Nel mentre i cittadini europei si recano alle urne per eleggere il Parlamento europeo e dar vita alla nuova Commissione che guiderà l’Unione per 5 anni una riflessione si impone sul futuro dell’Europa e della sua politica, sulle ragioni che hanno portato alla sua costituzione, sul suo assetto futuro. Lo sviluppo di alcune considerazioni al riguardo è l’occasione per noi comunisti anarchici per chiarire la nostra posizione sull’Unione europea e sulle ragioni del nostro sostegno, con molte perplessità, alla sua costituzione e ci offre l’occasione per rispondere con chiarezza alla domanda: quale Europa vorremmo e perché.
Le nostre ragioni
Il confino di Ventotene non fu solo il luogo nel quale europeisti come Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed altri svilupparono una riflessione sulla guerra, individuando nei conflitti fra i popoli europei lo strumento principe attraverso il quale le classi dominanti, spingendo il proletariato dei diversi paesi ad una lotta fratricida, ottenevano l’effetto di bloccare ogni possibilità di sviluppo di politiche progressiste (per i comunisti anarchici di rivoluzione sociale). Discussioni e confronti tra i confinati divennero anche per i comunisti anarchici un laboratorio di elaborazione politica, per riflettere e preparare la società post – fascista, creando le condizioni per l’emancipazione sociale degli sfruttati. Ne è testimone il dibattito sviluppatosi nel Convegno anarchico di Ventotene, svoltosi alla fine del 1942, al quale presero parte numerosi anarchici, fra i 140 li confinati, come Alfonso Failla, Giovan Battista Domaschi, Umberto Tommasini e molti altri, i quali, dopo aver lasciato, l’isola si adoperarono per ricostruire il movimento comunista anarchico e la sua partecipazione armata alla Resistenza, collocata nell’ambito del gradualismo anarchico. [1]
Queste scelte scaturiscono dalla consapevolezza di considerare il nazionalismo come il primo nemico da sconfiggere; la riproposizione del Fronte Unico e l’impegno nella Resistenza per costruire nel paese una Repubblica, dotata di una Costituzione, che fungesse da trampolino di lancio per un futuro progetto di trasformazione della società in una direzione egualitaria; scaturisce il sostegno all’idea di una Unione dei popoli d’Europa che consentisse in futuro di scongiurare le guerre, almeno tra i diversi paesi del continente.
Compiendo questa scelta il movimento comunista anarchico, che allora tentava di rinascere nelle lotte sociali del paese, tra mille difficoltà, sapeva bene di rischiare che lo spazio costituzionale rivendicato per assicurare le libertà si rivelasse un fallimento; sapeva bene che andare verso la costruzione di un’unione degli Stati europei poteva portare alla nascita di un super Stato nel quale il capitalismo l’avrebbe fatta da padrone e tuttavia decise di rischiare, confidando di mantenere dritta la barra degli obiettivi attraverso l’azione politica e le lotte.
Com’è noto il patto costituzionale nel paese, in qualche modo, per 80 anni ha retto, anche se, da un lato il movimento comunista anarchico è stato politicamente sconfitto, per ragioni complesse che non possono essere sviluppate in questa sede; dall’altro, proprio i recenti avvenimenti politici in atto nel paese sembrano dimostrare che questo patto a favore di uno Stato democratico borghese è giunto al suo esaurimento, con il progressivo affermarsi di una democratura post-fascista che si sta impossessando della Repubblica e del sentire sociale. Inoltre l’Unione europea assume sempre più posizioni da super-Stato e sembra avere scelto la guerra come terreno di fondazione di un nuovo Stato e di un nuovo nazionalismo, questa volta paneuropeo, come dimostra la posizione assunta a proposito della guerra d’Ucraina.
Non è un caso che alti burocrati come Mario Monti giungano ad ipotizzare che per fare l’Europa è necessario un bagno di sangue, convinti come sono che nella comune sofferenza e nel comune dolore si cimenta l’identità e si stabilisce quel rapporto di appartenenza che forgia la “nazione” nell’immaginario dei popoli; in quest’ottica una guerra che veda le nazioni d’Europa combattere e morire per l’Ucraina avrebbe una funzione fondativa.
Noi comunisti anarchici, da internazionalisti, siamo convinti sostenitori della pace e della solidarietà fra i popoli e aborriamo l’ordalia del sangue.
Tralasciando per il momento di affrontare la situazione interna del paese, proprio in vista delle elezioni europee, concentriamo le nostre considerazioni sulle scelte che l’Unione europea si trova a dover fare nel prossimo futuro, convinti come siamo che la scelta di tutte le forze politiche nazionali di trasformare la scadenza elettorale comunitaria nell’occasione di un sondaggio sul gradimento e la tenuta delle differenti formazioni politiche nel paese – nella sostanza in un gigantesco sondaggio demoscopico sugli orientamenti elettorali – sia francamente miope e sbagliata e perché
occorre entrare nel merito dei problemi.
I confini dell’Europa
Il primo è il principale per l’Europa oggi è quello di capire, di decidere quali sono i suoi confini e di stabilire dove comincia dove finisce l’estensione della sua giurisdizione. Nell’autodefinirsi, l’Unione europea ha individuato come criterio l’appartenenza continentale che è un criterio flessibile in quanto i confini del continente possono essere situati sul territorio a piacimento, secondo le componenti e gli interessi politici. Ha poi individuato come ulteriore parametro quello dell’aequis comunitario, ovvero dal rispetto da parte degli Stati che chiedono di farne parte di ben individuati standard relativi alla libertà, ai diritti, ai rapporti giuridici, ai rapporti sociali, alla struttura e ai rapporti economici, contenuti nei criteri elaborati a Copenaghen e a Madrid, rispettivamente.[2] Ebbene, se si guarda a questi parametri, fino ad ora alcuni paesi, soprattutto dei Balcani, sono rimasti esclusi dall’adesione al ’Unione e posti in lista d’attesa come paesi candidati, aspettando che maturino le condizioni per l’adesione.
A riguardo l’Unione europea medita di fare una sola eccezione relativamente ad un paese in guerra, l’Ucraina, il quale non rispetta nessuno di questi parametri, è un paese dove le libertà civili e religiose sono negate, dove la corruzione impera, dilaniato da un conflitto che è insieme internazionale, ma anche guerra civile, se si guarda alla sua origine che è inscindibilmente legata al ruolo, alle libertà e ai diritti delle minoranze nel paese, non solo russe, ma anche ungheresi, rumene e polacche.
Decidendo, per ragioni geostrategiche, di consentire, in palese violazione dell’aequis comunitario, l’adesione accelerata e a prescindere dal rispetto dei parametri stabiliti per l’adesione dell’Ucraina, l’Unione europea stravolge la sua natura e assume la guerra del paese con la Russia e l’aggressione russa all’Ucraina come ragione giustificante la sua scelta; si pone cioè sul terreno del confronto tra nazionalismi, bypassando gli interessi degli altri popoli facenti parte dell’Unione.
Ma vi è di più: l’Unione europea ha proceduto al suo allargamento con prudenza ed attenzione, avendo come punto di riferimento il mantenimento di un equilibrio fra gli Stati originariamente ad essa appartenenti e quelli di nuova adesione, avendo cura che il suo allargamento non turbasse gli equilibri complessivi e soprattutto che non ne stravolgesse i principi. Manca al momento una riflessione attenta e ponderata sull’effetto di un allargamento dell’Unione a ricomprendervi l’Ucraina e l’insieme dei paesi balcanici che attualmente non ne fanno parte. Basti e riguardo una
riflessione: uno degli effetti più immediati sarebbe il mutamento profondo della composizione delle appartenenze cultural-religiose nel continente che risulterebbe costituito da popolazioni afferenti cinque tradizioni diverse: quella cattolica, protestante, ortodossa, laica e non credente, islamica, di consistenza pressoché equivalenti, ma con profonde disomogeneità, sui cui effetti non sembra vi sia stata alcuna riflessione.[3]
Una società così variegata, percorsa da tensioni e differenze così profonde, rischia di costituire un melting pot indistinto e instabile, difficile da gestire, e soprattutto incapace di produrre orientamenti ed indirizzi utili per una politica di sviluppo univoca e caratterizzante una compagine sociale che voglia essere tendenzialmente omogenea e ancorata a valori comuni e condivisi.
Ue e la “difesa comune”
Altro inevitabile corollario di queste scelte è costituito dalla politica di cosiddetta difesa comune che, in realtà nasconde l’obiettivo di trasformare l’insieme dei paesi europei in un sub-gendarme del decadente Impero statunitense, sotto l’ombrello di una NATO rivitalizzata, che dovrebbe fare da braccio operativo che opera sui diversi scacchieri di
confronto di un mondo ormai multipolare. Questo obiettivo, fino ad oggi garantita dalla direzione del servile e stolto segretario Stoltenberg, dovrebbe essere perseguibile senza molte difficoltà poiché gode del sostegno incondizionato dell’industria delle armi che vede nel riarmo del continente europeo un’occasione di affari e d’integrazione dei processi produttivi di armi che renderebbero i propri prodotti di morte più competitivi sul mercato mondiale, in quanto caratterizzati da standard comuni, dà intercambiabilità dei sistemi d’arma e dell’utilizzo delle munizioni, problema rivelatosi essenziale grazie alla guerra ucraina che ha dimostrato l’importanza della capacità di continuare a produrre
continuativamente armamenti e proiettili, per alimentare una guerra che, per evitare di sfociare in uno scontro nucleare, non può altro essere che di posizione e logoramento, constatato il sostanziale equilibrio delle forze in campo.
Per questi motivi geostrategici e economici l’Unione europea finisce per trasformarsi in una ulteriore occasione per il capitale di fare profitto, senza avere contribuito, a rimuovere causa e ragioni della guerra che, sia pure su scala più globale, viene utilizzata per l’eterno fine di contrastare la solidarietà fra i popoli e la comune lotta per una migliore qualità della vita e per una rivoluzione sociale che metta al centro della vita dei popoli la loro prosperità, la giustizia sociale, il benessere.
Ue e l’equilibrio multipolare
La politica di riarmo viene giustificata affermando che in un mondo divenuto ormai multipolare è necessario che le varie “placche“ nelle quali si articolano le sfere politiche d’influenza e interessi si dotino di una capacità deterrente, in grado di assicurarsi per questa via autonomia e indipendenza. In questa nuova visione dell’equilibrio delle forze in campo l’arma atomica assume la funzione dissuasiva di deterrente che impone all’avversario di confrontarsi utilizzando un conflitto limitato nel tempo e nello spazio che utilizza il cosiddetto armamento convenzionale, come se questo non producesse morti, lutti e rovine e sia in un qualche modo sopportabile, fisiologico e metabolizzabile, conferendo alla guerra un viatico di accettabilità. A generare questa convinzione contribuisce il ritenere che i vantaggi derivanti dalla produzione bellica e il meccanismo di distruzione-ricostruzione siano gli strumenti che rendono conveniente ed economico il sacrificio umano e materiale derivante dai conflitti. Morti e feriti, lutti e rovine, sono considerati un danno collaterale sopportabile se il fine è quello di raggiungere lo scopo di stabilire sul campo chi debba prevalere nella difesa dei propri interessi.
All’ombra di questi nuovi equilibri si progetta la ricostruzione di imperi, il delinearsi di sfere di interesse e di influenza economica, di controllo strategico raggiunti attraverso un continuo ricorso ai conflitti e alle guerre “locali”, considerate quali strumento fisiologico di risoluzione delle controversie. In questa prospettiva il riarmo europeo diviene la garanzia non solo della razionalizzazione e dell’omogeneizzazione delle produzioni belliche degli Stati che ne fanno parte e quindi di ulteriori lucrosi affari, ma anche occasione di coesione, sposando l’antica teoria che vuole che sul sangue
versato dai popoli si costituisca quel “cemento” sul quale si basa l’identità e l’idea stessa di nazione e di destino comune.
In quest’ottica odi e rancori, risentimenti e rivendicazioni vengono sparse a piene mani, affinché fossati incolmabili si creino fra i popoli a delineare e disegnare i confini, raggiungendo picchi perfino grotteschi, come quelli costituiti dalla campagna di dismissione dei santi non ucraini, e segnatamente di quelli di origine russa, dal calendario ortodosso, ad opera della neonata Chiesa di Stato, autocefala e scismatica ortodossa ucraina.
Ue e crisi dell’ordoliberismo
C’è poi da ripensare la politica economica dell’Unione europea – per anni egemonizzata dal capitalismo francorenano – pesantemente messa in crisi dal mutamento del flusso dell’energia che, mentre prima muoveva dall’est verso l’ovest ora si muove sull’asse sud nord, spingendo ad una revisione della centralità dell’economia tedesca che, con la sua impostazione ordocapitalista, ha fortemente condizionato la politica dell’Unione, imponendo la regola dell’austerità, dell’economia, regolata entro il quadro giuridico istituzionale definito dallo Stato, all’interno del quale l’individuo e la
libera iniziativa si muovevano, condizionando il mercato. Quella che entra in crisi oggi e la cosiddetta “Terza Via ” (nulla a che fare naturalmente con quella di blayriana memoria), che sosteneva che fra keynesismo e totalitarismo (ovvero economia di piano), una “Terza Via” era possibile, attraverso la quale gestire in modo razionale il capitalismo verso il pieno controllo di una perenne crescita dell’accumulazione e un costante e duraturo sviluppo. [4]
Detto in parole più semplici, ad entrare in crisi è l’antico sogno cattolico di conciliazione tra capitale e lavoro che, ereditato dalla scuola di Friburgo, ovvero dalla teologia e dalla sociologia cattolica, ha cercato di coniugare lavoro e capitale, illudendosi che la collaborazione di classe fosse lo strumento principe per superare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nell’illusione che il rapporto fra capitale e lavoro fosse riconciliabile nell’ambito della cosiddetta “economia sociale di mercato” (primato della politica monetaria e della politica di sviluppo, allineamento dei prezzi sull’offerta delle merci), che avrebbe prodotto la ripartizione equa e graduale dell’aumento del benessere.
Per i friburghesi ogni genere di politica economica interventista (economia protetta, pianificata, assistenziale e keyensiana) ha come presupposto e come risultato la crescita del potere dello Stato, il che diminuisce gli spazi di libertà individuale. Perciò gli ordoliberali, non fanno distinzione tra socialismo e capitalismo, tra totalitarismo e liberalismo; per loro il nazionalsocialismo e l’Unione Sovietica costituirono il punto di arrivo della crisi economica e politica che ha elaborato come unica soluzione l’aumento del potere statale. Quindi quei paesi che hanno scelto di rispondere alla crisi del 1929 con l’aumento del potere e delle capacità di azione dello Stato nell’economia e nella società sono scivolati inevitabilmente verso scelte autoritarie e così è avvenuto anche per le scelte economiche keynesiane.
La “Terza Via”, che riconosce nell’individuo e nello Stato i due attori principali, conosce la soluzione del problema: lo Stato, se privo di controlli e limiti, produce totalitarismo, seguendo diverse declinazioni; gli individui, se dispongono di totale libertà, fanno altrettanto, con i risultati altrettanto catastrofici per la società e il benessere comune.
La “Terza Via” sarebbe la sola capace di produrre un ordine sociale pluralista e sano, agendo in campo giuridico, politico ed economico, posti in totale connessione tra loro, attraverso la sussidiarietà. In tal modo l’ordoliberismo si propone come superamento della contrapposizione tra capitale e lavoro propria del marxismo [qui il riferimento è chiaro, alla teologia cattolica e a una sorta di moderno e rivisitato corporativismo, mutuato dalla Rerum Novarum, prima, e dalla Quadragesimo anno, poi].
Ne consegue che è compito dello Stato liberale fornire un quadro giuridico, un insieme di regole (ossia il regime dei prezzi) che funziona secondo giustizia e in modo conforme alla natura umana. In questa concezione lo Stato non interviene in senso stretto nella sfera economica perché scivolerebbe nel dirigismo ma al tempo stesso non si disinteressa della sfera economica, ma deve influenzare l’economia istituendo uno spazio giuridico di regole per far sì che il mercato possa “evolvere secondo natura”, realizzando un regime di perfetta concorrenza, stabilità monetaria e giustizia poiché l’ordo che lo Stato deve istituire, gestire e proteggere, possa svolge la funzione di rendere possibile un’economia di mercato ed insieme creando lo spazio adeguato all’esercizio della libertà economica.
Ne consegue che lo Stato, per il tramite del governo, deve garantire il mantenimento del pieno impiego, la conservazione del potere d’acquisto, l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti, che dovranno diventare obiettivi primari, utilizzando la politica del credito (tasso di sconto) e l’abbassamento della fiscalità, evitando accuratamente misure come
la fissazione dei prezzi, sostenendo i settori strategici di mercato, creando sistematicamente posti di lavoro, anche facendo ricorso a investimenti pubblici, assumendo come obiettivo primario la stabilità dei prezzi. Tutto ciò per far sì che il
mercato operi seguendo un meccanismo complesso ma sicuro, senza che dinamiche estranee intervengano a turbarlo.
Questa costruzione economica è entrata in crisi a causa della globalizzazione e del mutare del quadro di alleanze geostrategiche che garantivano energia a basso costo, consentendo margini di profitto per poterne destinare una parte all’azionariato sindacale e alla cogestione del modello economico-sociale. Si aggiunga inoltre che la guerra, drenando risorse, ha bloccato sul nascere, forse irreversibilmente, ma comunque in modo condizionante, l’evoluzione del modello economico appena descritto verso un’economia neo-courtense e green che erano nei programmi dell’Unione europea,
Gli incerti approdi futuri
Le classi dirigenti europee faticano a prendere atto di quanto sta avvenendo e, mentre hanno continuato per inerzia, in questa coda di legislatura, ad adottare scelte che vanno nella direzione della trasformazione green dell’economia dell’Unione, consapevoli della crisi che in atto, hanno commissionato a due burocrati appartenenti all’élite della politica europea, Mario Draghi e Enrico Letta, due relazioni, sul futuro dell’integrazione, sulla politica comune della sicurezza (o se si preferisce del riarmo), uno studio di fattibilità per ricavarne indicazioni che, a prescindere dal risultato
elettorale, dovranno ispirare le politiche della futura Commissione.
Questa scelta è prodromica alle difficoltà che dovranno essere affrontate nell’individuare una nuova leadership per cui non è escluso che, piuttosto che all’imbelle e inconsistente Ursula von der Leyen o all’ineffabile, ma vuota, Roberta Métsola, si preferisca attingere alle “riserve del capitale”, costituite da figure tecniche provenienti dalla finanza, dalla politica o dall’industria, dei quali Draghi è una di quelle di maggiore prestigio, per il suo ruolo di grand commis del capitale, dimostratosi in possesso di così pochi scrupoli da aver provveduto senza battere ciglio alla liquidazione del patrimonio pubblico dello Stato italiano, al servizio della Goldman Sachs, già a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, mettendolo all’asta, a disposizione del capitale e della finanza mondiale.
Se questo è il quadro nel quale le prossime elezioni europee si collocano, ben sì comprende come sia del tutto ininfluente o quasi il risultato del voto destinato ad eleggere il Parlamento e quello che gli eletti potranno svolgere nell’effettuare queste scelte, posto che i luoghi deputati ad adottare le decisioni strategiche sfuggono totalmente al loro controllo, egemonizzati della Commissione e dal Consiglio degli Stati membri.
[1] Vedi: A. DADA’, L’anarchismo in Italia: tra movimento e partito, Teti Editore, Milano, 1984, pp. 94 ss. Ma vedi anche: Risoluzione del convegno anarchico di Ventotene, pp. 311 e La Federazione comunista anarchica italiana (CAI), pp.312-313.
[2] I criteri di adesione sono stati stabiliti in occasione del Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 e rafforzati in sede del Consiglio europeo di Madrid nel 1995.Tali criteri sono: la presenza di istituzioni stabili a garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, del rispetto e della tutela delle minoranze; un’economia di mercato affidabile e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione; la capacità di accettare gli obblighi derivanti dall’adesione, tra cui la capacità di attuare efficacemente le regole, le norme e le
politiche che costituiscono il corpo del diritto dell’Unione (l’aequis), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.
[3] G. Cimbalo, Le Chiese ortodosse e gli Stati in Europa: problemi e prospettive, Laicidad y libertades. Escritos jurìdicos, 2022, https://www.giovannicimbalo.it/le-chiese-ortodosse-e-gli-stati-in-europa-problemi-e-prospettive/
[4] Sulle elaborazioni della Scuola di Fribugo che su ispira alla sociologia cattolica, alle teorie economiche di Raphael Rodriguez De Cepeda, alla rivisitazione della teoria delle classi sociali di Robert Mickel, esiste un’ampia bibliografia. Per brevità si veda almeno Lorenzo Mesini, L’ordoliberalismo: un’introduzione alla Scuola di Friburgo, Pandora rivista, https://www.pandorarivista.it/articoli/ordoliberalismo-scuola-di-friburgo/
G. C.