Orgoglio e pregiudizio

Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie
Samuel Johnson, 7 aprile 1775

Risuonano giornalmente parole che mi risultano inquietanti: nazione, patria, integrità territoriale, confini, etc. Dietro questa orgia di proclami identitari si nasconde la motivazione individuale, che comporta come danno nemmeno troppo collaterale una grande quantità di morti. Ma le motivazioni reali delle guerre stanno sempre altrove.

Origine ed evoluzione delle parole

“Nazione” e “patria” hanno una origine etimologica nobile: sono il luogo dove si è nati o dove sono nati in nostri padri [1]. Nulla di più locale di queste parole nel loro significato primigenio. Nel tempo però esse hanno via via esteso il loro significato, non nel senso delle loro connotazioni, ma nel senso geografico; esse sono venute via via comprendendo porzioni crescenti di territorio finendo per coincidere con insiemi vasti di popolazioni che condividono lingua, tradizioni, costumi e abitudini alimentari, o che credono di condividerli. Talvolta poi le vicissitudini storiche hanno assemblato, più o
meno volontariamente, stirpi diverse e sono venute ad identificarsi con gli Stati; cioè da un contesto consuetudinario si è passati in un contesto istituzionale. Resta il problema che Stati ed istituzioni hanno un’evoluzione storica e non restano eguali nel tempo. Anche le comunità locali mutano nel tempo, si evolvono per contatti con l’esterno; non sono monadi che non comunicano tra di loro ed hanno anche la capacità di assorbire apporti esterni, non per integrarli nel senso di adeguarli a sé, ma nel senso di innestare nel proprio tessuto quanto di buono viene da altri stili di vita nel rispetto di tutte le sensibilità. Non è un caso che le civiltà si siano sviluppate in aree dove gli scambi di esperienze, i commerci, le relazioni tra popoli diversi, le contaminazioni culturali e di stili di vita erano più facili. Tutto ciò, però avviene lentamente, senza sbalzi, per osmosi e gradualmente, mentre modifiche degli Stati e delle istituzioni avvengono molto
spesso per rotture repentine e frequentemente traumatiche.

Dove finisce l’identità “nazionale”

L’identificazione tra Stato e “nazione” (località di nascita) genera molte confusioni, tra cui il nazionalismo è la più devastante. Se nazione e Stato coincidono, la nazione ha dei confini ed un territorio in essi compreso, più o meno vasto.
Ne discende che se la comunità locale possiede una sua identità variabile nel tempo grazie agli apporti esterni, lo Stato ha dei confini invalicabili che garantiscono, o si suppone siano in grado di garantire, l’impossibilità della contaminazione da parte di chi non è esplicitamente accettato. La prima è un’entità aperta perché sicura della propria tradizione e dei propri valori, il secondo diviene un simulacro di un’identità fittizia, che non rassicura nessuno in quanto accoglie al suo interno molteplici autentiche identità locali, spesso molto differenti. Questo simulacro identitario deve essere difeso ai suoi
confini e quindi si sviluppa un sentimento “nazionalistico” [2]; le conseguenze sono terribili. I diversi sono un pericolo e quindi occorre difendersi dal loro arrivo perché minano la presunta compattezza del “popolo” [3]. La difesa dei confini comporta un braccio armato dello Stato e quindi eserciti. Gli altri “popoli” possiedono a loro volta eserciti e quindi sono minacciosi. Le differenze di status sociale che sezionano i singoli Stati non creano simpatie tra gli appartenenti alla medesima stratificazione, anche se gli scontri tra i ceti dominanti dei due Stati contendenti danneggiano gli appartenenti ai ceti subalterni di entrambe le compagini nazionali; i primi spesso si accordano i secondi pagano un duro prezzo del dissidio sopravvenuto. Infine, il patriottismo, che non è il naturale orgoglio delle proprie tradizioni, ma la presunzione che vi sia un interesse comune a tutti gli abitanti all’interno dei confini della “patria”, in contrasto a tutti gli abitanti di altre nazioni. Resta da chiarire quali siano i confini della patria, come si siano storicamente determinati ed evoluti e quindi dove la nazione, in quanto Stato, abbia un termine geografico naturale e giustificabile.

Aleatorietà dei confini

Storicamente i confini di uno Stato sono spesso mutati. Anche Stati di tradizione più che millenaria, come la Francia hanno visto cambiare i propri confini nel corso degli ultimi due secoli (Alsazia, Lorena, Savoia, Nice, etc). I confini della ex-Jugoslavia, nata appena un secolo fa (1918), ha conosciuto a cavallo del millennio una disgregazione, che non pochi e devastanti conflitti ha generato. Tutto ciò avviene a volte a causa di eventi bellici, tal altra la separazione è meno traumatica e consensuale, come nel caso tra la Repubblica Ceca e la Slovacchia. È comunque un errore ritenere che un confine sia per sempre, soprattutto laddove, come nei Balcani si incrociano diverse lingue, etnie, religioni.
L’integrità territoriale è un mito nazionalistico, in particolare nei paesi dove convivono tradizioni diverse. La Scozia sta tornando a chiedere la propria indipendenza dal Regno Unito, di cui fa parte del 1707 e questo fatto provoca contrasti e divisioni di opinione, ma non genera conflitti [4]. Per evitare separazioni indesiderate un organismo statale
attiva forme di larga autonomizzazione delle popolazioni minoritarie afferenti ad una sua porzione di territorio; così la Spagna con i Paesi baschi, l’Italia con gli alto atesini e i francofoni della Valle D’Aosta, e così si sta lentamente incamminando la Francia, tradizionalmente molto centralista, con il popolo bretone mentre persiste lo storico problema costituito dall’indipendentismo corso. A volte queste aperture di spiccata autonomia non bastano, come nel caso della Catalogna, altre volte sì. Sta di fatto che nei paesi a consolidata tradizione democratica i separatimi si discutono, non si
reprimono militarmente.

I confini post-sovietici

In una recente intervista comparsa sulla rivista “Matrioska” la Confederation of Revolutionary Anarcho-Syndicalists (CRAS-IWA or KRAS-MAT), sezione russa dell’AIT (Associazione Internazionale dei Lavoratori) afferma: “Contrariamente al mito popolare, l’Unione Sovietica crollò non a seguito di movimenti di liberazione popolare, ma a
seguito delle azioni di una parte della nomenklatura dominante, che si divisero tra loro territori e zone di influenza, quando i metodi usuali e consolidati di il suo dominio entrarono in crisi. Da quella divisione iniziale, che allora era basata sugli equilibri di potere, si è sviluppata una lotta continua per la redistribuzione di territori e risorse, portando a guerre continue in tutta l’area post-sovietica. [5]” Se i compagni russi (ovviamente assai distanti dalla retorica putiniana) hanno ragione tutti i confini generatisi in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica sono linee tracciate sul territorio per definire e preservare gli assetti di potere che il tramonto dell’impero sovietico aveva visto sorgere e consolidarsi.
Qualcosa di simile è avvenuto alla fine del XX secolo nei Balcani, allorquando la pace titina, che aveva unito per oltre cinque decenni una miriade di popolazioni spesso in contrasto fra di loro, veniva sepolta dall’affacciarsi degli interessi capitalistici nell’area: la Germania in espansione economica si annetteva commercialmente la Slovenia, poi i paesi cattolici sponsorizzavano la secessione della Croazia [6]e da lì il filo di perle si disperdeva. Pensare che i confini storicamente designati in situazioni politiche e sociali differenti, abbiano un valore di stabilità e di immutabilità è ragionare con gli occhi volti al passato, una visione “di comodo” fatta propria dalla conferenza di Yalta prima e da quella di Helsinki poi per costruire un equilibrio di potere nell’area basata sull’intangibilità dello statu quo. Sia detto per inciso, questo principio è stato violato in Europa per la prima volta dall’intervento NATO nei Balcani [7].

L’Ucraina come nazione

A quanto sopra esposto non sfugge l’Ucraina, che anzi ha visto i propri confini più volte rimaneggiati nel corso di un secolo. Per parlare solo degli ultimi ottanta anni dopo la Seconda guerra mondiale, la Galizia tradizionalmente legata prima all’impero asburgico e poi alla Polonia, venne divisa e la parte orientale annessa alla Repubblica Federativa
Sovietica di Ucraina[8]; la popolazione era ed è per lo più composta da ruteni per circa il 62% e polacchi il 25%. Nel 1954 Chruščëv cedette all’Ucraina la Crimea, la cui popolazione è per il 72% russa. Non a caso l’Ucraina deriva il suo nome dal toponimo slavo di “presso il margine”, e quindi è storicamente un coacervo di popoli e religioni: i polacchi, cattolici, iruteni grecocattolici uniati, i russi e gli ucraini ortodossi, gli ebrei, i tatari di origine turca musulmani, etc. Il nazionalismo ucraino ha avuto le sue basi appunto nell’area occidentale del paese [9] e forti connotati di destra; il Partito Nazionalista Ucraino, fondato nel 1929, dichiaratamente filofascista [10] e antirusso, nel periodo dell’occupazione nazista (1941-1944) nella sua maggioranza si rese responsabile dei massacri degli ebrei. È curioso che una simile accozzaglia, storicamente indefinita, parli di integrità territoriale, di sacri confini della patria, di eventuali “mutilazioni” del proprio territorio e che a questi feticci sacrifichi eroicamente la vita [11]. Poco credibile è d’altra parte che la resistenza ostinata opposta
all’invasione russa derivi dal ricordo, ormai remoto (trenta anni sono passati dalla dissoluzione dell’impero sovietico) della dittatura dei Soviet, ricordo appannaggio degli ultracinquantenni e non certo delle generazioni oggi in battaglia. In fin dei conti il tenore di vita in Russia è certamente più alto di quello ucraino, tant’è che negli anni scorsi vi è stato un flusso migratorio verso est; e per ciò che concerne le libertà democratiche in Ucraina non ve ne sono certo di più che in Russia, visto che i partiti di opposizione e gli organi di stampa loro connessi vengono censurati e gli oligarchi dissidenti arrestati e ciò già prima dell’invasione.

La vera cultura dell’autonomia dei popoli

Sembra un principio sacrosanto ed indiscutibile: l’autodeterminazione dei popoli. C’è un “però”! Cos’è un popolo? Qual è il limite entro cui e fino a cui è legittima l’autodeterminazione? Se per popolo si intende i cittadini di uno Stato la questione appare semplice. Ma più uno Stato è vasto, più in esso sono presenti minoranze localizzate, meno appare chiaro dove inizi e dove finisca il diritto all’autodeterminazione. La globalizzazione ha minato la compattezza delle compagini
nazionali e sempre più frequentemente emergono tendenze centrifughe nella rincorsa ad una identità che vacilla (Catalogna, Scozia, Xinjiang, Cecenia, Tigrè, Donbass, Kashmir, Slovacchia, Kurdistan, Macedonia del Nord, etc.). Per quale motivo è legittimo che una maggioranza politica o numerica imponga a minoranze che hanno sviluppato o
sviluppano interessi diversificati, una linea di conduzione economica che ad esse risulti estranea o venga avvertita come dannosa? [12] Il problema sorge e si pone laddove un territorio non sia etnicamente, religiosamente, linguisticamente omogeneo, laddove le strutture produttive abbiano vocazioni e riferimenti differenziati. L’appellarsi alla
autodeterminazione dei popoli si infrange proprio su quella che sembra la parola magica: “popolo”. È inutile parlare di autodeterminazione se prima non si definisce quale sia il popolo cui ci si riferisce e quale sia il comune denominatore che ne legittima la pretesa coesione. Ancora una volta se i limiti geografici che ci si pone sono i confini di uno Stato le scelte, anche assunte a maggioranza, rischiano di ledere i diritti di una minoranza, pur consistente, che rivendica una propria autonomia. Solo un organismo federale può pensare di far convergere in un unico sistema identità ed interessi divergenti.

La comunità come “nazione” e “patria”

L’impossibilità di definire con puntualità l’estensione geografica che legittimi il concetto di autodeterminazione rende inagibile il suo utilizzo con la leggerezza con cui viene invocato. Vi è una sola via d’uscita: ritornare all’etimologia delle parole magiche di “nazione” e di “patria”. Ovverosia esse possono avere solo un significato locale e non coincidere quindi con il concetto di “Stato”, ma limitarsi a quello di comunità, laddove gli individui si riconoscono per tradizioni, lingua, costumi, interessi; laddove gli individui che ne fanno parte sono uniti da un forte sentimento di solidarietà che li porta a condividere la propria vita con gli altri appartenenti ad essa, anche se questi provengano da altrove, ma si inseriscono senza forzature nella vita collettiva senza necessariamente assumerne lingua, costumi, usanze e religione, nel reciproco rispetto [13]. Il solo modo per coniugare internazionalismo e preservazione delle culture locali; il solo modo per
garantire convivenza e solidarietà.

Dal basso verso l’alto contro qualsiasi dirigismo

Ogni forma di governo centrale prevede deleghe, votazioni, maggioranze e soprattutto l’emergere di uomini politici più o meno di professione. Le leggi calano sui cittadini che vi si devono attenere, ma la loro partecipazione alla cosa pubblica non è mai diretta; viene esercitata una tantum deponendo saltuariamente una scheda in un’urna. L’istituto
referendario addolcisce il potere centrale, ma esso vale solo per quesiti schematici e circoscritti, tecnicamente poco complicati. La deriva autoritaria, spinta dall’accelerazione delle congiunture politiche ed economiche, scioglie i controlli previsti dallo Stato borghese rendendo sempre meno affidabile la “democrazia”.[14] Non è, quindi, possibile invocare l’autodeterminazione dei popoli quando a decidere sono i vertici dello Stato, sia esso democratico od autoritario. L’unico modo per rigenerare una reale partecipazione collettiva alle decisioni è costruire una società dove le delibere passino attraverso dei percorsi in cui tutti possano dire la loro opinione, dove quindi le scelte siano frutto di un approfondimento che coinvolga la massa dei cittadini e tengano conto di tutte le posizioni emerse. Per evitare forme di dirigismo più o meno prevaricante delle minoranze (talvolta anche della maggioranza), occorre salire dal basso verso l’alto per creare una sintesi accettabile da tutti o quasi.

L’anarchia come mezzo di risoluzione dei confitti

Ovviamente quella sopra descritta è la democrazia diretta[15], che solo può vivere in ambiti ristretti, in quella comunità appunto che ha un’identità, ma non dei confini; che coltiva la propria unicità, ma è aperta agli apporti esterni; che è gelosa delle proprie tradizioni, ma si federa solidalmente con le altre comunità. Non ci può essere conflitto se si accetta di collaborare con gli altri nel reciproco rispetto, se ci si sente parte di un’unica umanità che si soccorre a vicenda quando qualcuno è in difficoltà, se si pensa che il bene collettivo è il solo che possa rendere permanente e solido il nostro benessere individuale. Sono i confini degli Stati, le linee di demarcazione che tagliano arbitrariamente gli agglomerati umani, che creano le contrapposizioni, le volontà di potenza, i desideri di sopraffazione. Se qualcuno pensa che ciò sia solo una favolistica utopia, rifletta sulla miriade di conflitti che ad oggi interessano il nostro mondo, sullo spreco di risorse che le guerre provocano, sulla depredazione ambientale, sulla crescita di inaccettabili diseguaglianze all’interno degli Stati e tra le varie parti del globo. Se questa è un’utopia allora occorre rassegnarsi al peggio, un peggio che il futuro ci riserva, ma di cui sconosciamo la portata. In altri termini: “anarchia o barbarie”.

Saverio Craparo

[1] È appena il caso di osservare che le madri non contano, anche se alcune società antiche conoscevano un vero e proprio matriarcato; non solo le mitiche amazzoni collocate nella regione sarmatica (le steppe lungo il Volga, le regioni pedemontane degli Urali meridionali e la steppa del Kazakistanoccidentale), ma anche le antiche popolazioni latine. Cfr. JAMES GEORGE FRAZER, Il ramo d’oro, Newton Compton, Mammut 6, Roma 1992, pp. 186-190.
[2] Il nazionalismo, già di per sé pernicioso, genera spesso una variante ancora più deleteria: il “sovranismo”.
[3] Il popolo è un concetto indefinito in quanto non se ne possono conoscere i limiti, che finiscono per coincidere con l’estensione dello Stato, anche se al suo interno vi sono differenze di cultura, di lingua, di religione, di benessere.

[4] Profondi conflitti ha prodotto in passato e potrebbe generare in futuro  l’indipendentismo Nord Irlandese perché accentuerebbe il processo di disgregazione di un’entità statale sempre più anacronistica come quella del Regno Unito.
[5] https://www.matrioska.info/tag/anarchia/.
[6] Non a caso il primo stato a riconoscere la Croazia e stato lo Stato Città del Vaticano.
[7] Nella Jugoslavia di Tito il Kosovo aveva dei confini fittizi, non corrispondenti alle aree linguistiche, religiose e culturali realmente esistenti, e ciò era irrilevante all’interno di un’unica entità statale. Il confine naturale era ubicato al nord sul fiume Ibar, tant’è che la città di Kosovska Mitrovica è abitata al sud del fiume da una popolazione di origine albanese e musulmana ed al nord da una popolazione quasi esclusivamente serba ed ortodossa; il fiume Iban e attraversato da un ponte che collega le due parti, che fu al tempo della guerra teatro di duri scontri. Ebbene il Kosovo pretende, in base ai confini amministrativi ereditati dall’unità della Jugoslavia, di mantenere il proprio confine una quarantina di chilometri a nord della città, inglobando una popolazione serba riluttante, inclusi monasteri appartenenti alla Chiesa Serba Ortodossa come quello di Visoki Dečani, e ciò genera tutt’ora scontri e violenze.
[8] Territori peraltro rivendicati sommessamente dall’Ungheria, visto che vi si parla quella lingua.
[9] https://www.limesonline.com/storia-del-nazionalismo-in-ucraina/56952.                 [10] “L’ideologia dell’OUN Pravyi sektor (Organization of Ukrainian Nationalists) presentava forti similitudini con il facismo italiano; i suoi membri sostenevano programmi di allevamento selettivo per la creazione di una razza ucraina “pura”.L’organizzazione cercò di infiltrare i partiti politici legali, le università e altre strutture e istituzioni politiche. La strategia dell’OUN per raggiungere l’indipendenza ucraina includeva la violenza e il terrorismo contro i nemici interni e stranieri percepiti, in particolare la Polonia, la Cecoslovacchiae l’Unione Sovietica, che controllavano il territorio abitato da Ucraini etnici.” https://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_dei_Nazionalisti_Ucraini.
[11] L’artificiosità di tale pretesa è del resto testimoniata dal fatto che lo Stato ucraino ha avuto bisogno di una legge per imporre la lingua ucraina in tutto il territorio dello Stato vietando le altre.
[12] Diversi sono i casi in cui, in presenza di una larga autonomia, e di assenza di divergenze strategiche, una parte di popolazione cerca di distaccarsi dal resto per puro egoismo volto a mantenere o ad accrescere i propri privilegi, minando i principi della solidarietà (Padania, Catalogna, ecc.). La Scozia ha già avuto il diritto di scegliere tramite referendum se restare nel Regno Unito o distaccarsene: in quella occasione prevalse la tesi della permanenza; ma poi un altro referendum ha portato lo stesso Regno Unito a fuoriuscire dall’Unione Europea e in Scozia dove il remain aveva
ottenuto una larga maggioranza, la divergenza di linea politica ed economica con il Governo di Londra si è allargata fino alla divaricazione degli interessi, per cui risale la richiesta di un nuovo voto per la secessione.
[13] “La casa è di chi l’abita
e un vile è chi lo ignora,
il tempo è dei filosofi
il tempo è dei filosofi.
La casa è di chi l’abita
e un vile è chi lo ignora,
il tempo è dei filosofi,
la terra di chi la lavora.”
http://www.nelvento.net/autonome/dimmi-bel-giovane.htm                                           [14] Cfr.: SAVERIO CRAPARO, C’era una volta se mai c’è stato, in Crescita Politica, newsletter dell’Unione dei Comunisti Anarchici, n° 158, aprile 2022, http://www.ucadi.org/2022/04/26/cera-una-volta-se-mai-ce-stato/; GIOVANNI CIMBALO, La torsione costituzionale dello Stato liberale, in Crescita Politica, newsletter dell’Unione dei Comunisti Anarchici, n° 152, novembre 2021, http://www.ucadi.org/2021/11/14/la-torsionecostituzionale-dello-stato-liberale/.
[15] Nulla a che spartire con la caricatura di essa, fatta sulla base del premere un tasto in una tastiera di computer per esprimere un voto dicotomico su quesiti preparati da un vertice politico; la vera democrazia diretta è possibile solo guardandosi negli occhi, discutendo anche animatamente, sviscerando il problema sotto esame da tutte le angolazioni possibili: una discussione nel corso della quale le idee di ognuno si evolvono e mutano nel confronto con quelle degli altri.