L’improvvisa morte del Presidente iraniano Raisi e l’incriminazione del premier israeliano, del suo ministro della guerra e e dei capi di Hamas da parte del procuratore generale del Tribunale penale dell’Aja costituiscono due fattori condizionanti che irrompono nella tragedia mediorientale costituita dallo sterminio di Gaza e dal genocidio del popolo palestinese. Con la morte di Raisi è scomparso dalla scena politica il meno amato dei Presidenti della Repubblica islamica degli ultimi 35 anni.
Nel 1988 ha fatto parte della cosiddetta ” Commissione della morte”, responsabile di aver condannato a morte migliaia di persone (si stima fra le 8 e le 30 mila), perciò era noto come il macellaio di Teheran, più che per il carisma politico, che non possedeva. Nato a Mashhad, come la Guida suprema della Rivoluzione Ali Khamenei, a 15 anni era stato ammesso nella madrasa Feyzyeh di Qom, dove si era formato, seguendo gli orientamenti più radicali dello scitismo e della rivoluzione komeinista. Appartenente al clero sciita, laureatosi nell’Università di Teheran, aveva iniziato la sua carriera dopo la rivoluzione islamica del 1979, ricoprendo la carica di procurare generale di Teheran tra il 1989 e il 1994. Divenuto presidente dell’Ufficio di ispezione generale, responsabile della supervisione della legalità degli atti del governo, nel 1994 aveva fatto carriera fino a diventare capo del sistema giudiziario. Candidato alla Presidenza nel 2017 non era stato eletto, ma poi si alleò con i Guardiani della rivoluzione, ponendosi in pole position per succedere al leader Kamenhei. Nel 2021 divenne Presidente e guida la repressione contro il movimento delle donne e di ogni movimento sociale. La legge sul velo da lui voluta nel settembre del 2021 inaugura la fase repressiva ancora in atto di un regime che si sente rimesso in discussione dalla società civile, anche se gode di una base sociale clientelare, frutto della particolare struttura economica del paese.
Una transizione piena di incognite
Gli succede come Presidente ad interim, con il consenso dell’ayatollah Khamenei, il vicepresidente Mohammad Mokhber, con il compito di organizzare per il 28 giugno le elezioni presidenziali, come previsto dalla Costituzione. Si tratta di un uomo d’apparato, giurista internazionale di formazione, che ha sempre agito dietro le quinte. Scelto nel 2021 – come ha rivelato l’agenzia Reuters – per aver amministrato e ricoperto ruoli chiave dentro tre strutture finanziarie cruciali per il regime iraniano, la fondazione Mostafazan, la banca Sina e soprattutto Setad, un fondo d’investimento che fa capo alla Guida Suprema Ali Khamenei e dispone di asset per novantacinque miliardi di dollari, proprio in ragione di questi suoi incarichi, gode dell’appoggio dei Guardiani della rivoluzione che controllano e condizionano in modo rilevante l’economia del paese e costituiscono il vero potere nello Stato. Meglio si comprende il suo potere se si tiene
conto del fatto che Setad è il conglomerato che ha incamerato le attività e i beni degli iraniani cacciati dalla rivoluzione islamista del 1979. Mokhber ne è stato direttore e già questo dovrebbe far capire il suo ruolo all’interno del sistema. Gli Stati Uniti lo aveva messo sulla lista degli uomini d’apparato colpiti da sanzioni, perché Setad «ha violato in modo sistematico i diritti dei dissidenti, confiscando terreni e proprietà degli oppositori del regime, inclusi politici, minoranze religiose e iraniani in esilio». Anche l’Unione europea lo aveva messo nel 2010 sulla lista dei sanzionati per il suo presunto coinvolgimento nel programma nucleare, ma due anni dopo ha revocato la misura punitiva. Come molti altri membri del governo presieduto da Raisi, anche lui ha fatto parte dei Guardiani della rivoluzione.
Benché possieda questi requisiti è improbabile che l’attuale vice presidente sia il successore di Raisi; per designare il Presidente la prima selezione avviene nella scelta delle candidature, affidata alla guida Suprema, il quale dovrà questa volta scegliere di fatto non solo il futuro Presidente, ma anche colui che, in pectore, è destinato ad essere il suo successore, in considerazione della sua tarda età (83 anni). Nel complicato panorama politico del paese bisognerà vedere se gli ultraconservatori della fazione chiamata Paydari, che oggi controllano il Parlamento, gli apparati di sicurezza, i basiji, all’interno del clero politico, tutti gruppi che sostengono il Leader supremo, saranno in grado di prevalere, facendolo diventare capo della magistratura per poi proiettare alla presidenza, con una elezione manovrata, uno dei suoi componenti. Ci sono voluti anni per “costruire” il personaggio Raisi: gli ultraconservatori avevano investito molto su di lui. La sua morte ha scompaginato i piani dei Paydari.
In un contesto in cui la fiducia popolare nel sistema ha raggiunto i minimi storici, come dimostra il recente scarso 8% di partecipazione ai ballottaggi parlamentari a Teheran, è difficile immaginare che la fiducia possa essere ristabilita durante una campagna elettorale di appena due settimane. Tuttavia, non è scontato che il sistema possa sfruttare l’occasione, permettendo ai candidati pro-riforma di presentarsi, al fine di aumentare la partecipazione popolare e salvare la faccia. È vero che con la morte di Raisi sono stati scompaginati i piani dell’ultradestra, ma i tempi sono troppo brevi
perché l’ala riformista riesca a riorganizzarsi con un proprio candidato. Personalità come Khatami (ex presidente) o il moderato Rouhani possono influire sull’opinione pubblica, ma non più di tanto.
La forza economica degli hubus, gestiti dai Pasdaran, è troppo forte e condiziona economicamente l’economia del paese, al punto che è la sola, per la sua pervasività, in grado di fornire quel welfare che permette ad una massa di poveri e diseredati che costituiscono la vera base del regime, di sopravvivere malgrado le condizioni disastrose dell’economia. In Iran oggi l’opposizione si annida soprattutto tra la classe media, tra i giovani, gli studenti, i commercianti del bazar, che costituiscono la parte più dinamica del paese, quella più vicina all’uso dei social e più in contatto con il resto del mondo,
che non a caso avverte il peso di un moralismo gretto e formale, fatto di apparenze dietro le quali si nascondono una corruzione profonda e innominabili intrecci di potere.
Dalla partecipazione al voto, più che dal voto che viene espresso su una rosa di candidati bloccati, si misurerà la tenuta del movimento di resistenza e la sua capacità di mettere in crisi col tempo la gestione del potere. Non vi è dubbio comunque che ciò che succederà nel paese influirà notevolmente,sul conflitto mediorientale, anche se nell’immediato non si attendono ripercussioni, se non relativamente al fatto che l’instabilità dell’Iran mette Israele in una situazione di ulteriore insicurezza, aggravata dalla collocazione internazionale del paese e dal discreto che l’azione su Gaza gli ha
procurato, determinandone l’isolamento.
Interviene la Corte
A fronte dell’orrore suscitato dai fatti del 7 ottobre e dall’intervento israeliano a Gaza il Procuratore della Corte penale internazionale (CPI) con sede all’Aja, ha formulato la richiesta di mandati d’arresto per i capi di Hamas, per il premier israeliano Netanyahu e il suo ministro della difesa Gallant. L’accusa è di crimini di guerra e contro l’umanità:
“Oggi sottolineiamo ancora che diritto internazionale e leggi sui conflitti armati si applicano a tutti. Nessun soldato, comandante, leader civile – nessuno – può agire impunemente. Nulla può giustificare la privazione intenzionale a esseri umani, tra cui tante donne e bambini, dei beni di prima necessità necessari alla vita. Nulla può giustificare la presa di ostaggi o l’uccisione di civili». In altre parole il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale penale non ammettono eccezioni per nessuno, né per terroristi né per Capi di Stato e di governo.
Se, come è probabile si giungerà all’incriminazione, le conseguenze potrebbero essere determinanti sia per il futuro di Gaza, dove l’Autorità palestinese potrebbe riprendere il controllo legittimo, sia per Israele, dove le proteste di molti cittadini minacciano Netanyahu e il governo dell’ultradestra nazionalista. È da notare inoltre che, mentre ciò
avviene, un procedimento parallelo si svolge davanti alla Corte internazionale dei diritti dell’Uomo per discutere dell’accusa del Sudafrica di apartheid e genocidio, rivolta a Israele per il suo comportamento in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme Est.
A fronte di questa situazione gli Stati Uniti e gli altri Stati occidentali che sostengono Israele hanno gridato allo scandalo rispetto all’equiparazione fra Hamas e lo Stato ebraico e questo anche se nella gran parte dei paesi del mondo si fa strada la convinzione di trovarsi di fronte ad un atto di colonialismo e di schiavizzazione di un intero popolo, inaccettabile per l’umanità. Ancora una volta l’occidente mostra di utilizzare due pesi e due misure per prendere posizione sui crimini di guerra, pretendendo che le condanne pronunciate nei confronti dell’aggressione russa all’Ucraina debbano essere considerate valide, mentre quelle nei confronti di Israele sono ritenute inaccettabili.
Tuttavia qualche risultato comincia a vedersi: i governi irlandese, norvegese e spagnolo hanno annunciato il prossimo riconoscimento dello Stato di Palestina, aprendo la strada a identiche posizioni da parte di altri Stati. Invano lo Stato di Israele grida all’antisemitismo, poiché diviene sempre più chiaro che non di questo si tratta, ma di antisionismo.
È bene, ancora una volta, ricordare che i palestinesi come gli ebrei sono semiti e quindi la solidarietà verso di loro non può tradursi in antisemitismo, ma semmai è una palese dimostrazione di antisionismo, ovvero di opposizione critica a quella concezione politica di nazionalismo ebraico, di stampo suprematista, che esclude che altre etnie o appartenenti ad altra cultura o religione possano avere la stessa dignità degli appartenenti al popolo ebraico e che fa della Shoah un utile paravento dietro il quale nascondersi per giustificare ogni nefandezza nei confronti del popolo palestinese e legittimare la graduale progressiva espropriazione delle loro terre e la loro espulsione dalla Palestina.
Quel che diviene sempre più evidente è che il perdurare dei conflitti in corso aggrava le difficoltà degli Stati Uniti nel gestire contemporaneamente le diverse crisi, logorandone le capacità di tenuta. In un anno caratterizzato da scadenze elettorali Biden ha un disperato bisogno di chiudere almeno qualcuno dei fronti di crisi per potersi presentare davanti al suo elettorato e ricompattarlo evitando di restare vittima dei contrapposti interessi delle diverse lobby che si contendono il sostegno degli Stati Uniti, tanto più che delle attuali difficoltà di Washington beneficia innanzitutto la Cina, che è
riuscita ad attrarre nella sua orbita, in modo indissolubile, la Russia, mentre paga le conseguenze della politica di supremazia statunitense ed anglosassone l’Europa, che vede colpiti i suoi interessi vitali.
La Redazione