Macron, il visconte dimezzato

Le elezioni politiche restituiscono alla Francia Macron nella condizione di “visconte dimezzato.” Come il celebre personaggio di Calvino, il Presidente francese è stato diviso in due da una palla di cannone proveniente dai campi di battaglia dell’Ucraina. Si è presentato all’elettorato da una parte con un programma di politica estera volto a perseguire la pace attraverso l’apertura di trattative fra le parti e con l’obiettivo di una tregua, raccogliendo il sentire della maggioranza dell’opinione pubblica, non solo francese, ma anche degli altri paesi dell’Ue. contrari alla guerra. Dall’altra, con un programma in campo economico e delle politiche sociali di stampo neoliberista, inaccettabile per larga parte dei francesi piegati dalla crisi economica e sociale; ha perso il consenso dell’elettorato. Per questo motivo, vinto di misura il confronto con Merine Le Pen per la presidenza non ha attenuto la maggioranza all’Assemblea nazionale: dovrà scegliere come e con chi allearsi.

Il primo turno delle elezioni per l’Assemblea nazionale

Ma come è potuto succedere a così poca distanza dal voto per le presidenziali? Il fatto è che nei sistemi democratici i risultati delle elezioni dipendono dai sistemi elettorali che si utilizzano e ciò dovrebbe far riflettere molto i sostenitori dei regimi liberali. Ma tanto è! Il sistema elettorale francese per le elezioni parlamentari prevede collegi uninominali dove i singoli deputati vengono eletti sulla base di due turni. L’alta soglia di sbarramento per essere eletti al primo turno (50% dei voti, ma solo se l’affluenza ha superato il 25% degli aventi diritto) comporta nei fatti che quasi tutti i collegi debbano passare per il ballottaggio. Le urne del secondo turno che si sono chiuse domenica 12 giugno, hanno
permesso solo 5 deputati eletti direttamente al primo turno su 577 e senza ricorrere al ballottaggio. Benché le percentuali di voti ottenuti a livello nazionale dai diversi raggruppamenti non incidano sui risultati definitivi, senza dubbio hanno un importante significato politico e il valore di una indicazione di tendenza. L’andamento del voto Presidenziale ha fatto perciò ipotizzare che il Presidente avrebbe avuto la maggioranza in Parlamento.
È dunque essenziale costruire le alleanze necessarie per conquistare la maggioranza, collegio per collegio e fare degli apparentamenti: per saperlo e poterlo fare diventa di estrema importanza tenere conto sia del numero delle astensioni, che nel primo turno è stato il più alto di sempre, e del fatto il Rassemblement National della Le Pen, l’altro candidato alla presidenza che aveva raccolto appena il 18 % al primo turno, tanto che alla vigilia del secondo turno venivano accreditati a questa formazione politica non più di 30 seggi.
Per avere la maggioranza all’Assemblea Nazionale occorrono un minimo di 289 seggi. Alla vigilia del voto si riteneva che la “Nouvelle Union populaire écologique et sociale” (Nupes), aggregazione delle forze di sinistra potesse conquistare tra i 150 e i 190 seggi, ottenendo i voti dei macronisti laddove andava al confronto col Rassemblement
National e restituendo il favore a Ensamble dove questa si contrapponeva alla formazione di destra. Tuttavia, questo scambio di favori andava fatto in modo attento e ponderato per non rischiare di spingere i risultati effettivi verso la parte alta della forbice di Mélénchon.
I riteneva inoltre alla luce dei sondaggi che il partito di Macron potesse perdere tra i 50 e i 100 seggi rispetto di oggi: una débacle che rischiava di non venire compensata dai Repubblicani, il partito moderato più in linea con le posizioni di Macron che aveva subito un vistoso crollo. A quel punto, per avere una maggioranza stabile il Presidente
avrebbe dovuto scendere a patti o con Nupes o con Le Pen, preferendo senza dubbio Nupes; questa era la speranza dichiarata da Mélénchon.

Una maggioranza per il governo

Invece, rispetto ai 577 parlamentari da eleggere, i risultati del secondo turno non danno la maggioranza a Ensamble che elegge solo 245; Nupes elegge 133 deputati, deludendo aspettative più ottimistiche, scontando forse il fatto di essere un’aggregazione troppo recente per costituire un punto certo di riferimento e conquistare consensi tra gli astenuti. Da parte sua il Rassemblement National elegge, per la prima volta, 89 deputati e inaspettatamente i rinati (rispetto alle presidenziali) gaullisti, eleggono 74 parlamentari. La Gauche 20 eletti appartenenti a formazioni politiche diverse e 10 regionalisti. Sono stati inoltre eletti 5 di centro e 1 di estrema destra. Gli astenuti sono stati ben il 53,77 %. La maggioranza assoluta necessaria per governare con stabilità il paese è di 289 deputati e di questa Macron non dispone. Non ha funzionato l’entente cordial di fatto proposta da Mélénchon: in occasione delle presidenziali Mélénchon aveva fatto votare per Macron e si attendeva che dovendo scegliere se appoggiare membri del Front National o di Nupes nei collegi contendibili i macroniani avrebbero invitato a votare per i secondi; così non è stato, per il timore di aiutare troppo l’altro. A beneficiarne è stata la Le Pen che può godere del numero di deputati più alto di sempre.
In quanto alle prime reazioni dei gaullisti, gli altri alleati possibili, questi si sono di rifiuti all’alleanza con il presidente.
Non bisogna dimenticare che questo è l’ultimo mandato per Macron e loro vogliono prepararsi a succedergli. Per farlo hanno bisogno di ricostruirsi un’identità e l’opposizione offre lo spazio ideale per farlo. I voti conseguiti dal Front National sono moltissimi, ma anche per questo motivo inaccettabili, perché condizionanti e poi un’alleanza organica con loro da parte del presidente farebbe cadere la preclusione contro la destra. Inoltre, tra Rassemblement National e Ensamble le posizioni sono troppo lontane sia sulla politica estera che su quella interna. Un’Alleanza con Mélénchon costerebbe al Presidente a fare molte concessioni sul programma di governo: impossibile! L’opposizione congiunta di destra e sinistra ad esempio sul tema pensioni ma anche sul salario sarà irriducibile.
Si apre così una fase di estrema incertezza e di trattative e di consultazioni. Molti consiglieri del Presidente in questa situazione suggeriscono lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni che potrebbe avvenire, nel rispetto della Costituzione solo tra un anno: nel frattempo una continua, instancabile, difficile, defatigante, contrattazione, provvedimento per provvedimento.
Del resto, non sarebbe la prima volta che un paese a democrazia liberale rimane senza governo di maggioranza e viene guidato da un governo di minoranza come è accaduto al Belgio per anni. Ma la Francia è uno dei paesi più importanti d’Europa ed il paese è impegnato in una guerra non dichiarata ma combattuta, mentre la crisi politica in
Europa cresce più che mai.

La crisi di governo e la guerra

Anche se non c’è molto tempo una riflessione attenta si impone. Il paese è in guerra e anche in Francia l’epidemia non è finita. Anche se l’inflazione è al 5% (la più bassa rispetto agli altri grandi paesi d’Europa, la crisi sociale incombe e viene da lontano. C’è il malessere delle campagne del quale sono espressione non solo il movimento dei gilet gialli ma anche il voto di protesta che si è distribuito tra Rassemblement National e Nupes. Ignorarlo e pretendere di imporre politiche e soluzioni neoliberiste significa rendere ingovernabile il paese, tanto più se si pensa alla durezza dello scontro sociale in Francia dove si è abituati a scioperi di più giorni consecutivi, periodici o anche di una settimana.
Soprattutto se gli sforzi di porre fine alla guerra non avranno successi il Governo è destinato ad essere travolto dalla mobilitazione sociale, tanto più se non dispone di una maggioranza parlamentare. L’opposizione di sinistra e di destra aspettano Macron in piazza e sono pronte a imporre le loro ragioni anche attraverso la mobilitazione sociale, tanto più che la mobilitazione francese potrebbe accompagnarsi a quella dell’Italia dove la situazione è ancora più preoccupante anche se ancora non sembra essercene la percezione.
Si incrinerebbe così irreversibilmente il fronte dell’Unione che ancora tanto  baldanzosamente si straccia le vesti per l’Ucraina e corre senza freni verso la crescita dell’inflazione, la crisi alimentare e quella economica, prigioniera della politica estera fatta da un’alleanza sedicente difensiva, che ha agito nella sua storia come agente di repressione del dissenso e delle lotte sociali all’interno (creando una Gladio per ogni paese) e come soggetto aggressore all’esterno del suo perimetro teorico di azione (vedi Afganistan) e sottomessa al disegno dissolutore messo in atto con la Brexit dalla
Gran Bretagna.
Paradossalmente la base di una possibile alleanza e convergenza almeno a livello parlamentare c’è ed è costituita dal comune interesse di Macron, Mélénchon e Le Pen a contrastare i disegni e le politiche antieuropee degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Proprio la politica estera potrebbe essere il terreno d’incontro di interessi tanto diversi.
Sostenere Macron, peraltro non più rieleggibile, nei suoi sforzi per intavolare trattative con la Russia, incontrerebbe l’appoggio della Le Pen, viste le sue posizioni in politica estera, ma anche per una larga parte del suo elettorato e anche quella di Mélénchon, preoccupato dall’aumento esponenziale del costo della vita, dai mancati interventi
di carattere sociale, dall’impoverimento dei ceti più deboli, dalle conseguenze della guerra sulle relazioni sociali.
Sta diventando convinzione comune e condivisa delle opinioni pubbliche dei paesi europei che il rischio di una guerra nucleare o anche di una guerra endemica in Europa che costringe ad ospitare da 6 a 7 milioni di profughi non è accettabile, e non solo per i costi, ma per il clima di incertezza e di disagio sociale che genera. perché allontana
l’attenzione dai rilevanti problemi dell’esistere di ogni giorno, dalla migrazione da altri paesi, dal crescere delle disuguaglianze, dalla povertà e dall”indigenza, dal progressivo deteriorarsi dei rapporti sociali.
Soprattutto i problemi economici e le crisi produttive determinate dalla restrizione dei mercati e dal costo in crescita esponenziale dell’energia e delle materie prime produce uno stato di incertezza del quale si imputa la responsabilità ai governi, individuando le ragioni profonde della guerra in uno scontro tra potentati economici per il maggior profitto.
Così quella rabbia sociale che anche in Francia ha trovato un potente catalizzatore in movimenti di piazza antistituzionali rischia di crescere, anzi di dilagare, dimostrando l’incapacità della politica, di tutte le forze politiche nell’affrontare e risolvere i problemi della convenienza quotidiana.
Ecco quindi emergere le ragioni profonde della ricerca di un terreno comune di accordo, di un patto nazionale del quale il Presidente potrebbe essere il garante. Nelle sue mani stano le decisioni relative al che fare, compresa quella di imparare l’arte della mediazione, dell’uso della pazienza, del compromesso, tanto faticosa e difficile da esercitare alla quale i francesi e i suoi uomini politici sono poco abituati.
Lasciare ancora una volta che sia la tecno-burocrazia a gestire la crisi, semplicemente affidarsi alle élite respingendo il confronto sul piano politico e sociale potrebbe far implodere il sistema e mettere in discussione le basi stesse dell’architettura della V Repubblica, trasformando la crisi politica in crisi istituzionale e di sistema.
È la Francia ad essere messa alla prova.

La Redazione