UNA RADIOGRAFIA D’AMERICA

Non vi è genitore assennato, magari un po´all’antica, che non sappia dell’inopportunità (quanto meno) di premiare la prole prima ancora che essa abbia fatto alcunché per meritarlo. Con il Nobel per la pace a Obama è successo qualcosa di similare. Non si è trattato solo di un premio apriori, ma c’erano a ben vedere tutti i presupposti perché dopo quel beneficiario non potesse meritarlo. Il buon Obama, infatti – indipendentemente dall’essere buon oratore, bello, nero, etc. etc. – era uomo dell’establishment, e come Presidente degli Stati Uniti inevitabilmente avrebbe gestito il suo potere in favore di ben concreti interessi capitalisti e imperialisti planetari. I suoi progetti riformisti, di cui oggi è visibile lo sforzo per introdurre un’assistenza sanitaria generalizzata sono quanto di più compatibile col sistema ci sia, e possono fare gridare al socialismo solo gli ottusi conservatori yankees (addirittura la taccia di bolscevismo, ricordiamolo, fu data a Franklin Delano Roosevelt all’epoca del New Deal). Talché un avveduto osservatore avrebbe potuto prevedere che, forse, la sua politica globale si sarebbe differenziata da quella di Bush solo per il fatto di essere Obama meno cretino.

Oggi sono visibili vari elementi: gli Stati Uniti sono sempre più “incartati in Afghanistan” sui piani sia poltico sia militare; il rischio di un nuovo conflitto contro l’Iran è ancora pendente; un intervento nello Yemen non è escludibile allo stato delle cose; in Pakistan (che ha l’atomica) qualcosa potrebbe accadere a medio termine; l’Arabia Saudita – centro di diffusione e di appoggio del peggiore estremismo islamico in tutto il mondo – è ancora considerata un’alleata degli Usa; e in America Latina l’arroganza imperialista opera ancora, quand’anche se ne parli molto poco.

Per esempio, non si mette in evidenza quale manna sia stata per Washington il sisma che ha devastato Haiti. Ultimamente in quella regione – da sempre rientrante nel cortile di casa statunitense – si andavano sviluppando pericolosamente le influenze politiche ed economiche di Cuba e del Venezuela, e quest’ultimo oggi è il maggior creditore di quella povera repubblica. Ebbene, il sisma ha consentito a Washington, dietro il paravento dell’aiuto umanitario, di occupare militarmente Haiti senza colpo ferire e senza suscitare reazioni internazionali, e di essere in grado di ridisegnarne il futuro. Il 21 di questo mese di gennaio varie agenzie di stampa internazionali hanno denunciato un fatto sintomatico: stante l’attuale carenza di ospitalità alberghiera, al terminal dell’aeroporto di Port au Prince si erano installati vari giornalisti stranieri; ebbene all’improvviso i militari statunitensi si sono liberati di tanti scomodi osservatori di come essi gestivano l’aeroporto, e il flusso degli aiuti, intimando lo sgombero in tempi brevi. Altrettanto sintomatiche le proteste della sezione francese di Medici Senza Frontiere, che la ha denunciato l’impedimento frapposto all’atterraggio di propri aerei sempre da parte di militari yankees.

Sempre in America Latina abbiamo: l’irrisolta situazione honduregna, la continuazione della politica anticubana, la vittoria in Cile del “Berlusconi” locale (Sebastián Pinera), il rafforzamento della presenza militare statunitense in Colombia (installazione di 7 basi), le minacce alla Bolivia di Morales e all’Ecuador, e i non archiviati propositi di mettere in difficoltà Chavez in Venezuela e, magari, di farlo cadere. Escludere che Washington stia varando una nuova strategia golpista, o quanto meno destabilizzatrice nell’area sarebbe un atteggiamento degno del Candido di Voltaire.

Quello che è accaduto in Honduras a Zelaya può essere visto come l’inizio di un processo volto a ristabilire del tutto il vecchio ordine delle cose: si è trattato di un golpe preparato con discreta cura, a cui hanno fatto seguito da Washington solo proteste formali di circostanza; ma quando gli Stati dell’Unione Europea hanno ritirato gli ambasciatori da Tegucigalpa, gli Stati Uniti – dopo che Obama aveva fatto la sua bella figura mostrando il “volto buono” del suo paese – si sono ben guardati dall’imitarli, e non hanno interrotto gli aiuti economici e militari al governo di Micheletti. Si tenga presente che l’ambasciatore Usa in quella repubblica delle banane – Hugo Llorens – è un esule cubano naturalizzato, e che il comando dell’aviazione honduregna si trova ubicato nella base militare statunitense di Palmerola. L’improvviso ritorno di Zelaya nel paese, rifugiandosi nell’ambasciata brasiliana, ha un po’ scombinato le cose, ma Washington ha trattato con i golpisti l’indizione di nuove elezioni presidenziali con tanti saluti al fatto che un Presidente regolarmente eletto esiste, ed è Zelaya, con tanti saluti per la legalità costituzionale e democratica. A novembre dello scorso anno quelle elezioni-farsa sono state vinte dal miliardario Porfirio Lobo, compagno di università del Sottosegretario di Stato yankee Thomas Shanon, ma con la bellezza di un’astensione superiore al 60%! Ci si può scommettere che, una volta insediato Lobo alla presidenza con l’avallo di Washington (che in tal modo riconosce risolta la crisi) gli Stati dell’Ue si adegueranno alle scelte del padrone statunitense.

Per quanto riguarda la Colombia, la diffusione del testo inglese dell’accordo fra Washington e Bogotá, ha confermato quello che già si sospettava: le truppe Usa combatteranno contro le guerriglie delle Farc e dell’Eln, e in più potranno da lì intervenire dove la Casa Bianca ordinerà di farlo. Il Presidente brasiliano Lula (una vera delusione globale sulla base del suo passato), mentre è conciliante con collega colombiano Uribe se la prende con Chavez, l’ecuadoriano Correa, e Morales e la sua politica neoliberista ha il pieno appoggio Usa. Il Brasile – gigante macroeconomico – manifesta però un’indocilità poco piacevole nel perseguire i suoi interessi specifici. Già la ratifica del parlamento brasiliano all’ingresso del Venezuela nel Mercosur non è andato molto giù a Washington, e adesso c’è il problema del sucre, la moneta con cui Brasilia vuole sostituire il dollaro nelle transazioni internazionali nell’area. Il peruviano Alan Garcia, invece, non crea problemi.

A essere palesemente nel mirino è il Venezuela, con la sua discussa rivoluzione bolivariana. Qui prima o poi accadrà qualcosa di poco piacevole, e la recente violazione dello spazio aereo venezuelano da parte di un aereo militare Usa è chiaramente un segnale terrorista. Inoltre il governo di Chavez non se la passa proprio bene sul piano interno. L’opposizione di destra, politica ed economica, è sempre attiva; il calo del prezzo del greggio ha ridotto le entrate e quindi le risorse finanziarie per sostenere sia i progetti di alfabetizzazione sia gli aiuti alimentari sia gli interventi sanitari (questi ultimi con l’aiuto di missioni cubane) per la popolazione più povera. Ci sono stati di recente ingiustificate interruzioni nella distribuzione dell’elettricità, e certe catene di supermercati hanno aumentato immotivatamente i prezzi, con la conseguenza dell’intervento governativo manu militari. Al riguardo il Partito Comunista Portoghese ha sostenuto che in tal modo Chavez sta mettendo le basi per una catena socialista di mercati popolari: dubitare di questo valutazione è legittimo. Sul piano politico la situazione non è bellissima. Il chavista Partido Socialista Unido da Venezuela in fondo è stato il frutto di una certa precipitazione organizzativa e psicologica: partito del Presidente, è organizzato verticisticamente e lo spazio partecipativo della base è minimo. In esso, peraltro, non si sono integrate due organizzazioni che pure appoggiano Chavez – il Partido Comunista da Venezuela e Patria para Todos. Le connotazioni del “Socialismo del secolo XXI” sono abbastanza confuse, e dire in che cosa consista (populismo a parte) non è per niente agevole. In più vari ingranaggi dello Stato (per non parlare dell’economia) sono nelle mani di una borghesia tipicamente latinoamericana. Questa borghesia controlla parte significativa del settore bancario e finanziario oltre che di quello dei mass-media, e domina la produzione industriale ed agricola e il commercio. Come si fa a parlare di socialismo in queste condizioni?

In definitiva la forrza del governo di Chavez sta nella popolarità personale del Presidente, popolarità risultante però in calo secondo certi recenti sondaggi. Un aggravamento della crisi economica avrebbe effetti non secondari. E le forze armate? Finora stanno quiete. Domani chissà, e le masse chaviste sarebbero alla loro mercè.

Oggetto delle pericolose attenzioni di Washington sono anche Bolivia e Equador. Nel primo di essi il Presidente Morales si fa forte dell’appoggio delle masse aymara e quechua, cioè della maggioranza della popolazione. Non gli si può imputare di aver tradito gli impegni elettorali, e non ha esitato a scontrarsi con gli Stati Uniti e le multinazionali brasiliane e spagnole. Tuttavia la sua formazione politica – il Mas – per quanto conti più di 2/3 dei membri del parlamento è ancora un movimento piuttosto che un vero e proprio partito. Forse più indigenista che socialista. E, come spesso accade, Morales ha le sue serpi in seno. Il vice-presidente, García Linera, per esempio, oltre a essere affascinato dal recente pensiero di Toni Negri, è fautore di un capitalismo andino-amazzonico piuttosto confuso ma non certo rivoluzionario. E poi resta sempre aperto il fronte del separatismo della ricca provincia di Santa Cruz, i cui esponenti hanno stretti legami con l’ambasciata Usa e quindi con la Cia.

Infine c’è l’Ecuador di Rafael Correa. Definirlo un socialista è esagerato: si tratta di un onesto riformatore anti-neoliberale la cui colpa è stata la sacrilega decisione di non rinnovare la concessione della base militare di Manta agli Statui Uniti. Nel continente americano atti del genere sono sempre bastati per essere considerati pericolosi e sovversivi da Washington (non si dimentichi che agli inizi del secolo scorso il diniego del rinnovo della concessione della base di Ensenada alla marina statunitense fece perdere al dittatore messicano l’appoggio di Washington, con la conseguenza che gli Stati Uniti cominciarono ad aiutare il suo rivale Francisco Madero). Dalla base di Manta gli yankees hanno collaborato con l’aviazione colombiana quando essa bombardò nel territorio dell’Equador l’accampamento Farc del comandante Raúl Reyes.

Il battage contro l’integralismo islamico mette in ombra quanto si sta tramando in America Latina. Non potendo noi fare altro, per lo meno prestiamo la debita attenzione a quanto accade, senza stancarci di denunciare.

Pierfrancesco Zarcone