In un barlume di lucidità, in occasione della riunione della Nato a Madrid, sembra che Draghi, ubriaco di atlantismo, abbia dichiarato “Siamo una minoranza, ma importante” e (forse) potente.
Si direbbe, dobbiamo riconoscerlo, che il demiurgo abbia avuto un attacco di resipiscenza tardiva, difficile da metabolizzate alla presenza di un Biden irresponsabile e miope, condizionato dalle prossime elezioni di medio termine; di Stoltenberg, sempre più stolto e compreso nel ruolo di passare alla storia come colui che ha fatto di una Nato moribonda –
grazie a Putin – una macchina bellica trita soldi pro industria bellica; un esaltato e demagogo oligarca venuto dall’Ucraina, partorito in uno studio televisivo. Tutto questo, mentre Johnson, appollaiato come un avvoltoio sul ramo di un albero, pregusta di banchettare sui cadaveri dei tanti morti, russi e ucraini, frutto delle sue gesta e del progetto
conservatore di rifondare l’impero.
Intanto il resto del mondo va avanti, consapevole sempre di più di poter bypassare un’Europa devastata dagli effetti della guerra, dall’inflazione, dai flussi migratori e dai problemi economici e sociali di gestione delle popolazioni sfollate e si appresta a disegnare nuovi equilibri e le nuove rotte dello sviluppo, mentre tanti paesi scoprono di poter essere attori di prima grandezza (chi più e chi meno) in un nuovo mondo multipolare.
I dati che via via si accumulano relativi alla produzione e al commercio mondiale e tutti gli indicatori ci dicono che l’epicentro dell’economia si sposta verso il Pacifico, l’Africa e l’America Latina, aree nelle quali sia la Russia che la Cina sono molto attive. Ne è una dimostrazione la riunione dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.) che nel loro insieme rappresentano il 41 % della popolazione mondiale, il 24% del PIL e il 16 % del commercio mondiale e queste quote sono destinate a crescere a detrimento dell’Occidente e soprattutto dell’Europa, la vera vittima sacrificale della crisi.
Nel corso della riunione del 23-24 giugno i convenuti hanno sintetizzato le loro priorità in 75 punti tra i quali il “ritorno del multilateralismo”, “l’economia globale contro i protezionismi”, “la riforma del Consiglio di Sicurezza Onu”.[1] È bene ricordare che tra i cinque Paesi emergenti solo il Brasile ha adottato sanzioni internazionali contro la Russia e denunciato la sua aggressione all’Ucraina, anche se tutti hanno invitato i belligeranti al dialogo. Da notare poi che al summit sono stati invitati Argentina, Egitto, Indonesia, Iran, Kazakistan, Cambogia, Malesia, Senegal, Thailandia,Uzbekistan, Fiji ed Etiopia, tutti potenzialmente candidati per entrare nella formula BRICS e che alla fine dei lavori due si sono aggiunti al gruppo, Iran e Argentina.
Sono state significative le dichiarazioni del presidente cinese Xi Jinping: “Alcuni Paesi politicizzano le questioni dello sviluppo e impongono sanzioni per creare divisioni e scontri. Questi Paesi si impegnano nel costruire ‘piccoli cortili con alte mura’ e nelle sanzioni per creare in modo artificiale scontri e divisioni”, producendo con le sanzioni la crisi alimentare e quella economica danneggiando soprattutto i Paesi del sud del mondo. Condividendo le opinioni di Putin e dei cinesi, i paesi partecipanti alla riunione hanno rilevato che in tutto il mondo si sono sviluppati nuovi centri, con nuovi modelli di istituzioni e crescita economica sostenuta e che questi hanno il diritto di difendere la loro sovranità nazionale.
Le aree di “crisi”: il Mar Rosso
In quest’ottica acquistano una particolare importanza strategica alcune aree del mondo in quanto i rapporti di forza che vi si determinano sono essenziali per consentire il controllo delle arterie commerciali e non è un caso che intorno ad esse siano in corso guerre finalizzate a prenderne il controllo. È quanto sta avvenendo nello Yemen, ma al tempo stesso dobbiamo essere consapevoli che il conflitto non investe solo la penisola arabica, ma quanto sta avvenendo sulla sponda africana del Mar Rosso.
A Gibuti, su una superficie di appena 32 mila Km2 sono ospitate le forze militari di otto potenze: Stati Uniti,[2] Cina, Francia, Giappone, India [3], Italia, Spagna e Germania. A questi a breve si aggiungerà l’Arabia Saudita. La Cina, in particolare, oltre che una base militare dove ha insediato 10 uomini, ha acquistato il controllo, dopo un abile negoziato e
con il consenso politico del Governo di Gibuti, del Doraleh Container Terminal (DCT), hub logistico-portuale, costruito dalla multinazionale emiratina DP World, quinto operatore portuale più grande al mondo, sotto il diretto controllo della casa reale degli Emirati Arabi Uniti, che gestisce mediamente il 5% del traffico globale su container. A rilevare il 23,5% delle quote dello scalo è stato il colosso cinese delle costruzioni e della logistica, China Merchants Port Holdings; questa scelta fa passare di mano il ruolo strategico del porto del Mar Rosso e potenzia le capacità di penetrazione economica (e politica) della Cina in Africa e non solo, perché chi controlla questo porto controlla il commercio da e per l’Europa e infeuda alle proprie politiche non solo gli altri esportatori orientali ma anche l’Egitto, proprietario del Canale e le attività dei porti del Mediterraneo in entrata e in uscita.
Chi non ha trovato posto ha Gibuti si è rivolto ai paesi vicini e mentre gli Emirati Arabi Uniti si sono insediati con una base militare ad Assab, nella vicina Eritrea, utilizzata per le operazioni di guerra in Yemen, la Turchia, invece, si è insediata militarmente ed economicamente a Mogadiscio, dove ha sede della più grande base militare turca al di fuori dai confini nazionali, ad espandere la sua presenza al Sudan, sulla costa, nell’isola di Suakin.
Ma quel che rileva è l’insediamento cinese a Gibuti per il volume degli investimenti. Grazie ai capitali e alle imprese cinesi, si sono realizzati in breve tempo numerosi progetti di grande impatto geo-economico, come l’allacciamento, mediante cavi in fibra-ottica sottomarini, tra Gibuti e il Pakistan; un nuovo terminal nel porto di Ghoubet dedicato all’esportazione del sale; ma, soprattutto, il ripristino della ferrovia Addis Abeba- La Cina ha così manifestato la sua intenzione di insediarsi stabilmente nel Paese, in quanto snodo strategico della sua catena mondiale del valore e ganglio vitale della “Via della seta” (Belt and Road Initiative) e da qui spingersi verso i paesi del Corno d’Africa con principale obiettivo l’Etiopia. Questi interessi economici plasmano la posizione e l’approccio della Cina nei confronti di quanto sta accadendo nel Tigray.[4] Pur dichiarandosi fiduciosa nelle capacità del governo etiope di trovare autonomamente una soluzione al conflitto, la Cina non può permettersi di veder fallire lo Stato su cui ha investito di più nell’area.
La Cina in Etiopia
L’Etiopia rappresenta uno dei principali partner cinesi della regione. L’interscambio è di oltre 2,5 miliardi di dollari nel 2021. Non solo, l’economia etiopica, con un PIL cresciuto a un tasso annuo del 9,3% dal 1999 al 2019, rappresenta forse l’esempio riuscito di crescita ispirata al modello cinese. Sin dai primi anni Duemila, la Cina ha fortemente investito in Etiopia, alimentando la crescita del settore manifatturiero, che ha trainato la crescita del Paese, finanziando grandi progetti infrastrutturali ed energetici, come la ferrovia Addis Abeba-Gibuti e la Diga sul Nilo Blu.
La “Diga del Grande Rinascimento Etiope” (anche nota come Gerd, acronimo di Grand Ethiopian Renaissance Dam), sorge nell’ovest dell’Etiopia, a 15 km dal confine con il Sudan, sul Nilo Blu, uno dei maggiori affluenti del Nilo. Il progetto, dal valore complessivo di cinque miliardi di dollari, vede un imponente sforzo finanziario dell’Etiopia, che tramite tasse e finanziamenti della diaspora fornisce circa tre miliardi di dollari, mentre altri due miliardi di investimento sono stanziati delle aziende cinesi Voith Hydro Shanghai e China Gezhouba Group, che costruiscono turbine e generatori.
La costruzione della diga, che dovrebbe esser completata per il 2022, è stata affidata all’azienda italiana Salini Impregilo, che costituisce una tradizionale presenza nel paese. Una volta completata, la Gerd dovrebbe produrre circa 16400 GWh (gigawattora) annui, quantità sufficiente a coprire le necessità del paese e garantire forti quote di export. Dalla vendita di energia elettrica a paesi limitrofi, l’Etiopia potrà accrescere le proprie riserve in valute, necessarie per sostenere progetti di sviluppo del paese.
Se il completamento della Gerd rappresenta un’importante prospettiva di sviluppo per Addis Abeba, questo progetto avrà rilevanti effetti anche sui paesi vicini in particolare il Sudan e l’Egitto. Se da un lato Khartoum vede generalmente come positiva l’attivazione dell’opera, sia per il contributo della diga al contenimento delle frequenti inondazioni – causate dal flusso contemporaneo di Nilo Blu e Bianco nel paese – sia per la possibilità di acquistare energia a basso prezzo, per il Cairo la Gerd rappresenta una fonte di forte preoccupazione. L’Egitto, di fatti, teme gli effetti di una repentina riduzione del flusso dell’acqua del Nilo, che fornisce il 90% delle riserve d’acqua egiziane, utilizzate principalmente per il settore agricolo. Dal Nilo Blu, provengono circa il 70% delle acque che riforniscono il paese. Per questo motivo il Cairo si è da sempre opposto alla costruzione di una diga in Etiopia, annunciata da Addis Abeba sin dagli anni Sessanta. A partire dall’inizio dei lavori nel 2010, la conflittualità tra i due Stati è rapidamente aumentata, con rischi costanti di conflitto. Allo stesso tempo, i due Stati hanno sempre mantenuto viva una diplomazia parallela al fine di raggiungere un difficile accordo che potesse soddisfare le esigenze dei due paesi.
Sia la Russia che gli Stati Uniti hanno cercato di mediare tra i due paesi senza ottenere risultati positivi. Ma il tempo lavora per l’Etiopia e, con la diga ormai completata per oltre il 70%, i due paesi non discutono più sull’eventualità della costruzione, bensì sulla velocità di riempimento dei 74 miliardi di metri cubi di riserve d’acqua della Gerd. Per l’Etiopia tale processo dovrebbe durare tre anni, in modo da rendere operativa la diga entro il 2025, mentre per l’Egitto le riserve andrebbero riempite in almeno sette anni, al fine di contenere l’impatto di una riduzione dell’afflusso di acqua nel paese.
Un calo drastico ed improvviso dell’approvvigionamento d’acqua in Egitto, d’altronde, andrebbe a colpire principalmente l’agricoltura di sussistenza: una percentuale molto rilevante della popolazione egiziana, è esposta al rischio povertà, con possibili ricadute sulla stabilità sociale e politica del paese. Inoltre, le restrizioni causate dalla diga si andrebbero a sommare alla già precaria situazione riguardante la scarsità d’acqua, conseguenza dell’alto tasso di crescita della popolazione egiziana (2% annuo, pari a circa un milione di persone in più ogni 6 mesi), del ritmo sostenuto di urbanizzazione e dell’aumento delle temperature. posto che il riscaldamento globale potrebbe essere di per sé la causa della perdita di oltre il 30% della produzione agricola nel sud del paese entro il 2040.
Per questi motivi, indipendentemente dalle tempistiche entro le quali la Gerd entrerà in funzione, l’Egitto è destinato ad adottare strategie per combattere il rischio siccità. In primis, il Cairo deve investire al fine di ripensare il modello di produzione agricola di sussistenza, ancora basato su vecchie tecniche di irrigazione altamente costose in
termini di spreco d’acqua.
I contrastanti interessi economici e di sicurezza alimentari fra Etiopia ed Egitto mettono in luce quanto sia delicata la partita sulla costruzione della Gerd, e allo stesso tempo sottolineano quanto le prospettive di un sesto degli abitanti dell’intero continente, concentrati nei due paesi, possano dipendere dall’esito cooperativo o meno della
controversia.
La crisi della leadership dell’Occidente e il sogno imperiale della Gran Bretagna
La ricostruzione di quanto avviene nel Corno d’Africa e nell’area del Mar Rosso dimostra in modo evidente l’incapacità di gestire i rapporti tra gli Stati da parte della potenza imperiale statunitense come dell’Occidente, a causa della molteplicità degli attori in campo, della natura ormai multipolare della gestione delle relazioni internazionali, dell’inefficacia delle sanzioni come strumento per penalizzare gli Stati che infrangono i principi che dovrebbero regolare le relazioni internazionali e come strumento di soluzione dei conflitti.
L’onda lunga delle sconfitte USA in Iraq e in Afganistan non è compensata e compensabile dal confronto muscolare ingaggiato nella guerra per procura sul terreno ucraino, dall’Europa per iniziativa degli Stati Uniti e della Gran Bretagna che ambisce ad essere in termini geopolitici la maggiore beneficiaria del conflitto, comunque finisca. Questo perché in ogni caso, l’Europa avrà introdotto nell’UE un frutto malato, l’Ucraina, un paese gestito da oligarchi e certamente illiberale, le cui capacità di riforme interne sono alquanto improbabili per la sua struttura economica e sociale e per la visione valoriale che contraddistingue almeno una parte dell’opinione pubblica del paese. A ciò si aggiungano i
costi economici della ricostruzione non compensabili dagli eventuali profitti, nonché le divisioni profonde su stato di diritto e valori sociali di libertà che già oggi contrappongono al resto dell’Unione paesi come la Polonia, la Slovacchia e per molti versi l’Ungheria, tutti vicini alle posizioni ucraine, piuttosto che ai paesi occidentali. Si aggiunga infine che l’aver reciso la partnership energetica e lo scambio di materie prime con prodotti lavorati ha fatto venir meno le condizioni che consentivano all’economia del continente costi di produzione bassi e competitivi. Ne è prova l’apprezzamento del dollaro sull’euro, segno evidente che i mercati si attendono un arretramento dell’economia dell’area Ue. Così Londra potrà continuare a sognare di fare da arbitro degli inevitabili conflitti continentali e di esercitare sotto altra forma e in uno scenario internazionale che ha nell’Europa un soggetto debole e diviso, la sua ambizione imperiale e il suo ruolo finanziario. [5] Ma in un futuro non ci sarà più Johnson, dimissionato dai suoi, a godersi e a gestire i frutti della politica della Gran Bretagna, anche se nel breve periodo non c’è da attendersi un mutamento di linea politica di quel paese sul suo impegno nella guerra ucraina, perché il progetto di aggressione agli interessi Ue. era condiviso già dal 1914 da David Cameron, William Haugue e Ed Llewellyn, nucleo forte del gruppo dirigente del partito conservatore. Anche se cominciano a non mancare perplessità e critiche tra gli stessi conservatori da quando la Banca d’Inghilterra ha individuato nella guerra una delle cause della crisi dell’economia britannica.
Certo a Zelensky mancherà il conforto del suo scapigliato sodale.
[1] Già nella prima dichiarazione congiunta dei BRICS, del 16 giugno 2009, risultato del meeting di Ekaterinburg, in Russia si leggeva: “Esprimiamo il nostro forte impegno per la diplomazia multilaterale con le Nazioni Unite che svolgono il ruolo centrale nell’affrontare le sfide e le minacce globali. A questo proposito, riaffermiamo la necessità di una riforma globale dell’Onu al fine di renderla più efficiente in modo che possa affrontare le sfide globali odierne in modo più efficace”.
[2] Gli Stati Uniti dispongono della base di Camp Lemmonier, un’ex-guarnigione della Legione Straniera Francese, che si estende su 250 ettari e ospita circa quattromila persone, tra soldati americani, contractors e funzionari civili: vi ha sede l’AFRICOM – il comando generale degli Stati Uniti nel continente africano. Per l’affitto della base militare, l’unica permanente degli Stati Uniti sul continente africano, e per il diritto all’utilizzo di porti e aeroporti limitrofi, il governo americano corrisponde a Gibuti ogni anno 63 milioni di dollari.
[3] In base a un accordo stipulato lo scorso settembre tra Tokyo e Nuova Delhi, la marina indiana può disporre liberamente dello scalo giapponese a Gibuti per le sue operazioni di pattugliamento dell’Oceano Indiano e di contrasto alla pirateria. [4] Dr. Artam, Etiopia: problemi interni e attori internazionali, UCAdI, Newsletter Crescita Politica, dicembre 2020, n.°141; Dr. Artam. Etiopia: conflitto interno e destabilizzazione del Corno d’Africa, UCAdI, Newsletter Crescita Politica, novembre 2020, n.° 139. [5] Guerra in Ucraina: la pista britannica, Newsletter Crescita Politica, Aprile 2022, N° 158
dr. Artam & G.C.