Il mito dell’equilibrio economico

A pagina 23 de “Il Sole 24 ore” di venerdì 24 dicembre 2021, a. 157°, n° 353, è presente un interessante articolo di LEONARDO BECCHETTI dal titolo “L’equilibrio economico post pandemia va raggiunto con un nuovo modello economico” e sottotitolo “Dalla mano invisibile al voto con portafoglio”. Vi viene presentata una critica serrata ai modelli monetaristi che hanno dominato la scena delle teorie economiche nell’ultimo mezzo secolo; non è certo un caso se viene richiamata l’ipotesi della “mano invisibile” di ascendenza smithiana.

Il modello classico (e neoclassico)

L’articolo suddetto parte dal riassunto delle teorie dell’equilibrio economico come previsto dalla teoria classi da Smith e Ricardo fino ai marginalisti (Marshall, Jevons, ecc.): il mercato si autoregola nel momento in cui tutti gli attori che in esso operano si comportano da perfetti egoisti, ognuno perseguendo il massimo dei propri interessi; tanti atomi che non comunicano tra di loro, ma che nell’operare per il raggiungimento del proprio massimo benessere, automaticamente generano un equilibrio in grado di accontentare tutti al limite superiore della felicità di ognuno consentita dalle risorse sociali esistenti. La “somma di interessi “egoistici” (quelli dei consumatori dei produttori) si trasforma in benessere per la collettività attraverso il principio della concorrenza sul mercato (la mano invisibile)”. E ancora: “… basta seguire i propri istinti e non c’è bisogno di preoccuparsi di fare del bene perché ci penserà il mercato a rimettere tutto in ordine.
Se Hobbes aveva bisogno di uno Stato leviatano per evitare la guerra civile tra gli homo homini lupus, Smith è più ottimista e pensa che la mano invisibile basti.” Come detto, questo modello non ha solo un valore storico, perché dopo avere dominato la scena dell’economia politica fino ad un secolo fa (eccettuando ovviamente la corrente marxiana), è sopravvissuto carsicamente nel periodo keynesiano, per riemergere prepotentemente negli anni settanta del secolo scorso, nella sua visione estrema dovuta a Smith.
In verità il modello appena esposto era visto solo come il caso limite di riferimento, per poi modificarsi per approssimazioni successive alle società reali, in cui, per esempio, nascono monopoli ed oligopoli, cartelli e trust, multinazionali che operano per limitare appunto la libera concorrenza e dove alcuni beni sociali non sono perseguibili
dagli interessi del mercato (salute, istruzione, sicurezza, ecc.). “Per tutti questi motivi l’equilibrio spontaneo dei mercati non coincide più con l’ottimo socialmente desiderabile. Appare a questo punto un deus ex machina (il pianificatore benevolente che ha a cuore il benessere sociale e dispone di tutte le informazioni e il potere necessari per risolvere il problema) che attraverso tasse e regolamenti riporta il sistema verso l’ottimo socialmente desiderabile. ” Ovviamente questa visione modificata non vale per tutte le scuole neoliberiste imperversanti a tutt’oggi.

Le critiche giuste

Becchetti fa giustamente notare a questo punto che anche l’ultima visione edulcorata del liberismo odierno incontra difficoltà a rendere conto del mondo reale, ciò che giustifica la lunghezza della crisi in atto nei mercati mondiali, crisi occultata dalla pandemia, ma non risolta; aggiunge che per uscirne definitivamente occorre mutare paradigma di riferimento. Per passare a questo, l’articolista inanella le sue critiche al modello presentato. La prima considerazione riguarda il fatto che la storia non ha mai presentato il previsto stato di benessere generale che la teoria prevedeva. Le cause vanno ricercate nell’inesistenza del “pianificatore benevolo”, che anzi gli uomini preposti al governo dell’economia hanno sempre manifestato un attaccamento maggiore per il proprio interesse personale che per il benessere comune. Le emergenze che si stanno manifestando (crisi climatica, pandemia) sottolineano l’interconnessione tra tutti gli appartenenti all’umanità, il nostro essere una comunità in cui il comportamento di ognuno si riverbera sugli altri.

Cos’è il “voto con portafoglio”

Secondo l’autore l’emergere della consapevolezza comunitaria induce negli individui comportamenti virtuosi, che si allontanano da quelli dell’egoista isolato preso in considerazione dalla teoria classica e neoclassica, generando un nuovo modello economico. Eccone alcuni esempi. “… le persone sono caratterizzate, oltre che dal desiderio di massimizzare i propri risultati personale, da generosità e dono, reciprocità e avversione alla diseguaglianza”. “… molti produttori hanno un’ambizione superiore a quella di massimizzare il profitto che consiste nell’affiancarvi l’obiettivo di un impatto sociale e ambientale che può conquistare la gratitudine dei propri concittadini”. Sono le scelte consapevoli di questi consumatori e produttori socialmente responsabili che cambierebbero il volto del mercato verso un diverso equilibrio votando col portafoglio, ovverosia creando organismi di natura nuova e diversa, quali si manifestano “… nella
proliferazione di organizzazioni sociali e produttive che non hanno come obiettivo unico il massimo profitto (cooperative sociali, fondazioni di comunità, benefit corporation, banche etiche …”. Grazie al voto col portafoglio, anche l’economia degli appalti pubblici inizia a mutare e “… ad adottare regole che segnano il passaggio dal concetto di massimo ribasso a quello dei criteri minimi sociali e ambientali fino a introdurre il principio di generatività negli appalti.” I benefici dei nuovi parametri generebbero persino la capacità di “… proteggersi dalla minaccia delle delocalizzazioni e dal dumping sociale e ambientale di aziende che cercano luoghi di produzione dove i costi del lavoro, ambientali e fiscali sono maggiori (sic!) attraverso «meccanismi di aggiustamento delle frontiere»…”. L’articolo si conclude con questa frase ad effetto: “Non è il battito di ali di una farfalla, ma il voto col portafoglio la leva che oggi può cambiare e sta iniziando a cambiare il mondo”.

I limiti

Ora, si dà il caso che sia proprio il battito d’ali di una farfalla che può provocare conseguenze notevoli su scala molto più rilevante ed a distanze imprevedibili; ma ciò è possibile perché le cause agenti si susseguono secondo leggi statistiche ad elevata probabilità. I loro effetti non sono facilmente prevedibili a causa dell’enorme numero di variabili in gioco, ma l’automatismo delle leggi fisiche è ineludibile e la conoscenza ed il calcolo dell’evoluzione di tali variabili è teoricamente possibile disponendo di calcolatori sufficientemente potenti. Gli eventi citati nell’articolo in esame non possono viceversa dispiegare liberamente ed automaticamente i propri effetti sul mercato globale secondo una rigida consecuzione di fatti legati da leggi ineluttabili; e questo per il semplice fatto che forze amministrative, politiche e soprattutto economiche estremamente potenti ne ostacolano il libero sviluppo, limitandone ed annichilendone gli effetti potenziali. Non mi pare poi che tanti siano i consumatori responsabili e soprattutto i produttori sensibili, che essi si moltiplichino e costituiscano una massa critica in grado di pesare con il loro “voto col portafoglio” sugli andamenti geopolitici. Siamo cioè nella sfera delle ipotesi astratte e sul piano delle buone volontà che scarsa capacità hanno di modificare la crudezza del reale. In termini più espliciti non sono le eventuali isole felici che hanno la possibilità di mutare la struttura complessiva dell’assetto economico del mercato globale, ma è proprio la struttura della produzione e del mercato in regime capitalistico che ha il potere di neutralizzare ed inglobare i comportamenti devianti e “virtuosi”.

Le critiche che mancano: homo oeconomicus ed homo socialis

Altre e più profonde sono le tare della teoria classica (e neoclassica)! Non è l’altruismo e la bontà (che pure contano) il vero tarlo dell’homo oeconomicus. Anche un puro ragionamento egoistico non necessariamente spinge gli esseri umani all’isolamento. Fin dagli albori essi hanno sviluppato, come altri animali, lo spirito di branco, come arma
necessaria alla propria sopravvivenza in un ambiente ostile, tanto più pericoloso quanto più essi erano indifesi. Dalla loro vita in comunità hanno presto imparato che non solo essa rispondeva alla necessità della difesa, ma anche che permetteva di realizzare insieme obiettivi che il singolo non avrebbe mai potuto neppure pensare di raggiungere. L’umanità è progredita grazie, sì, a intuizioni geniali dei singoli, ma soprattutto per l’utilizzo collettivo di dette intuizione ed alla creazione di quell’humus culturale che ha reso possibile la formazione degli individui più dotati intellettualmente e che solo la vita comune è in grado di creare. Non la bontà e l’altruismo spingono la specie umana a vivere in comunità, ma proprio quell’egoismo che la spinge a cercare la sicurezza, le relazioni affettive con i propri simili, la possibilità di sfruttare la forza della collettività, la potenza di un substrato culturale che solo l’accumularsi delle esperienze permette di
ottenere. Viviamo in società perché ci conviene, anche se questo ci costringe ad accettare compromessi, a sottomettersi a regole, a limitare i nostri spazi; soli saremmo più “liberi”, ma meno felici e più fragili.

Le critiche che mancano: l’attrito dell’abitudine

Ma le carenze del modello classico (e neoclassico) non si fermano qui. L’assunto basilare del modello è che ogni individuo che agisca sul mercato delle merci persegue il massimo di ofelimità[1]. Ma questo ragionamento nasconde due insidie. La prima è che se un bene concede a chi lo acquista un certo benessere soggettivo, allora lo stesso individuo mostra la tendenza ad aumentarne il possesso; questo non sempre si verifica. La teoria, è vero, tiene conto che ogni frazione di bene ottenuto in più vede diminuire il prezzo che il soggetto è disposto a pagare per esso (utilità marginale); ma la soddisfazione individuale può manifestarsi ben prima di quanto le equazioni impostate su questo principio ne rendano conto. La seconda e più incresciosa carenza è che non sempre il ribasso dei prezzi di nuovi prodotti immessi sul mercato provoca, anche in tempi differiti come previsto dalla teoria, la sostituzione del vecchio prodotto; il calcolo dei singoli egoisti non è necessariamente volto a confrontare il benessere che gli procura il bene desiderato ed il suo costo.
Prima di tutto vi è il fenomeno della fidelizzazione, per il quale si è portati a preferire merci di cui si conoscono le qualità, già abbondantemente esperita, rispetto a prodotti nuovi e sconosciuti; una sorta di viscosità degli acquisti, Secondo di poi il martellante uso della pubblicità porta gli acquirenti a preferire prodotti conosciuti e reclamizzati rispetto a prodotti considerati più oscuri (ciò che spiega l’enorme investimento che le aziende fanno in spese pubblicitarie; oppure l’attrazione che esercitano le confezioni delle merci esposte [2] (anche queste oggetto di attente ricerche aziendali, pure molto costose) e contribuiscono ad alterare le propensioni di acquisto. Questi due fattori avvelenano le equazioni del mercato, rendendole poco fruibili.

L’equilibrio impossibile

Le note successive faranno riferimento alla teoria esposta a fine del XIX secolo da Vilfredo Pareto[3], punto di arrivo della teoria classica nella versione marginalista; i suoi presupposti sono stati ripresi pedissequamente dalla scuola neoclassica. Quest’ultima ha aumentato notevolmente il ricorso alla matematica, già massicciamente adoperata dal Pareto.
Tutto l’impianto della teoria ha un’unica base: la determinazione dello stato di equilibrio del mercato, quello che assicurerebbe il raggiungimento del massimo di benessere per tutti i membri della società compatibile con le risorse disponibili. Per ottenere le equazioni di questo stato di equilibrio, un numero di equazioni pari alle variabili presenti nel sistema[4], si fanno alcune assunzioni discutibili: prezzi costanti, imprenditori che operano in regime di parità tra investimenti e ricavi (negli investimenti sono compresi gli onorari legittimi che l’imprenditore riceve per le proprie prestazioni), profitti quindi nulli. Il sistema economico complessivo oscilla attorno a questo stato tornandovi laddove una
qualche forzatura lo faccia discostare, grazie a forze automatiche che originano dalla libera concorrenza; quest’ultima è l’unica garanzia dell’equilibrio economico. C’è però una considerazione preliminare da fare. Il mercato, per sua natura, non è mai in equilibrio, ossia tendenzialmente statico: esso è in perenne movimento ed evoluzione passando continuamente da uno stato ad un altro. Pareto prende in considerazione la dinamica del sistema economico, per la precisione nel capitolo IV del secondo volume, dedicato alle crisi; ma i movimenti ivi previsti sono lenti ed oscillatori, sale per le brusche variazioni delle crisi, che però sono rappresentate come oscillazioni più rilevanti, ma pur sempre attorno al punto di equilibrio. In sostanza quello che l’economia classica (e neoclassica) cerca di individuare è uno stato utopico, non esistente in alcun sistema economico reale, un’astrazione priva di contenuto euristico. È proprio questa
concezione statica dei sistemi economici che porta i teorici classici (e neoclassici) a cercare di limitare un qualsiasi governo dell’evoluzione dei mercati globali: ogni intervento volto a condizionare l’evolversi del sistema è visto come un ostacolo della “libera concorrenza”, che da sola è in grado di ricondurre in tempi ragionevoli ogni attore del processo al massimo possibile di benessere, cioè alla quiete.

APPENDICE MATEMATICA

Pareto fa enorme sfoggio di una cultura enciclopedica: sociologia, storia, letteratura, fisica e matematica. Su quest’ultima, divenuta fondante nell’economia moderna a partire proprio dai marginalisti e nella ripresa nella seconda metà del secolo scorso in maniera sempre più massiccia, sarà opportuno soffermarsi in dettaglio. La conoscenza così vasta dell’autore incorre talvolta in falle notevoli, quando ad esempio confonde il moto delle molecole di un metallo con le onde che si propagano in esso posto in vibrazione (& 926)[5]; confonde così l’agitazione termica con le oscillazioni sinusoidali di una corda vibrante.

L’ofelimità è massima o minima?

Nel cercare la condizione di equilibrio l’equazione delle ofelimità viene derivata e la funzione derivata eguagliata a zero.
Secondo l’autore l’annullamento della funzione derivata corrisponde di per sé al punto massimo dell’ofelimità globale. Si dà il caso che la derivata prima si annulla nei punti di massimo, di minimo e nei flessi della funzione per cui nulla ci assicura che quella determinata dalla teoria sia effettivamente il massimo di ofelimità globale. Per scoprirlo sarebbe necessario indagare l’andamento in quel punto della derivata seconda e ciò non viene fatto.

Il massimo non può coincidere con la stabilità

Un’altra assunzione della teoria è che il punto di equilibrio individuato sia non solo il massimo di ofelimità, ma anche che esso sia stabile; tant’è che si afferma che ogni scostamento dall’equilibrio sia annullato da forze endogene, sì che esso si ricostituisce. Anche in questo caso la matematica ci dà altre indicazioni: il punto di massimo di una funzione è per sua natura instabile, tanto che ogni minimo scostamento da esso fa allontanare irrimediabilmente lo stato del sistema dal punto individuato: un massimo è un punto di instabilità, solo un punto di minimo è stabile. Si pensi ad una sfera in cima
ad una cunetta (massimo), o nel fondo di una buca (minimo).

La matematica incompresa

Il ricorso alla matematica si rivela così per quello che è: rivestire di una patina di oggettività scientifica scelte di politica economica, che così oggettive non sono. È così che si può affermare che la libera concorrenza sia l’unico sistema in grado di assicurare la formazione di un stato economico stabile, equilibrato e che assicura ad ogni persona che faccia parte della società il massimo benessere possibile. In quest’ottica le coalizioni, i trust, gli oligopoli, i monopoli costituiscono tentativi di forzare le leggi imparziali del mercato, ma queste sono potenti al punto tale da ricondurre il sistema economico al punto ottimale previsto dalla teoria. Per cui ogni intervento legislativo volto a ridurre l’invadenza dei cartelli non è solo inutile, ma si rivela addirittura dannoso perché in definitiva comporta solo una perdita di ricchezza globale, che comporta un danno per tutta la società. Questo era il pensiero di Pareto sullo scorcio del XIX secolo, ma queste idee di fondo hanno percorso sotto traccia (von Mises, von Hayek) la prima metà del secolo successivo per riemergere prepotentemente con Friedman negli ultime decenni e per dominare la scena e condurre l’economia globale al disastro del 2007, quel disastro mai recuperato e che ora la pandemia sta occultando.

[1] L’uso del termine ofelimità (dal greco ὠϕέλιμος, «utile, vantaggioso», derivato di ὠϕελέω «essere utile, giovare») è stato introdotto dal l’economista Vilfredo Pareto (1848-1923) per indicare la capacità che i beni economici e i servizi e i servizi hanno di soddisfare i desideri e i bisogni umani individuali, evitando, così, le ambiguità  semantiche soggiacenti all’uso del termine utilità. Pareto preferisce il termine ofelimità a quello più comune di utilità per sottolineare che non sempre ciò che l’individuo desidera (cioè ciò che gli è ofelimo) gli è anche utile, nel senso di favorevole.
L’ofelimità si differenzia dall’utilità per il suo carattere di soggettività. In altre parole l’ofelimità, rappresenta l’utilità dal punto di vista del singolo individuo, non della comunità. https://it.wikipedia.org/wiki/Ofelimità.                                                              [2] Molteplici sono i richiami che pubblicità e confezioni utilizzano per convincere gli acquirenti: origini delle materie prime, sostenibilità ambientale, salubrità, filiera corta, tutele del lavoro, solidità aziendale e chi più ne ha più ne mette. È per lo meno dubbio che nella pratica tutte le
caratteristiche dei prodotti proclamate ossessivamente forniscano poi una maggiore ofelimità per il cliente, pur senza considerare i casi, non infrequenti, di pubblicità mendace. Chi acquista dovrebbe essere dotato di vaste e approfondite conoscenze per orientarsi nell’acquisto di merci che corrispondano effettivamente alla sua soggettiva soddisfazione.
[3] VILFREDO PARETO, Corso di economia politica, 2 voll. Einaudi, Torino 19535.
[4] Il fatto che il numero delle varabili in gioco (ofelimità dei singoli, quantità delle merci, capitali, interessi, prezzi, etc.) sia vastissimo, in numero tale cioè da rendere impossibile risolvere in pratica le equazioni determinando le variabili, non inficia il fatto che il sistema si teoricamente risolvibile e questa considerazione permette al Pareto di ricavare alcune considerazioni sulle condizioni cui il mercato deve nel suo complesso soddisfare.                                                                                                                        [5] VILFREDO PARETO, Corso di economia politica, cit., vol. II, L’organismo economico, Capitolo IV, Le crisi economiche, p. 302.

Saverio Craparo