Regina per un giorno

Mentre il Parlamento ascolta il discorso del non più giovane Carlo, il Regno Unito è sempre più disunito.
La corona posata su uno sgabello (Elisabetta non è fisicamente in grado di indossarla, Carlo non può) rappresenta plasticamente lo stato della crisi. Il discorso della Corona è stato letto quest’anno dal delegato Carlo che ha finalmente fatto finta di fare il Re, ma lo scapigliato Johnson consegna all’aspirante Re un regno che tende allo sfascio: è quanto si evince dal discorso stilato dal premier che annuncia per il prossimo hanno un’inflazione al 10% e uno stato dell’economia sempre più disastroso; ne segnali positivi vengono dal mercato azionario. La piazza di Londra, complice anche la guerra,
perde sempre più slancio, la pandemia non è finita ed ha lasciato un servizio sanitario e un’economia allo sfascio in una situazione in cui le risorse sono assorbite dallo sforzo bellico e dai sogni di ripristino di una politica imperiale di fatto improponibile. (per maggiori dati sulla situazione economica si veda in questo numero l’Osservatorio economico).
Il paese, scegliendo la Brexit, ha optato per una guerra da corsari nei confronti del continente europeo. Complice la NATO, ha creato la Joint Expeditionary Force (JEF), portando nell’organizzazione anzitempo Svezia e Finlandia, che vengono presentate ancora come esterne all’Alleanza, ma ne fanno parte di fatto a decorrere dal 2012 almeno. Questi paesi hanno addestrato, di concerto con gli USA e gli inglesi, gli ucraini, trasformandoli nei loro gurkha che conducono una guerra per procura contro la Russia. E ancora, per dividere politicamente l’Europa, i britannici istigano gli Stati europei dell’Est – dei quali, a suo tempo, hanno patrocinato l’ingresso nell’Unione per minarne l’omogeneità politica e l’aequis comunitario – ad una guerra senza quartiere contro la Russia. E ancora, insieme agli USA, fa di tutto per innalzare tramite la guerra, il costo dell’energia per i paesi U. E., in modo da renderne meno competitive le merci e
spezzare il progetto macroniano di un’Europa dalla Spagna agli Urali.

Un gigante dai piedi d’argilla

Ma dalle urne giungono segnali confortanti che ci dicono che finalmente il regno degli anglo sassoni si va sfaldando. Giovedì 5 maggio si sono tenute le elezioni nell’Irlanda del Nord per rinnovare i 90 seggi del Parlamento nordirlandese, a quale lo statuto del Regno Unito garantisce una certa autonomia dal Parlamento britannico. Ha votato il
63,6 per cento degli elettori, una percentuale leggermente inferiore a quella delle elezioni del 2017; i risultati definitivi sono stati resi noti tra sabato e domenica successivi: il Sinn Féin ha ottenuto 27 seggi, il DUP – il principale partito unionista, che aveva dominato la politica nordirlandese degli ultimi decenni – ne ha ottenuti 25 ed è stato il secondo più votato. Michelle O’Neill, vicepresidente di Sinn Féin potrebbe diventare la nuova prima ministra nordirlandese.
Per leggere il risultato e capirne le conseguenze bisogna tenere conto che in Irlanda del Nord vige un sistema obbligatorio di condivisione del potere creato dall’”Accordo di pace del Venerdì Santo” del 1998, che ha messo fine a decenni di conflitto tra cattolici e protestanti, il quale stabilisce che i ruoli di primo ministro e vice primo ministro sono
suddivisi tra il maggiore partito unionista e il maggiore partito nazionalista. Perché il governo si formi, occorre che vi sia un accordo obbligato poiché entrambi i ruoli devono essere occupati; tuttavia, il Partito Democratico Unionista (DUP) – alleato dei Conservatori di Johnson – ha annunciato che potrebbe non presentare un vice primo ministro, sottoposto a un primo ministro dello Sinn Féin. Siamo di fronte ad un evento storico: dal 1921, cioè da quando esiste l’Irlanda del Nord, il primo ministro è sempre stato unionista e dal 2007 è espresso dal DUP.
Bisogna tener conto del fatto che in Irlanda del Nord si vota col col sistema detto del “singolo voto trasferibile” il quale prevede che i votanti mettano in una lista di preferenza diversi candidati e che, attraverso successivi riconteggi, consentono che certi voti possano essere assegnati a candidati segnati sulla scheda al secondo posto o anche oltre. Questo complesso sistema è utilizzato per bilanciare i voti tra i diversi partiti.
Nella campagna elettorale, il Sinn Féin ha puntato tutto sulle cosiddette questioni bread-and-butter (“pane e burro”), cioè vicine ai problemi di vita quotidiana delle persone: sanità, disoccupazione, aumento del costo della vita, questione abitativa lasciando in ombra, almeno per ora, il referendum per la riunificazione dell’Irlanda, suo tradizionale cavallo di battaglia. A questa scelta ha contribuito il fatto che il partito è molto cambiato dal punto di vista generazionale, dato che ora è composto soprattutto da persone cresciute dopo gli anni dei Troubles, una generazione che non ha
partecipato alle violenze e di fatto ha maturato la propria esperienza politica negli anni successivi agli accordi di pace piuttosto che nella guerra civile per l’indipendenza. Secondo alcuni sondaggi oggi la riunificazione è ritenuta prioritaria solo da una minoranza, stimata intorno al17 %, ma è un fatto che la vittoria degli indipendentisti va di pari passo con il progressivo rafforzamento del partito indipendentista scozzese.

Gli effetti perversi della Brexit

La vittoria del Sinn Féin è stata possibile grazie all’indebolimento del DUP, stretto alleato dei Conservatori britannici, che aveva sostenuto convintamente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Non è piaciuto all’elettorato unionista il fatto che il partito da essi votato ha indirettamente contribuito all’approvazione del “Protocollo sull’Irlanda del Nord“, ovvero il trattato sullo status del paese contenuto nel più ampio accordo fra Regno Unito e Unione Europea sulla Brexit. Il protocollo prevede che l’Irlanda del Nord resti sia nel mercato comune europeo che nell’unione doganale:
di fatto, ciò ha allontanato l’Irlanda del Nord dal resto del Regno Unito, finendo per creare le condizioni per una riunificazione con la Repubblica d’Irlanda. Per questo molti dei sostenitori del DUP si sono nel frattempo spostati verso altri partiti unionisti, delusi dalla scarsa lungimiranza dimostrata dall’alleanza con i Conservatori britannici.
Johnson e i Conservatori subiscono dunque in Irlanda del Nord gli effetti perversi della Brexit. Le regole post-Brexit negoziate faticosamente con l’U. E. hanno imposto controlli doganali e di frontiera su alcune merci che entrano in Irlanda del Nord dal resto del Regno Unito e viceversa. L’accordo è stato progettato per mantenere un confine aperto tra l’Irlanda del Nord e l’Irlanda, Stato membro dell’Unione europea, solo modo per mantenere in vita il processo di pace, ma che ha scontentato gli unionisti, che sostengono che i nuovi controlli hanno creato una barriera tra l’Irlanda del Nord e il
resto del Regno Unito, una barriera – non solo fisica – che mina di fatto gravemente identità britannica.
Saranno necessarie lunghe e complesse trattative per nominare i due primi ministri. Per la formazione di un nuovo esecutivo nordirlandese potrebbero occorrere mesi ed è anche possibile che già in inverno si torni a votare. Ciò avverrebbe nel caso in cui, come sembra al momento, il DUP – il secondo partito più votato – dovesse scegliere di non far parte di un governo insieme al Sinn Féin. In questo caso non è escluso che con il maturare delle condizioni anche in Scozia, dove cresce lo scontento per le politiche di Londra, la questione referendaria irlandese per l’Unificazione venga riproposta.

Il nodo istituzionale e quella sociale

A complicare la situazione concorre la questione istituzionale che rende sempre più difficili i rapporti tra Irlanda del Nord, Galles Scozia e Inghilterra. Bisogna ricordare che mediante due referendum nel 1997 è stato istituito sia il Parlamento scozzese (Holyrood) che ha il potere di riscuotere e gestire le imposte e un’assemblea gallese (Seneld) che questo potere non ha, dando luogo ad una asimmetria istituzionale, resa più difficile dal fatto che gli Scozzesi eletti a Westminster hanno diritto di parola sulle leggi che riguardano l’Inghilterra, ma non viceversa. Da qui il tentativo degli inglesi di disporre di un proprio Parlamento che ha avuto parziale attuazione consentendo ai parlamentari eletti in Inghilterra di esprimere un parere preventivo sulle leggi che li riguardano, abrogato tuttavia durante la Pandemia per velocizzare le scelte del Governo.
L’assetto sociale del paese poi, è complicato dalle profonde diseguaglianze che lo caratterizzano, con un Nord sempre più povero e una maggiore ricchezza a Londra che cosente redditi doppi rispetto al Nord e uno sviluppo sostenuto nel Sud con un conseguente maggior reddito percepito, tanto che l’aspettativa di vita nel Nord e di ben 10 anni in meno che a Londra e nel Sud.
Questa situazione ha fatto, crescere soprattutto in Inghilterra, movimenti di destra e soprattutto in opposizione alla presenza islamica che sovente si identifica con la parte più povera ed emarginate della popolazione. È per questo motivo che facendo leva sull’orgoglio britannico e sui valori anglofoni il governo conservatore ha fatto ricorso al più classico dei rimedi: rispolverato il mito dell’impero, ha impegnato sempre di più il paese in azioni di guerra, non solo intervenendo in Ucraina come sub agente USA, ma offrendosi come punto di riferimento politico-militare e securitario per i paesi del Nord Europa, come dimostra l’ingresso della Svezia e della Finlandia nella NATO, evento del resto preparato dall’adesione di due paesi al JEF che, come abbiamo ricordato, concepito nel 2012, fa parte del “pacchetto” di iniziative politiche connesse alla Brexit, del quale solo ora si vedono gli effetti e si scoprono le tante implicazioni a suo tempo
sottaciute agli elettori.
In risposta a questa strategia complessiva l’unica possibilità è il rafforzamento dell’asse Parigi-Berlino con il possibile coinvolgimento dell’Italia grazie al Trattato italo francese del Quirinale, recentemente firmato (si veda: G. Cimbalo, Un trattato controverso, Newsletter 153, dic. 2021) e possibilmente della Spagna, assumendo una forte
iniziativa per la pace in Ucraina e di decongestionamento del conflitto con la Russia.
Se ciò accadesse metterebbe in crisi la politica della Gran Bretagna, accentuando i segnali di crisi che i risultati elettorali dell’Irlanda del Nord ma anche dei collegi centrali di Londra segnalano: sarebbe certamente una grande vittoria per l’Europa che si libererebbe finalmente dal suo nemico storico che ha sempre ostacolato e continua ad ostacolare la sua unità e la sua stessa esistenza.

G.L.