Nella globalizzazione dell’economia e del commercio mondiale si individuano convenzionalmente tre fasi: la prima coincide con la fine del XIX ° secolo (dal 1870 al 1912- 1914), la seconda va dal 1950 al 1980 e la terza che inizia con la fine del XX° secolo e sta per cambiare volto a causa della crisi della concertazione che di questo fenomeno è un elemento essenziale. Già a metà della seconda fase di globalizzazione il crollo del sistema di Bretton Woods nel 1971 e la crisi energetica del 1973 indussero i paesi maggiormente sviluppati a dotarsi di un centro di coordinamento del processo in atto tanto che essi decisero, a margine della Conferenza di Rambouillet alla quale nel 1975 parteciparono Francia, Germania Ovest, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, di dar vita al Gruppo dei sei (G6).
Già l’anno dopo, alla seconda riunione tenuta a San Juan di Puerto Rico, venne ammesso il Canada e successivamente la Comunità economica europea in occasione del vertice di Londra del 1977. Da allora le riunioni dell’organismo di concertazione mondiale continuarono governando la crisi balcanica, spartendosi le spoglie dell’ex Jugoslavia e gestendo la crisi del 1989-91 con le successive riunioni di Rambouillet.
L’Unione Sovietica venne invitata per la prima volta nel 1991 ai tavoli di discussione paralleli al vertice G7 di Londra. Successivamente, la neonata Federazione Russa venne gradualmente coinvolta nel processo G7 per arrivare alla prima partecipazione, al vertice di Napoli del 1994, del Presidente russo Boris Yeltsin, con l’avvio del cosiddetto formato G7+1, le cui riunioni avrebbero dovuto svolgersi alla conclusione di ogni summit. A partire dal vertice di Denver del 1997 – su invito degli Stati Uniti e del Regno Unito – la Russia entrò a pieno titolo nel formato del vertice (G8), nella riunione
tenutasi a Birmingham nel 1999, senza però partecipare alle riunioni dei Ministri dell’economia (c.d. finance track).
Nel dicembre del 1999 venne costituito il G20 dei Ministri dell’economia, con l’inclusione – oltre ai G8 – di una serie di Paesi emergenti e dell’Unione europea. La rilevanza assunta da questo consesso nel panorama internazionale ne ha accentuato il carattere di rappresentazione della controparte istituzionale dei popoli che aspirano a uno sviluppo e al raggiungimento del benessere economico che permetta loro una vita dignitosa. Emblematica in tal senso la manifestazione antiglobalizzazione, di Genova nel 2001, repressa nel sangue che intendeva protestare pacificamente contro questo stato di cose.
La rapida ascesa di una serie di Paesi fino a quel momento esclusi o sotto rappresentati nei meccanismi di governance economica globali (in particolare i cosiddetti BRIC: Brasile, Russia, India, Cina, definiti con questo nome informale nel 2001, ma anche i nuovi MIKTA: Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia e Australia) imponevano di cercare di anticipare l’evoluzione dell’economia mondiale all’interno di un formato più ampio rispetto al G7/G8, spingendo il leader britannico Tony Blair, nel 2005, a invitare al vertice G 8 cinque Paesi emergenti con un particolare rilievo politico ed economico: Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica.
Così, a partire dal vertice di Heiligendamm in Germania (2007), veniva istituzionalizzato il cosiddetto “processo di Heiligendamm”, che coinvolgeva i G8 più i 5 Paesi di cui sopra in un dialogo relativo a quattro aree specifiche: innovazione, libertà degli investimenti, cooperazione allo sviluppo, in particolare con l’Africa, energia e cambiamento climatico. Nel 2006 si teneva il primo Vertice sotto Presidenza russa a
San Pietroburgo
La crisi economica e finanziaria del 2008 fungeva da catalizzatore del processo in corso, conducendo l’allora Presidente USA George W. Bush a convocare, nel novembre 2008, il primo Vertice a livello di Capi di Stato e di Governo in formato G20, che include il G8 più Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Cina, Corea del Sud, India, Indonesia, Messico, Sudafrica, Turchia e Unione europea, e al quale partecipano anche diverse Organizzazioni Internazionali.
La crisi del G20 e l’emergere dei BRICS
Due anni prima, nel 2006 a New York, i ministri degli esteri di Brasile Russia India e Cina si erano incontrati a margine del dibattito generale dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Da questi incontri è scaturita la decisione di trovarsi il 16 giugno 2009 a Ekaterinburg, in Russia, per il primo vertice formale del gruppo BRIC: vi parteciparono Luiz Inácio Lula da Silva, Dmitry Medvedev, Manmohan Singh e Hu Jintao, rispettivi leader di Brasile, Russia, India e Cina.
All’ordine del giorno il miglioramento della situazione economica globale e soprattutto la riforma delle istituzioni finanziarie.
Ci si chiese come i quattro paesi avrebbero potuto cooperare per promuovere lo sviluppo delle loro economie e si decise di chiedere una diversa ripartizione delle quote depositate presso il Fondo Monetario Internazionale, istituito come parte degli accordi di scambio sottoscritti nel 1944 durante la conferenza di Bretton Woods che assegnavano al dollaro un ruolo di moneta internazionale di unità di cambio, sancendo una rendita di posizione degli USA che conservano la facoltà di coniare la moneta in totale autonomia, condizionandone così a loro vantaggio il valore di mercato e scaricando sul redo del mondo le conseguenze del debito accumulato per finanziare la loro economia e potenza militare.
A fronte del rifiuto opposto alla loro richiesta i Bric discussero su come avrebbero potuto ovviare a questa situazione ed espressero la necessità di individuare una nuova valuta di riserva globale, che avrebbe dovuto essere “diversa, stabile e prevedibile”. Ciò che era avvenuto nel 2002 con la nascita dell’euro avrebbe potuto ripetersi con altrettanto successo.
Sebbene la dichiarazione finale dell’incontro non criticasse direttamente il “dominio” del dollaro USA la richiesta innescò, come primo effetto, un calo del valore del dollaro rispetto alle altre principali valute e indusse nel 2010 la Repubblica sudafricana a chiedere l’adesione al gruppo che si trasformò in BRICS. Da allora il nuovo raggruppamento accrebbe la sua attività di coordinamento delle rispettive economie lavorando alacremente alla conquista dei mercati, forte di un buon andamento dell’economia russa, di tassi di crescita robusti del PIL sia cinese che indiano.
Nel 2014, proprio mentre veniva annullato il vertice del G 20 di Soci, a causa dello scoppio della guerra ucraina e dell’occupazione russa della Crimea, i BRICS riuniti per il loro sesto vertice a Fortaleza, in Brasile, il 15 luglio 2014 davano vita alla Nuova Banca per lo Sviluppo, (New Devlopment Bank), presieduta da Dilma Rousseff, con sede a
Sciancai che ha il compito di essere alternativa alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale nel promuovere lo sviluppo di paesi più svantaggiati.
Dopo il successo della riunione dei BRICS a Johannesburg e l’ingresso di altri sei paesi nell’organizzazione, e nel capitale della Banca, mentre altri 17 hanno avanzato la loro candidatura, è del tutto comprensibile che il leader cinese Xi Jin Ping abbia deciso di non prendere parte alla prossima riunione del G20. La Cina parteciperà al vertice, ma in tono minore, con il suo primo ministro, a testimoniare che l’epicentro del governo dell’economia mondiale si sta inevitabilmente spostando e che l’egemonia degli Stati Uniti e dei paesi occidentali si avvia ad un tramonto che non sarà forse rapido, ma certamente oggetto di uno scontro senza esclusione di colpi. Lo sterminato mercato rispetto al quale i BRICS operano non eguagli al momento i consumi di quello dei paesi economici più sviluppati ma raduna la gran parte della popolazione mondiale e sembra offrire aiuti allo sviluppo senza condizioni e soprattutto gode di consenso crescente
in molti dei paesi più poveri ma ricchi di materie prime.
La reazione USA e dell’occidente
Gli Stati Uniti stanno reagendo a questa situazione subendo per il momento l’iniziativa della controparte, intessendo alleanze regionali come quella con i paesi dell’area del Pacifico, affiancati in quest’opera di tessitura di relazioni dalle rinate aspirazioni imperiali del Regno Unito, il quale tenta disperatamente di porre riparo ai disastri della
Brexit, ricostruendo un del tutto ipotetico e inconsistente Commonwealth che oggi non ha più ragion d’essere. Al momento poi le preoccupazioni non sembrano essere eccessive a causa della disomogeneità politica dei BRICS, prova ne sia che molti dei paesi, che ne fanno parte o ambiscono ad entrarvi, continuano a mantenere rapporti molto stretti di carattere economico, politico e commerciale con l’occidente. Tuttavia, il loro mancato sostegno alle posizioni occidentali a proposito della guerra Ucraina la dice lunga sulla loro collocazione sullo scacchiere internazionale e su quanto siano forti i loro rapporti con Russia e Cina.
Ma c’è di più. Questi paesi hanno la tendenza a considerare la guerra Ucraina una delle tante guerre che affliggono il mondo, importante per l’occidente perché per la prima volta la guerra si svolge nell’area europea, ma ritengono che la conduzione disastrosa delle operazioni militari che stanno portando al collasso l’economia dell’ucraina il cui territorio è sempre più inquinato, devastato dalla guerra, invaso da ordigni, da non costituire più uno spazio idoneo a produzioni agricole economicamente valide, collocabili sul mercato. Inoltre, il blocco delle esportazioni del grano e dei cereali ucraini ha dimostrato che l’economia mondiale può fare a meno tranquillamente di questi prodotti che possono opportunamente essere sostituiti da quelli provenienti da altri siti e in particolare la Russia. Questi paesi non vivono il sogno imperiale russo come un pericolo per la loro integrità e i loro interessi.
Il G20 di Delhi e il primato dell’economia
Le conseguenze di questa scelta ben si comprendono se solo si legge la risoluzione finale del summit di Delhi sulla guerra che non distingue tra aggressori e aggrediti al punto da aver fatto infuriare gli ucraini usciti da veri sconfitti dalla riunione che ha segnato il prevalere degli interessi economici su ogni altro. Prova ne sia che il risultato più pubblicizzato dell’incontro è stato l’annuncio della creazione di un corridoio di trasporti terra-mare dall’India all’Europa che permetta di baypassare almeno in parte i trasporti via mare delle merci, costosi, lunghi e pericolosi (a causa della pirateria e degli incidenti) facendo preferire questa soluzione che dimezza i tempi. A ben guardare, in realtà, si tratta di creare un corridoio che faccia concorrenza a quello già molto efficiente e funzionale gestito dalla Russia passando sul suo territorio e che attualmente movimenta prevalentemente le merci cinesi ma anche quelle indiane. Il nuovo corridoio non solo presenta molti problemi politici da superare ma di fatto scardina l’efficacia delle sanzioni contro l’Iran attraversando il suo territorio, sdogana l’Arabia Saudita, coinvolge Israele prevedendo l’utilizzazione dei suoi porti.
Il consenso necessario alle deliberazioni finali di India, Brasile e Repubblica Sudafricana che convergono sulle posizioni USA sembrano rafforzare il G20, riconosciuto come forum supremo dell’economia, a detrimento del ruolo dei BRICS, ma per comprendere quello che sta avvenendo occorre considerare che Russia e Cina, defilandosi, hanno ottenuto di isolare politicamente l’Ucraina, non invitata e menzionata nella dichiarazione finale, di fatto declassando il conflitto ucraino a una delle tante guerre della guerra mondiale a pezzetti che dilania il mondo.
Occorre prendere atto che le relazioni internazionali vivono una situazione di stallo, di equilibrio guerreggiato, mentre il nuovo avanza con i BRICS e il vecchio con il G20 tarda a morire. Si tratterà di una lunga e lenta agonia che caratterizzerà comunque i prossimi anni e con esiti incerti e imprevedibili. Chi pensa di dare una spallata alla Russia o alla Cina e risolvere così il contenzioso si illude e ha tutto da perdere da una guerra di usura, prova ne sia che la dichiarazione sulla guerra è generica e vaga: una mera affermazione di principio. E questo mentre Putin e la Russia rompono l’isolamento con l’invito al prossimo G20 in Brasile.
Il ruolo dell’Unione Europea
Di fronte al coalizzarsi di molti paesi dalle economie emergenti e soprattutto a fronte delle loro esigenze di indipendenza e autonomia finanziaria l’Unione Europea ha certamente di che preoccuparsi , Tuttavia, in questo scontro l’Unione europea rischia di soccombere per due ordini di motivi: da un lato essa è completamente prigioniera della sua collocazione nella NATO, a fare da servo sciocco nella guerra contro la Russia e a sostegno dell’Ucraina, guerra condotta a discapito dei propri interessi economici, commerciali e strategici, fortemente voluta dal Regno Unito, proprio per dividere l’Europa, dagli Stati Uniti, a motivo dei loschi affari di Biden nel paese e delle lobby irredentiste e affaristiche pagate dal governo ucraino. A riprova di ciò basti pensare a quanto è costato all’economia europea il sabotaggio del Nord Stream due, preparato voluto e finanziato dai servizi segreti britannici e statunitense, come documenta il Sole24ore in una corrispondenza da Washington giorno del 22 febbraio 2022, due giorni prima dello scoppio della guerra.
Dall’altro lato, perseguire un proprio progetto in materia di sviluppo economico, cercando di dar vita ad una economia che in più occasioni abbiamo definito di tipo neocurtense, la cui realizzazione è sempre più problematica a fronte del venir meno del partner russo che in origine avrebbe dovuto accompagnare la transizione verso i nuovi assetti, fornendo energia a basso costo e permettendo alle economie dei paesi UE di realizzare l’accumulazione dei capitali necessari ad attuare la cosiddetta rivoluzione green che l’Europa ha in animo di condurre, almeno a restare a quelle che sono le dichiarazioni ufficiali dell’Unione, ma che a fronte della crisi sempre più profonda del locomotore tedesco, alla contemporanea crisi dell’asse franco-germanico e segnatamente del cosiddetto capitalismo renano, a fronte delle crescenti difficoltà delle economie del continente, appare sempre più problematica da realizzare.
La Redazione