Tra i pochi episodi di storia patria che gli statunitensi conoscono c’è quello che va sotto il nome di Boston Tea Party che ricorda la protesta politica contro la tassazione britannica, messa in atto dai coloni di Boston il 16 dicembre 1773. In quella occasione alcuni di essi, travestiti da Mohawk, (indiani d’America), gettarono 342 casse di the nelle acque del porto di Boston. Donald Trump ha interiorizzato questo evento e pensa di usare i dazi doganali come la panacea per risolvere il disastroso squilibrio commerciale dello Stato che governa. Ovviamente il problema è più complesso e le cause del disavanzo accumulato dagli Stati Uniti tra importazioni ed esportazioni ha cause strutturali.
L’economia statunitense, come quella europea, almeno a partire dagli inizi degli anni ’70, ha messo in atto il decentramento produttivo per far fronte alla crescita del costo del lavoro e per ricavare maggiori profitti dagli investimenti e dalle attività produttive. A tal fine l’industria degli Stati Uniti ha provveduto a spostare le attività produttive sia in Canada che in Messico, ma ancora più frequentemente in Cina e in altri paesi del mondo alla ricerca di luoghi di produzione a più basso prezzo, creando delle filiere produttive transnazionali, riservando a se l’attività di assemblaggio dei singoli componenti nella fabbrica diffusa del mondo per realizzare il prodotto finito, gestendone infine la commercializzazione.
Ciò ha comportato con il passare del tempo lo spostamento delle attività manifatturiere verso quei siti e quei paesi nei quali i margini di profitto erano più alti e contemporaneamente ha prodotto un impoverimento progressivo e crescente dei lavoratori negli Stati Uniti, al punto che l’attività manifatturiera di quella che era la più grande fabbrica del mondo si è ridotta notevolmente o comunque si è concentrata su segmenti di produzione a basso contenuto di manodopera e ad alta tecnologia, abbassando drasticamente il tasso di occupazione. Oggi gli Stati Uniti si caratterizzano per la presenza di molte aree deindustrializzate, al punto che si parla di distretti della ruggine, volendo così riferirsi alle aree che ospitano gli impianti industriali ormai abbandonati e in decomposizione. Parallelamente al decadere e alla fatiscenza degli impianti è scomparsa la classe lavoratrice e sono precipitate sia le condizioni del lavoro che le opportunità di lavoro di molti strati di lavoratori un tempo specializzati, al punto che proprio le antiche aree di industrializzazione soffrono di situazioni di povertà assoluta vissute da popolazioni di ex operai bianchi, come efficacemente li descrive il vicepresidente nel suo libro di successo J. D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano, 2020.
Gli obiettivi di Trump
Gli Stati Uniti hanno registrato un deficit commerciale di 131,4 miliardi di USD a gennaio 2025. Il saldo commerciale degli Stati Uniti è previsto essere di 75,000 miliardi di dollari USA alla fine di questo trimestre, secondo i modelli macroeconomici globali di Trading Economics e le aspettative degli analisti. Il disavanzo tra USA e EE si è allargato da 170 a 237 miliardi di dollari. Per raggiungere questo obiettivo Trump pensa di operare su più fronti: da un lato impone dazi doganali per proteggere la produzione interna e rendere più concorrenziali le merci prodotte negli Stati Uniti, dall’altro ridurre le spese con particolare attenzione a quelle militari considerando la presenza militare in Europa
una rendita di posizione per l’Europa e al tempo stesso apre il territorio statunitense a investimenti, invitando a produrre negli Stati Uniti, in modo da far sì che il prodotto interno lordo del paese cresca, colmando il disavanzo. Nella stessa direzione va la richiesta al Canada di diventare cinquantunesimo Stato dell’Unione e una qualche forma di integrazione del Messico nel mercato produttivo americano, in modo che l’intera produttività dell’area costituisca una massa unica, insieme a quella degli Stati Uniti, per contribuire al riequilibrio tra importazione ed esportazione.
Questa misura è vitale per l’economia americana, posta di fronte alla concorrenza sul mercato messa in atto dalla Cina dall’Europa e dai paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che di fatto hanno dato vita ad un mercato alternativo, che pur disponendo di una capacità di spesa pro capite minore rispetto a quella europea è così vasto da compensare il disavanzo e al tempo stesso minaccia l’egemonia economica degli Stati Uniti con la prospettiva di creare una moneta alternativa al dollaro, comunque già realizzando una parte non irrilevante degli scambi internazionali nelle monete nazionali dei singoli Stati. Ciò priva il dollaro di quella rendita di posizione sul mercato mondiale delle valute che, grazie al dominio sempre minore ma comunque presente, relativo al controllo del mercato delle monete, ha permesso agli Stati Uniti di scaricare sul mercato mondiale il costo dell’inflazione e del proprio debito pubblico e
consente al tesoro americano con una sempre minore libertà di stampare moneta.
L’aumento dei dazi
Vista in questo quadro di riferimento la politica commerciale di Trump è basata sull’aumento dei dazi doganali che sono imposte governative sui beni importati da altri paesi. In pratica, quando una merce entra in un paese, il governo applica una tassa sul suo valore, che può variare a seconda del tipo di prodotto. L’obiettivo principale di questa misura è proteggere l’industria nazionale dalla concorrenza di un prodotto simile più economico prodotto all’estero, ma può anche servire come leva nelle trattative internazionali. Il risultato è il ricorso ai cosiddetti “dazi reciproci”, pericolosi per diversi motivi economici e geopolitici perché rischia di avere effetti controproducenti e
soprattutto di creare più problemi di quanti ne risolve. Questa misura si accompagna inevitabilmente alla guerra commerciale: se gli Stati Uniti alzano i dati sulle importazioni gli altri paesi possono rispondere con contromisure simili.
Ciò produce una spirale di ritorsioni, come è avvenuto tra Stati Uniti e Cina fra il 2018 e il 2019, che si danneggiano a vicenda abbassando i volumi del commercio globale e facendo crescere l’incertezza economica.
Un altro degli effetti inevitabili e l’aumento dei costi per i consumatori e le imprese in quanto tariffe più alte fanno sì che i consumatori pagheranno di più per i beni sottoposti a tariffe. Ciò genera inflazione e riduce il potere d’acquisto dei salari, producendo conflitto sociale. Si innesca così una spirale che produce un impatto negativo sulle
esportazioni posto che gli altri paesi, per difendersi, impongono a loro volta dazi facendo diminuire la domanda, colpendo così sia l’occupazione che i profitti.
In un quadro economico siffatto si produce un rallentamento del commercio internazionale che nella storia ha sempre portato ad una riduzione della crescita economica globale causando guerre commerciali che hanno preceduto crisi economiche più generali e prodotto conflitti, generando sfiducia sui mercati, nelle imprese e minando la stabilità economica e sociale. In generale le imprese per pianificare la loro attività hanno bisogno di un quadro stabile di riferimento e di prevedibilità per investire e pianificare.
Erroneamente Trump ritiene che i dazi doganali, che sono una tassa imposta sui beni importati da uno Stato per poter proteggere la propria economia ed industria rafforzano la sua politica commerciale. Anche se apparentemente promuovono le capacità produttive interne in realtà rafforzano l’inflazione e i loro effetti si scaricano sul consumatore finale con un aumento del costo della vita.
In altre parole sebbene i dazi doganali possano sembrare una soluzione rapida per proteggere l’economia di un paese, gli effetti negativi della politica commerciale di Trump possono superare quelli che potrebbero sembrare benefici a breve termine. L’aumento dei costi, l’incertezza per le imprese e il rischio di una guerra commerciale sono fattori che rendono tale politica protezionistica potenzialmente pericolosa per l’economia globale. In un mondo sempre più interconnesso, è fondamentale trovare soluzioni che promuovano la cooperazione piuttosto che l’isolamento, al fine di
garantire una crescita economica stabile e sostenibile per tutti.
Le scelte trumpiane alla prova del mercato
Gli aumenti dei dazi finora disposti da Trump si caratterizzano per l’instabilità nelle decisioni e sembrano finalizzate ad avere più un effetto di deterrenza, o effetto-annuncio, che una reale ed effettiva efficacia.
All’aumento dei dazi USA su acciaio di alluminio importanti dal Canada il governatore dell’Ontario ha risposto con un aumento del 25% del costo dell’energia elettrica per quattro Stati degli Stati Uniti, minacciando di lasciare al buio New York, e il borioso Trump è stato costretto ad un rapido dietrofront. Non vi è dubbio che la Cina si sta attrezzando per ripagare gli Stati Uniti con la stessa moneta, come già fatto in passato, prova ne sia che ha ridotto le importazioni di soia, derrata alimentari, polli, anche perché gli Stati Uniti hanno provveduto a sterminare la propria capacità produttiva nel
settore degli ovini, non curandosi di contrastare una spaventosa epidemia di aviaria non disponendo del personale veterinario necessario a contrastarla, licenziato perché ritenuto di nessuna utilità o comunque ha detto ad un settore non di competenza dello Stato.
Rocco Petrone