L’Europa è la regione del mondo nella quale più alte sono le garanzie dei diritti e si può godere del tenore di vita più elevato ma è insieme la più colpita dalla crisi demografica: è perciò che verso il suo territorio si dirige un flusso crescente di migranti da tutto il mondo. Nel suo territorio gli anziani (65 anni) sono in percentuale superiori ai giovani quindicenni, mentre a livello globale un quarto della popolazione mondiale ha meno di 15 anni. Nell’ultimo decennio, la popolazione del continente è diminuita, mentre i decessi hanno superato le nascite in molti Paesi, tanto che Eurostat prevede che nel 2030 nasceranno 190mila bambini in meno rispetto al 2020, se si guarda all’ottavo Rapporto sulla coesione territoriale europea (European data journalism networ). Questo anche se non tutti gli Stati membri chiuderanno il decennio con un bilancio in negativo.
Tuttavia, il declino demografico non è uniforme e nove Stati Ue su 27 hanno registrato un tasso di fecondità in aumento. Tra questi l’Ungheria, che è passata da 1,25 a 1,59 figli per donna e la Repubblica Ceca, salita da 1,51 a 1,83, eguagliando il record detenuto storicamente dalla Francia, il cui dato, negli ultimi anni, risulta in calo. Si registra inoltre il miglioramento della Germania, altro Paese con grossi problemi storici di denatalità, dove la fecondità delle donne è passata da 1,39 a 1,58 figli (ma che ha goduto di un aumento di popolazione grazie alla massiccia emigrazione).
Sono solo tre i Paesi che hanno chiuso il 2021 con un tasso di natalità più elevato rispetto a quello del 2010: la Germania (+15,7%), l’Ungheria (+7,8%) e l’Austria (+2,1%) e. tuttavia, ciò non è sufficiente a evitare un declino del numero dei rispettivi abitanti. Al netto dei fenomeni migratori, per avere una popolazione stabile servirebbe un tasso di
fecondità superiore a 2 cosa che in Europa non avviene da 1975 in nessun paese.
Per quanto riguarda l’Italia il nostro è uno dei Paesi meno fecondi in Europa, insieme a Spagna e Malta, con meno di 1,3 figli per donna all’ultimo posto per tasso di natalità, il più basso nella Ue nel 2021, pari a 6,8 nati ogni mille residenti, contro una media europea di 9,1. L’età media delle madri al parto del primo figlio in Italia è pari a 33,1 anni, contro una media Ue che, seppur in crescita, si attesta a 29,4 anni, come confermato dall’Istat nel 2021.
Le conseguenze strutturali del calo demografico
Il calo demografico non è privo di conseguenze, infatti mutando il rapporto fra le persone con un’età superiore a 65 anni e giovani in età lavorativa diminuisce il numero delle persone attive e quindi la possibilità di sostenere con le retribuzioni di coloro che lavorano pensioni e stato sociale per la totalità della popolazione. Gli Stati hanno quindi
bisogno di aumentare il numero di persone attive e ciò può avvenire nell’arco di un periodo breve solamente attraverso l’immigrazione. Pertanto essa diviene una necessità strutturale, giustificata e sostenuta da ragioni economiche e dalla necessità dei sistemi produttivi; ecco perché il problema migratorio va oggi affrontato in un’ottica nuova, che deve tener conto delle richieste crescenti e pressanti delle imprese e dei sistemi paese che domandano una maggiore disponibilità di manodopera per affrontare le necessità della produzione e del mondo del lavoro. Questa necessità è oggi sotto gli occhi di tutti, basta fare riferimento alle pressanti richieste che vengono dalle diverse filiere produttive che, a corto del personale necessario alla produzione domandano un massiccio ingresso di immigrati capaci di soddisfarne le esigenze.
Tuttavia non si tratta di una richiesta di manodopera e di persone indifferenziata, perché le richieste riguardano lavoratori dotati di specifiche capacità professionali, capaci di rispondere alle esigenze dee settori produttivi. Pertanto sarebbe necessario un cambio di passo nell’organizzazione dell’emigrazione, provvedendo alla selezione e alla preventiva formazione delle persone alle quali si consente l’ingresso nel paese, in modo che queste possano fornire un apporto funzionale alle esigenze del mondo produttivo; tutto ciò contrasta totalmente con l’assetto attuale delle leggi che regolano il fenomeno migratorio poiché si tratta di leggi di polizia che hanno lo scopo principale di impedire e ostacolare l’emigrazione fino a bloccarla. Queste leggi inoltre risentono dei problemi specifici e delle caratteristiche che le migrazioni verso i diversi paesi possiedono, in quanto ogni paese ha una propria specificità. Per analizzare la complessità del fenomeno occorre prendere in esame problemi e caratteristiche dei diversi paesi in modo da potersi rendere conto di quali possono essere le soluzioni più idonee al problema nel complesso., quali gli interventi specifici e quelli comuni.
Procederemo perciò per comodità di analisi a dividere il continente in diverse aree in modo da cogliere le differenti specificità.
Una prima classificazione
Distinguiamo fra un’area di lingua spagnola e portoghese caratterizzata dall’esistenza di un ampio bacino di emigrazione verso l’America Latina e comunque verso altri continenti che costituisce un serbatoio per una possibile emigrazione di ritorno, costituita da popolazioni che possiedono la stessa lingua del paese e sono figli della stessa cultura.
Se questa emigrazione avvenisse – e nella misura in cui già avviene – si tratta di una migrazione di ritorno che consente un facile reinserimento dei migranti nel tessuto economico e sociale del paese, che presenta certamente minore difficoltà quando la provenienza é da paesi della stessa cultura, abitudini, lingua, religione e etnia. Quando ciò non avviene l’integrazione è certamente più difficile e presenta specificità che esamineremo nel prosieguo della nostra analisi e gli strumenti di integrazione necessari divengono quelli comuni a numerosi paesi.
Allo stesso modo possiamo parlare di un’immigrazione di ritorno per quanto riguarda la Francia, la quale non solo beneficia di un passato coloniale che consente al paese di attingere ad un bacino francofono, ma ha disseminato con la propria cultura e la propria lingua una presenza di comunità legata alla madre patria in vaste aree del mondo. Infatti, il paese è non a caso la meta preferita di molta dell’immigrazione proveniente dall’Africa e segnatamente dal Nord Africa soprattutto, tanto che i migranti provenienti da quest’area costituiscono oggi una parte non irrilevante dei cittadini del territorio metropolitano della Francia.
Analogo discorso può farsi e per i medesimi motivi per l’Inghilterra, la quale è in grado anch’essa di attingere popolazione da numerosi territori e che inoltre dispone di un interscambio di popolazioni con l’Australia e la Nuova Zelanda, nonché con gli Stati Uniti e il Canada. La vastità del suo dominio imperiale e la “colonizzazione linguistica” che ne è derivata ne fanno la meta preferita di molti migranti. Il fenomeno migratorio relativo al Regno Unito verrà analizzato nella sua specificità con criteri specifici.
Diverso ancora è il caso degli altri paesi d’Europa. La Germania ha attuato una politica migratoria che in una prima fase si è nutrita della legge del sangue, ovvero quella legge che ha permesso il rientro in Germania di quelle popolazioni germanofone disseminate nell’Est Europa e che in passato avevano costituito motivo per il tentativo di espansione territoriale del paese. In realtà dalla fine della seconda guerra mondiale la Germania ha potuto progressivamente beneficiare di un flusso di ritorno di popolazioni tedesche nei paesi dell’Europa dell’Est e poi, successivamente, dopo il 1989, ha usufruito dell’unificazione del paese che ha consentito un progressivo allargamento
della sua popolazione.
Non va dimenticato inoltre che la Germania ha posto rimedio alla crisi demografica conseguente alla sconfitta nella Seconda guerra mondiale integrando la propria popolazione con un flusso migratorio dagli altri paesi europei per motivi di lavoro, assorbendo lavoratori provenienti dalle parti più diverse; e infatti sul suo territorio si sono create delle vere e proprie enclave come quella turca nella Rhur o nella città di Berlino, dove esiste una vasta comunità turca. Così è avvenuto anche per molti lavoratori italiani emigrati in Germania per motivi di lavoro.
Successivamente, in anni più recenti e soprattutto dopo l’unificazione, il governo tedesco ha perseguito una politica di allargamento della emigrazione temporanea e stagionale con i paesi dell’Est, instaurando delle relazioni pressoché stabili che hanno dato luogo a flussi migratori periodici, con popolazioni collocate immediatamente oltre la
frontiera del paese, che hanno utilizzato il lavoro in Germania come lavoro stagionale.[1] Quando queste condizioni sono parzialmente mutate la Germania ha consentito l’ingresso massiccio di popolazioni provenienti dal Medio Oriente,
attuando una preventiva selezione delle loro capacità professionali e di istruzione, provvedendo a predisporre corsi di alfabetizzazione, distribuendo sul territorio i nuovi arrivati, organizzando attività di ulteriore formazione e avviamento al lavoro, il che spiega l’ampiezza, la portata e il successo dell’operazione voluta dalla Merkel che ha riguardato i migranti siriani acconti in Germania in un numero vicino al milione proprio grazie ad una preventiva accurata preparazione di questa immissione massiccia di popolazione lavorativa attiva.
Le migrazioni verso i paesi del Nord Europa sono state invece necessitate soprattutto da persecuzioni politiche. Si è trattato negli anni passati soprattutto di rifugiati che sfuggivano alle persecuzioni nei loro paesi, alla ricerca di spazi nei quali i diritti umani fossero garantiti. A questo flusso, col tempo. si è aggiunta una migrazione economica che tuttavia oggi è mal sopportata in questi paesi per il peso crescente che la presenza di questa fascia di popolazione esercita sulle necessità dello Stato sociale.
Alcuni paesi europei e segnatamente la Polonia, l’Ungheria, la Cechia, la Slovacchia hanno attuato una politica di respingimento sistematico e scientifico della migrazione, preferendo adottare politiche di potenziamento della natalità facendo proprie, sotto un profilo più generale, politiche securitarie di tipo xenofobo che hanno consentito loro di
respingere la migrazione di massa che ha investito l’Europa.
Non possiamo parlare di una migrazione verso i Balcani perché quest’area è stata devastata dalla guerra civile e gli spostamenti di popolazione hanno riguardato il riassetto territoriale della loro distribuzione sul territorio sulla base di criteri etnici e linguistici che hanno comunque lasciato in molti casi irrisolti i problemi di convivenza pacifica fra popolazioni pure affini. Non dobbiamo parlare perciò, di quest’area come di un’area di immigrazione ma invece come di un’area di migrazione, prevalentemente verso gli altri paesi europei. In questo panorama rimane da analizzare il caso dell’Italia alla quale è necessario in questo contesto dedicare una specifica attenzione.
Altrettanto dicasi per paesi come la Romania (la Moldavia, i cui cittadini possiedono spesso anche il passaporto rumeno) e la Bulgaria, paesi questi di massiccia emigrazione a carattere stanziale in occidente.
La politica migratoria in Italia
L’Italia è sempre stato un paese di emigrazione. Subito dopo l’unità furono gli abitanti del Nord del paese, residenti delle zone più povere a migrare verso gli Stati Uniti e il Sud America. Poi tocco ai gli abitanti del meridione, i quali fornirono le braccia necessarie allo sviluppo degli Stati Uniti e all’emigrazione nel mondo popolando i territori dell’America Latina, soprattutto l’Argentina e il Brasile. Il dopo guerra vide la ripresa del fenomeno con una migrazione prevalentemente diretta verso i paesi europei, in Germania, Belgio e Francia; significativo è sintomatico per capire natura e fini di questo flusso migratorio il lavoro degli immigranti italiani nelle miniere del Belgio, dove la tragedia di Marcinelle ricorda il commercio di braccia esistente fra il Belgio e l’Italia che consentiva al nostro paese di ottenere per ogni contingente di migranti inviato un vagone di carbon fossile per il funzionamento delle industrie italiane.
L’inversione di tendenza si ebbe plasticamente l’otto agosto 1991 quando a Bari sbarcarono i 20.000 profughi della Valona che fuggivano dall’Albania. In quell’occasione il paese, e soprattutto gli abitanti della Puglia, si mobilitarono per accogliere i profughi, dimostrando di ricordare quella che era stata l’esperienza del paese nella attività migratoria.
Da allora molto tempo è passato e con il crollo dei paesi dell’Est la migrazione in Italia si è arricchita del contributo proveniente da questi paesi con una migrazione che, per quanto riguarda alcuni di essi ha raggiunto dimensioni decisamente notevoli; è il caso di quella proveniente dalla Romania che negli anni ha visto crescere la comunità rumena
in Italia fino a diventare la più numerosa del paese.
Accanto a questo flusso di migranti si è sviluppato quello proveniente dall’Africa, in un primo momento dalla e attraverso la Libia e poi dagli altri paesi del Magreb e dall’Egitto. A questa migrazione si sono aggiunti migranti provenienti dall’estremo Oriente, dal Medio Oriente, dall’Iraq, devastato dalle guerre scatenate dagli Stati Uniti, mentre
parallelamente cresceva il flusso proveniente dal centro Africa, mano a mano che la popolazione africana cresceva e parallelamente aumentava la desertificazione dei territori per effetto della modifica del clima, veniva distrutta l’economia rurale di sussistenza a causa del crescente sfruttamento da parte delle multinazionali e degli interventi economici degli Stati ex coloniali, che hanno sostituito lo sfruttamento diretto delle risorse del territorio con quello indiretto per il tramite e con il sostegno delle élite locali.
Per ciò che concerne l’Italia nel 2000 interviene a cercare di contenere il fenomeno la legge Bossi Fini la quale chiude il paese all’immigrazione legale e stabilisce un meccanismo assurdo di entrata nel paese che richiede l’esistenza di un preventivo contratto di lavoro stipulato nel paese di origine del migrante affinché il migrante possa legittimamente migrare nel paese e ottenere i necessari permessi di soggiorno e di lavoro. A fronte di questa legge il risultato non poteva che essere quello di far crescere a livello esponenziale il fenomeno della migrazione illegale.
La legge rispondeva al diffondersi di sentimenti e atteggiamenti sempre più xenofobi, alimentati dalla propaganda politica soprattutto della Lega ,che intercettava il crescente disagio provocato dalla concorrenza su un mercato del lavoro precario e privo di tutele del lavoro sottopagato offerto dai migranti, costretti dalla clandestinità a trovare nel lavoro nero i mezzi di minimo sostentamento. La Lega poteva cosi intercettare i frutti di una situazione che aveva contribuito a creare decidendo di cavalcare politicamente il problema migratorio per guadagnare consensi e chiudere in un recinto i lavoratori
della parte più sviluppata e più ricca del paese, timorosi di vedere insidiate le proprie posizioni di relativo benessere dal crescente numero di persone in cerca di lavoro a qualunque condizione.
Accanto alle carenze strutturali e di sistema del mercato del lavoro in generale il paese era impreparato di fronte al nuovo fenomeno e non coglieva i problemi che esso portava con sé; soprattutto le forze della sinistra non erano in grado di affrontare i problemi posti dall’integrazione nella società italiana di persone provenienti da altre culture, in possesso di altre abitudini e tradizioni per molti versi incompatibili con quelle della popolazione autoctona.
Ci riferiamo hai problemi che portava con sé la popolazione proveniente da paesi islamici, la quale si caratterizza per abitudini e costumi certamente distanti da quelli di una parte del paese, mentre meno evidenti sembravano essere i problemi di integrazione per le popolazioni e i migranti provenienti dall’Est Europa, i quali hanno soprattutto nell’appartenenza religiosa l’elemento di differenziazione, anche se si tratta pur sempre di popolazioni di tradizioni prevalentemente cristiane ortodosse. È un dato di fatto oggi la presenza incontrovertibile e radicata di una componente della popolazione di origine rumena, alla quale si aggiungono nuovi cittadini italiani provenienti. sia pure in misura minore da altri paesi l’Est Europa, anch’essi a prevalenza ortodossa come Moldavia Bulgaria, e una parte almeno dei paesi balcanici che nel loro insieme fanno sì che in Italia ci si trovi di fronte per la prima volta ad una minoranza religiosa organizzata pari a tre milioni di potenziali appartenenti al culto ortodosso.[2]
Questo elemento strutturale del tutto nuovo della popolazione italiana non è stato oggetto di attenzione per quanto riguarda la necessità di dar vita a politiche di integrazione culturale e umana necessari a rendere coesi i rapporti fra le diverse componenti della popolazione del paese, con il risultato di veder crescere comportamenti di tipo razzista e xenofobo e di veder vanificato il processo di integrazione che pure la scuola pubblica e le associazioni di volontariato e solo in minima parte le istituzioni hanno faticosamente cercato di promuovere ai fini di consentire la coesione del paese.
All’appello sono spesso mancate le organizzazioni sindacali e certamente i partiti.
Migrazione e diritto di asilo
Ma accanto alla migrazione per ragioni economiche ve ne un’altra che avviene a prescindere dalla volontà delle persone coinvolte e costituisce il frutto di una scelta necessaria ed imposta. Si tratta delle popolazioni e delle persone costrette a migrare per poter godere dei diritti umani di libertà non solo economica, ma sociale, politica, di genere, etnica e di appartenenza al gruppo sociale e umano.
Le politiche imperialiste di questi anni, le dittature sorte nei paesi appena liberi dal dominio coloniale, gli Stati teocratici formatesi e gestiti da formazione religiose fondamentaliste nel mondo islamico, ma non solo, hanno creato situazione di forte ed intensa repressione dei diritti sociali e umani, prodotto la perdita dei dritti politici, generato persecuzioni razziali, di genere, etniche, guerre civili, assoggettamenti di interi popoli, che hanno prodotto un esodo diffuso di popolo e di uomini e donne in fuga. Ne è scaturita la crescita esponenziale delle richieste di asilo e accoglienza umanitaria che sta mettendo in crisi il diritto di asilo.
È bene precisare che si tratta di un diritto umano, garantito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, costruito sullo statuto dei rifugiati, redatto sulla base della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite che hanno affermato il principio che gli uomini, senza distinzioni, devono godere dei diritti dell’uomo (e delle donne) e delle libertà fondamentali, e che occorre garantire loro l’esercizio di tali diritti nella maggiore misura possibile e messo a punto lo statuto dei rifugiati da applicare sulla base della più ampia accezione del principio di solidarietà.
Il diritto di asilo è perciò garantito da molte Costituzioni, compresa quella italiana; da ciò discende un impegno all’accoglienza dei rifugiati che non possono in alcun modo essere equiparati – come invece fa di fatto il governo italiano – ai migranti, tanto più se irregolari. Costoro infatti possiedono il diritto ad essere accolti nel territorio dello Stato, quando i loro diritti fondamentali vengono negati. L’attribuzione ad essi della qualifica di clandestini costituisce, quindi, una palese violazione del diritto internazionale e di quello dello Stato, sanzionato dalla legge negli Stati che hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra, come ha fatto lo Stato italiano, il quale, anche con gli ultimi provvedimenti adottati dopo i fatti di Cutro ha ristretto i criteri per accedere all’accoglienza umanitaria e vedersi applicato il diritto d’asilo e questo malgrado che l’omesso soccorso e la mancata accoglienza dei rifugiati costituisce una violazione di legge.
Crisi demografica ed emigrazione
La crisi demografica dei territori europei è, dunque, un dato di fatto incontrovertibile, al quale non è possibile porre rimedio solo attraverso l’incremento della natalità che richiede tempi lunghi per evidenti ragioni. Ne consegue che il contributo che l’emigrazione può dare al problema non può essere evitato, ma che il problema va affrontato mettendo a punto una strategia per risolvere i problemi connessi all’integrazione. Non solo ma l’effetto congiunto dell’emigrazione economica e il peso crescente dei rifugiati per motivi umanitari in conseguenza dell’applicazione del diritto di asilo, creano non pochi problemi che necessiterebbero di un esame attento, di soluzioni adeguate dalle quali dovrebbero discendere le metodiche con le quali viene affrontato il problema migratorio, nel suo complesso, premettendo che in ragione della crisi demografica esso non è eludibile.
Sarebbero perciò necessarie politiche di inclusione capaci di consentire una sia pur graduale integrazione dei nuovi venuti nelle società ospitanti, attraverso la trasmissione dei valori che sono proprie di queste società; sarebbe opportuno dar vita a strutture nelle quali i nuovi venuti dovrebbero ricevere gli elementi essenziali di inclusione nella
società attraverso l’illustrazione dei diritti e dei doveri che sono propri dei cittadini; sarebbero necessarie politiche di formazione e di avviamento al lavoro; opportuna una pianificazione dell’insediamento dei nuovi venuti nei territori, affinché le nuove presenze siano funzionali al ripopolamento di aree ormai prive di abitanti per consentire una migliore e più razionale utilizzazione dei territori e degli spazi disponibili. L’abbandono dei territori e la mancanza di cure e la loro manutenzione produce un degrado progressivo che non si riesce ad arginare a causa della sempre maggiore rarefazione
degli abitanti sul territorio. Il paese dai nuovi insediamenti di popolazione, se attuati in modo razionale, avrebbe quindi molto da guadagnare.
Invece le scelte fatte vanno in tutt’altra direzione e si assiste in tutti i paesi europei ad un arroccamento su posizioni difensive e all’adozione di politiche di esclusione che tendono a mantenere lontani i nuovi venuti, attraverso provvedimenti di polizia tanto radicali e crudeli, quando feroci, nella determinazione a violare ogni più naturale rapporto di solidarietà. Ne sono prova le politiche adottate da molti paesi, non ultima quella fatta propria dal governo britannico che si ripropone di deportare i migranti mediante un ponte aereo in Ruanda, ponendo per essi in divieto a vita ad entrare
nei territori del regno.
Tanta barbarie è solo la cartina di tornasole che dimostra il fallimento delle politiche di inclusione sociale e al tempo stesso che quello europeo è un continente ormai vecchio, incapace di guardare al futuro, ossessionato dall’incubo della “sostituzione etnica” e destinato a soccombere nel confronto con le altre aree del mondo sul piano dello sviluppo della società, dei diritti, della cultura e della qualità della vita.
[1] G. Cimbalo, Germania. Le ragioni di una crisi di sistema. UCADI, Newsletter Crescita Politica, Numero 99 – Ottobre 2017 [2] La questione ortodossa in Europa, Ucadi, Newsletter Crescita Politica, Numero 162 – Agosto 2022, Gli ortodossi dei quali parliamo appartengono a Chiese fortemente identitarie e legate a valori tradizionali e regressivi. Risentono del fatto di aver operato in società chiuse e illiberali, hanno un forte legame con lo Stato che supportano con il proprio patrimonio etico in materia di famiglia, rapporti di genere, ruolo della donna, qualità della vita e problemi di fine vita, cure palliative, ecc. Tendono ad avocare a sé il ruolo dell’assistenza attraverso strutture da esse gestite e finanziate dallo Stato, promuovono la scuola confessionale e rivendicano il suo finanziamento, chiedono l’insegnamento religioso nella scuola pubblica e l’adeguamento dei suoi programmi ai valori che esse sostengono. Inoltre l’ingresso dei paesi a maggioranza ortodossa nell’Unione non fa che rendere possibile una convergenza “naturale” con quelle componenti cattoliche integraliste eversive dell’aequis comunitario che operano in Polonia, promuovendo una legislazione fortemente repressiva dei diritti delle minoranze e delle donne sull’interruzione della gravidanza e la gestione del proprio corpo; dell’Ungheria dove vengono adottati provvedimenti analoghi; della Croazia dove la componente cattolica ha spinto la Corte costituzionale a promuovere la tutela dei diritti del feto; della Slovacchia che segue analoghe politiche su famiglia e rapporti di genere.
La Redazione