L’approvazione da parte del Parlamento europeo della Nature Restoration Law con 336 voti favorevoli, 300 contrari e 13 astenuti è stata salutata come una vittoria degli ambientalisti e come la sconfitta del tentativo di costruire un nuovo blocco di potere che gestirà l’Ue dopo le elezioni del giugno 2024, basato sull’alleanza tra il Partito popolare e i Conservatori di Giorgia Meloni.
Nel merito la legge mira a ripristinare il 20% delle aree terrestri e marine dell’Unione europea entro il 2030, in modo da fermare la perdita di biodiversità entro il 2030. Sono previste misure di ripristino della natura che riguardano tutti gli ecosistemi che necessitano di un’inversione di tendenza entro il 2050. L’obiettivo è quello di garantire sicurezza alimentare, resilienza climatica, salute e benessere per la popolazione, e al tempo stesso la sopravvivenza della fauna e della flora. Tra gli obiettivi più importanti della Nature Restoration Law la volontà di ridurre l’uso dei pesticidi chimici del 50% entro il 2030, l’aumento delle aree protette, gli sforzi per salvare gli impollinatori, ma anche l’idea di garantire che non vi sia nessuna perdita di spazi verdi urbani entro il 2030 e programmarne, anzi, un aumento del 5% entro il 2050.
Non solo, ma è previsto “un minimo del 10% di copertura arborea in ogni città”, la riumidificazione delle torbiere prosciugate e che aiuterebbe ad assorbire carbonio, l’adozione di diverse azioni per l’aumento della biodiversità nei terreni agricoli, il ripristino degli habitat nei fondali marini, la rimozione delle barriere fluviali per liberare 25mila chilometri di fiumi in modo da prevenire disastri durante le alluvioni. Ogni Stato membro dovrà sviluppare piani nazionali di ripristino con una precisa rendicontazione di quanto fatto, in modo da poter monitorare l’attuazione del progetto e conseguire gli
obiettivi previsti dalla legge. Si stima che gli investimenti per il recupero dell’ambiente, per ogni euro speso, porteranno fra gli 8 e i 38 euro in benefici per ogni cittadino dell’Unione.
La risposta ambientalista alla crisi climatica si concretizza in una profonda ristrutturazione produttiva. La crisi climatica, di concerto è quella energetica, costringono ad una profonda revisione della struttura economica e produttiva che richiede giganteschi investimenti e soprattutto una diversa organizzazione sociale che si scontra con interessi consolidati sia a livello industriale che agricolo. Se è vero che la crisi energetica produce il necessario mutamento dell’apparato industriale, la rinuncia al petrolio e alle fonti fossili come principale strumento di produzione di energia, si accompagna ad una altrettanto profonda revisione del modo di produzione agricolo e richiede l’abbandono, o almeno il ridimensionamento, di una agricoltura intensiva che plasma il territorio secondo le esigenze produttive, sconvolgendone l’assetto naturale, prevede l’uso massiccio di diserbanti e pesticidi, il ricorso intensivo a fertilizzanti, per raggiungere la produttività massima in campo agricolo che fa da supporto ad un’ altrettanto intensivo allevamento.
Basti considerare che oggi l’Europa è il continente che movimenta la maggior parte del commercio mondiale di carni e di animali vivi. Non è un caso, ed è bene ricordarlo, che l’Unione europea sia nata sull’esigenza di coordinamento delle politiche agricole e abbia assunto questo elemento come uno dei punti qualificanti che hanno segnato, tempi, modi e tappe dello sviluppo dell’Unione. Ne fa fede il bilancio comunitario in materia agricola che rappresenta una delle voci più robuste dell’intera struttura produttiva dell’unione. Ne consegue che una ristrutturazione profonda della produzione
agricola incide in modo massiccio su alcuni paesi che hanno fatto di questo settore quello chiave, sul quale fa perno il benessere delle popolazioni.
La risposta olandese
Se si parte da queste premesse ben si comprende perché una forte opposizione a questo progetto di legge sia nata in Olanda, paese che malgrado la sua piccola estensione è uno dei maggiori produttori in campo agricolo e zootecnico e abbia trovato nel paese una base sociale di sostegno costituita dal mondo agricolo che rappresenta da sempre il settore di punta dell’economia del paese. Prendendo a pretesto le elezioni provinciali olandesi svoltesi a marzo, si è affermato un nuovo partito, il Movimento Contadino-Cittadino (in olandese BoerBurgerBeweging, BBB) che ha ottenuto quasi il 20% dei voti (alle elezioni del 2019 aveva ottenuto un solo seggio).
Non è passato molto tempo da allora è il premier Mark Rutte sostenitore della politica ambientalista, ha dovuto prenderne atto del mutato clima politico e, sia pure su questioni in parte diverse, ha dovuto rassegnare le dimissioni e annunciare nuove elezioni per il mese di settembre e il suo ritiro dalla politica, quasi a sancire la fine di un’epoca dopo un decennio di governo ininterrotto.
È ormai un dato di fatto che in Europa – e non solo – è in corso uno scontro tra città e campagna che vede gli abitanti delle città schierati in difesa dell’ambiente e della lotta al mutamento climatico, disponibili a sopportare le modifiche necessarie al modello di vita e di lavoro, pur di contrastare o almeno rallentare il consumo del suolo e la crisi
climatica, mentre gli abitanti delle periferie e delle campagne vedono rimessa in discussione la qualità della vita e il loro benessere per come esse lo hanno organizzato e sviluppato nel tempo e perciò si oppongono al cambiamento.
Questo comune sentire è molto diffuso in Olanda. anche per motivi culturali è religiosi. Infatti il paese è nato materialmente da una lotta costante e continua dell’uomo contro la natura, che è stata violentemente modificata, provvedendo a far emergere terreni sommersi, tanto che la superficie del paese viene di volta in volta aggiornata in
crescita, a seconda della quantità di terreno che attraverso nuovi polders nuovo territorio coltivabile viene sottratto al mare. Recuperare terreni al mare, significa metterli a cultura, renderli produttivi, insediare su di essi delle attività, comprese quella di allevamento, che per massimizzare i profitti sono a carattere intensivo e che, nel tempo, sono divenute la ricchezza del paese. Del resto l’Olanda è famosa per aver depredato per secoli le colonie con la Compagnia delle indie orientali e per aver finanziato la progressiva conquista di territori con il sudore e il sangue delle popolazioni dell’Asia, e
non solo!
Per comprendere la portata del problema occorre ricordare che nel 2020 i Paesi Bassi si sono collocati al quarto posto per emissioni di gas a effetto serra pro capite, dopo l’Irlanda, il Lussemburgo e la Repubblica Ceca. Inoltre, l’Olanda è il primo paese dell’Ue per concentrazione di azoto nel terreno, il composto alla base della dispersione di ossido di di azoto (un gas a effetto serra) nell’atmosfera. Quello agricolo è il maggior responsabile per gli alti livelli di emissioni di questo gas, oltre che di metano, anche perché il paese ha la più alta densità di animali da allevamento per ettaro di terreno, che producono emissioni di composti azotati.
Nel periodo fra 2010 e 2019 i Paesi Bassi non hanno rispettato limiti posti alle emissioni di alcuni fra i più dannosi gas a effetto serra, violando la Direttiva europea 2023/2264, tanto che nell’estate 2019, il governo olandese aveva dovuto mettere a punto un piano per tagliare le emissioni, di metano e disossido di azoto, del 50% entro il 2030 (in alcune aree addirittura del 70%). Se il piano fosse stato attuato avrebbe portato alla chiusura di numerose fattorie e alla riduzione dei capi di bestiame per allevamento, oltre che l’interruzione di progetti edilizi per nuovi insediamenti nei polders e alla riduzione del limite di velocità per le auto.
Tuttavia, proprio per le conseguenze sul settore agricolo, il piano aveva provocato proteste massicce da parte di allevatori e agricoltori. Chiedere quindi agli olandesi di rinunciare al loro sogno di domare la natura, anzi indurli ad accettarne le scelte significa operare una vera violenza culturale sulla storia del paese. Si aggiunga che il comune sentire della popolazione risente della cultura calvinista e quindi guarda con un certo favore alla cosiddetta “teologia della prosperità”, ovvero ritiene che l’uomo Faber se emancipi attraverso il proprio lavoro e tanto più guadagna rispetto al Regno dei cieli quanto più le sue opere in terra si distinguono per operosità e carità. Siamo cioè alle radici del capitalismo come ci ha spiegato Max Weber.
Paradossalmente, un’altra componente della cultura del paese guarda con particolare attenzione al rispetto della natura, perché sa che essa non può subire violenza, prova ne siano le sanzioni particolarmente pesanti nei confronti di coloro che danneggiano il corretto funzionamento dei canali e il drenaggio delle acque, e questo perché manipolando la natura gli olandesi hanno imparato che vi sono regole da rispettare per impedire che la natura stessa riprenda il sopravvento e per far sì che gli elementi possano essere domati. Questa consapevolezza culturale pesa sul tessuto sociale del paese facendo sì che vi operi un movimento ambientalista forte e robusto.
È per questo motivo che oggi assistiamo ad una polarizzazione crescente del comune sentire della popolazione, divisa tra ambientalisti e sostenitori del rispetto della natura e quindi sostenitori della legge votata dalla Comunità europea e alla contemporanea presenza degli agricoltori e degli allevatori che rappresentano un blocco sociale antiecologista, che vede messo in pericolo il modello produttivo del paese e giudica eccessivo il sacrificio di posti di lavoro sull’altare della transizione economica verde.
Il movimento contadino in Europa
C’è chi ridimensiona il fenomeno sostenendo che siamo di fronte a una redistribuzione dei voti a destra perché a fare le spese del successo del neonato partito da contadino è stato un altro partito di estrema destra, il Forum for Democracy, un partito euroscettico fondato nel 2016, passato dal 14,4% del 2019 ad appena il 2% alle ultime elezioni.
Il fatto è che la sinistra e gli analisti politici più in generale non si rendono conto che si sta creando una base sociale che ha motivazioni strutturali e caratteristiche economiche specifiche che fa del populismo e dell’anti ecologismo la bandiera politica il nome della quale rivendica la gestione della società. Questi nuovi movimenti hanno fatto proprio un approccio demagogico, tipico dei movimenti populisti alla politica, che oppone la classe dirigente, descritta come elitaria a quella dei lavoratori. Oltre a questo, il BBB incarna anche una retorica nuova sul panorama politico europeo: una retorica che descrive le politiche ambientali e climatiche dei governi come una nuova forma di oppressione che chi è al potere esercita sui cittadini, ignorandone interessi e preoccupazioni.
Questa tendenza è più diffusa di quanto appare se solo si guarda a ciò che sta avvenendo anche in Belgio in Francia e in Germania, dove agricoltori e allevatori sono scesi in piazza per protestare contro le riforme – o le proposte di riforma – del proprio settore atte a tagliare le emissioni di gas a effetto serra. Ovunque la contestazione è la stessa: la transizione economica verde non può avvenire sulle spalle dei lavoratori e dei contadini in particolare.
Se In Belgio la protesta contadina si è concentrata sulla caduta dei prezzi del latte e della carne rivendicando degli agricoltori un maggior profitto indispensabile ad impedire il fallimento delle aziende ma non ha trovato almeno per ora una rappresentanza politica e non ha dato vita quindi alla costruzione di uno specifico movimento non altrettanto può dirsi per la Francia dove fin dall’ottobre del 2018 il movimento dei Gilets jaunes si è schierato contro la transizione ambientale, contestando provvedimenti come il rincaro delle accise sui carburanti, l’abbassamento dei limiti di velocità, l’aumento dei pedaggi autostradali e il potenziamento dei radar per rilevare infrazioni. Ne è nato movimento para insurrezionale che per mesi ha animato il fine settimana francesi di blocchi stradali manifestazioni, proteste che assumevano come emblema giubbotti catarifrangenti obbligatori per legge sulle strade. Il Movimento prevalentemente
composto da cittadini appartenenti al ceto medio e generalmente residenti in aree non metropolitane o rurali del Paese, e dunque costretti a spostamenti in auto per raggiungere il luogo di lavoro, ha immediatamente aggregato attori sociali quali
pensionati, lavoratori dipendenti e piccoli imprenditori, delusi dalle politiche sociali dell’esecutivo e dalle mancate promesse del Presidente francese. Successivamente il movimento ha esteso le sue rivendicazioni all’erogazione di maggiori servizi sociali e di sostegno al reddito, alla promozione di imprese nelle aree non urbane, alla revisione del sistema pensionistico, l’aumento dei salari alla cessazione delle politiche di austerità.
Nel tempo il movimento ha parzialmente modificato i suoi obiettivi e hanno ritrovato nuovo vigore sfociando nella lotta che per mesi ha visto la società francese contrapposta al governo nella vertenza sulle pensioni, vertenza apparentemente conclusasi con la vittoria dell’esecutivo, mentre in realtà il fuoco cova sotto la cenere e nuovi focolai di collera sono sempre possibili.
Unificare le lotte
Questo panorama contraddittorio e variegato di lotte e di interessi contrastanti fanno sì che il compito della sinistra sia oggi più difficile che mai, sia che si tratti delle prospettive politiche della sinistra riformista che delle lontane prospettive di una svolta rivoluzionaria. Esigenza prioritaria è certamente quella di riuscire ad unificare le lotte, trovando obiettivi comuni, in una situazione in cui la ristrutturazione capitalistica in atto e la profonda trasformazione dell’economia indotta dalla crisi energetica e climatica, presentano un quadro tutt’altro che favorevole a livello istituzionale, con il prevalere al governo di partiti di destra, il che sta creando le condizioni per un possibile
riorientamento dell’asse politico a livello comunitario.
A fronte di interessi di classe che divergono sempre di più oggettivamente non è possibile individuare una direzione unica e fornire un’indicazione organica della direzione nella quale muoversi e dunque non si può che partire dai territori, con il sostegno a lotte di resistenza, cercando di mantenere la coesione territoriale e l’unità di classe, come punto di partenza di un’azione comune, nella prospettiva di intravedere linee portanti di una società diversa. di dare concretezza alla lotta contro le disuguaglianze, innanzitutto per un salario minimo di sussistenza, che garantisca il mantenimento di condizioni essenziali di vita, con livelli di assistenza sanitaria, di solidarietà sociale, di istruzione, almeno accettabili, cercando di contenere lo straripante potere delle destre politiche e sociali che in questo momento sono egemoni e stanno
conducendo la lotta di classe con determinazione, vincendola.
La Redazione