quelli dei confini; problemi non risolti nell’accordo che ancora deve essere votato dal Camera dei Comuni. Il più noto è quello della frontiera tra Irlanda del Nord e Repubblica Irlandese: fino ad ora le due parti dell’isola irlandese facevano entrambe parte dell’Unione Europea e, pertanto, non esisteva alcuna barriera doganale, il che ha nel tempo favorito un fiorente interscambio commerciale, destinato ad essere interrotto dalla separazione del Nord dal territorio repubblicano. Un problema analogo esiste tra Gibilterra e la Spagna. Non a caso i nordirlandesi hanno votato in maggioranza contro la Brexit ed il voto per il “remain” a Gibilterra è stato plebiscitario.
Ma i problemi più rilevanti provengono dal fronte economico. Già in previsione dell’autonomia britannica molte banche e molti istituti hanno lasciato Londra, preferendo spostarsi altrove; gli operatori finanziari hanno scelto quale nuova sede Frankfurt am Main. Come detto, da tempo l’economia d’oltre Manica ruotava intorno alla finanza, piuttosto che attorno alla produzione. L’allontanamento degli istituti finanziari ha provocato una drastica riduzione del valore della sterlina, e il trasferimento degli operatori e dei ricercatori stranieri, non più sicuri di avere un futuro a Londra, ha avuto come conseguenza un crollo dei valori degli immobili della città. Il peggio, però, deve ancora venire: stime accreditate e concordi tra tutti gli istituti di previsioni economiche prevedono una decisa contrazione del PIL a seguito dell’uscita, più forte in caso di Brexit hard (senza accordo), meno marcata in caso di Brexit soft (con accordo): comunque un calo della ricchezza e quindi un accentuarsi della crisi economica.
Alla fine di un faticoso percorso l’inquilina di Downing Street 10, ha concluso un accordo con la Commissione Europea, ma questo gli ha procurato notevoli problemi non solo, come prevedibile con gli oppositori laburisti e socialdemocratici, ma pur anche con gli alleati unionisti nordirlandesi, che con i loro pochi voti rendono possibile la sopravvivenza del suo Governo in Parlamento. Quello stesso Governo che nell’indomani della sigla dell’accordo ha perso ministri importanti in dissenso con la linea seguita nella trattativa. Un terzo del partito della May ha posto per questo la questione di sfiducia attraverso cui la premier è passata indenne nel partito. Ma in Parlamento la questione è diversa. Contrari all’accordo le opposizioni, i nordirlandesi e una buona fetta dei parlamentari tory, l’intrepida condottiera non ha alcuna speranza di ottenerne l’approvazione, per cui ha rinviato di oltre un mese il voto parlamentare, nella vana speranza di convincere qualcuno che è meglio un brutto accordo piuttosto che nessun accordo.
Appare inspiegabile, al momento, la posizione del leader laburista Jeremy Corbyn. Divenuto segretario del partito con il favore della base e contro il parere del vecchio apparato, ha in poco tempo spazzato via gli ultimi tossici resti del blairismo, imprimendo, nonostante l’età, una svolta radicale alla linea fino ad allora fin troppo compromissoria. I consensi elettorali sono rapidamente saliti e quando, con una mossa azzardata ed a sorpresa, la May ha anticipato le elezioni, fidando di rafforzare la propria maggioranza, il Labour ha sfiorato inaspettatamente il successo, costringendo i conservatori ad una difficile alleanza con gli unionisti. Ora che il Governo tory sta vacillando e non trova una via d’uscita alla situazione in cui si è incautamente inoltrato, ora che da molte parti (compresi gli ex primi ministri Blair, laburista, e Maior, conservatore) si alza sempre più forte la richiesta di un nuovo referendum che vedrebbe i britannici più consapevoli delle conseguenze della Brexit, lui, Corbyn, prende tempo, tentenna, sfida la May personalmente chiedendone la sfiducia (passo evitabile dal Governo), invece di presentare una mozione per far dimettere l’intero esecutivo. Mai la situazione è stata così favorevole per i laburisti negli ultimi otto anni, dal mesto declino dello scolorito Gordon Brown, che aveva segnato una pesante eclisse, apparentemente irreversibile, del partito. Eppure lui tentenna.
Da venti anni i guasti della svolta neoliberista dei partiti socialdemocratici ne aveva segnato una crisi profonda, fino a decretarne la scomparsa pressoché totale in Francia ed Italia, o sconfitte dure e ripetute in Germania e molti altri paesi. La comparsa di personaggi più legati ad una tradizione meno compromissoria con la finanza internazionale e con i corifei della globalizzazione, più attenti alle istanze dei ceti più deboli, aveva aperto dei varchi di speranza che una visione politica più spostata “a sinistra” potesse trovare uno spazio non marginale: Spencer negli Stati Uniti, Sánchez in Spagna, Mélenchon in Francia e Corbyn, appunto, in Gran Bretagna. Sarebbe un vero peccato se la timidezza attuale, l’indecisione di quest’ultimo gli impedisse di raggiungere un traguardo ormai veramente a portata di mano.
Saverio Craparo