Mentre la minacciata chiusura della GKN di Firenze sembra avviarsi verso una soluzione e altre crisi analoghe sia annunciano – non ultima quella della Caterpillar di Jesi – in finanziaria si approvano norme sulle delocalizzazioni.
Il 23 dicembre si è chiusa la trattativa al MISE con la proprietà e un una società che fornisce consulenze nel settore economico e finanziario ha costituito la Qf Spa, «Quattro F, ovvero Fiducia nel Futuro della Fabbrica di Firenze».
L’acquisto pone fine al rischio licenziamenti: l’azienda ritira la messa in liquidazione e contestualmente viene ritirata l’impugnazione contro il ricorso vinto dai sindacati, relativa alla vecchia procedura di licenziamento. L’acquirente, esperto in ristrutturazioni aziendali, si propone di traghettare GKN verso l’acquisto da parte di uno dei due pretendenti che dichiara di avere, ovvero un’azienda farmaceutica e un’altra di componentistica per le energie rinnovabili, e intanto diventa proprietario senza licenziare nessuno. Mediatori dell’operazione sembrano essere stati il Cardinale di Firenze, le Istituzioni, i sindacati, la Confindustria di Latina, dove il titolare della società risiede. Lo hanno affiancato nell’operazione – a quanto riferisce la stampa specializzata – i suoi consulenti Deloitte Touche, Tohmatsu Limited, una società inglese a responsabilità limitata, affiancata dal team di Matteo Uggetti, Gmr Partners, Decon Group, Studio Chiomenti con il team di Edoardo Andreoli.
Nell’immediato si ricorrerà alla cassa integrazione per i 422 lavoratrici e lavoratori. Intanto l’occupazione della fabbrica continua perché i lavoratori vogliono vederci chiaro. Finché l’azienda non ripartirà con tutti i lavoratori al proprio posto e la produzione non verrà ripresa nessuno intende considerare risolta la vertenza, anche se il ministero del
Lavoro ha dichiarato che con l’approvazione della legge di bilancio dovrebbero essere approvati nuovi strumenti di accompagnamento utili a coprire i prossimi mesi. Nel frattempo, in particolare a gennaio, i lavoratori saranno retribuiti utilizzando le ferie. È dunque comprensibile la diffidenza e la prudenza: non è la prima volta che le ventilate soluzioni non sono poi andate a buon fine e perciò i lavoratori sono vigili e diffidenti.
La finanziaria e le norme antidelocalizzazione
La crisi aziendale della GKN, la delocalizzazione decisa malgrado che la fabbrica accumulasse profitti, hanno posto all’attenzione generale il problema. La proposta di decreto fatta dai lavoratori con l’aiuto dei giuristi democratici – e della quale abbiamo dato conto (La Redazione, Tra delocalizzazione e reshoring, Newsletter Crescita Politica, n 151, ottobre 2021, pp. 8-11) ha prodotto la presentazione di un apposito disegno di legge i cui contenuti in parte sono stati sintetizzati in un emendamento introdotto nella legge di bilancio che contiene in realtà una procedimentalizzazione della
delocalizzazione, nell’intento dichiarato di ostacolare le cosiddette delocalizzazioni selvagge e prevede la restituzione dei finanziamenti statali ricevuti, misura dimostratasi del tutto inefficace. Il risultato è che si rischia di peggiorare la situazione giuridica precedente perché la proceduralizzazione rende inapplicabile la tutela ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, come è stato possibile per la GKN a patto di pagare una penale risibile.
Nel dibattito tra i diversi partiti nella discussione sull’articolo 5 della legge di bilancio che riguarda le delocalizzazioni i partiti si sono mostrati restii a varare delle norme di reale ed efficace contrasto al fenomeno. Il timore è di scoraggiare gli investimenti stranieri in Italia, creando eccessivi vincoli per le imprese investitrici; non si vogliono inoltre creare ostacoli alla cosiddetta internazionalizzazione delle imprese, che spinge gli imprenditori italiani ad investire all’estero, non solo a causa dei minori costi del lavoro, delle facilitazioni fiscali agli investimenti e a causa dei minori adempimenti burocratici,, ma anche per poter penetrare in quei mercati. Non sono pochi, infatti, i paesi che chiedono alle imprese che vogliono operare sul loro mercato a produrre almeno in parte le merci in loco, al fine di stimolare gli investimenti. Ciò detto non si comprende perché una tale clausola non possa essere opposta quantomeno alle imprese facenti capo a paesi extracomunitari.
Quest’insieme di motivi ha indotto il Parlamento a svuotare di efficacia la norma antidelocalizzazioni nascondendosi dietro alle necessità di stimolare nuovi investimenti stranieri in Italia e le start-up, ritenute innovative della struttura industriale del paese. Durante la discussione vi è stato chi (LEU) ha affermato che “L’impresa fa il suo dovere:
delocalizza quando gli conviene, non è che [la delocalizzazione] è selvaggia o scorretta. Se le norme gli consentono di fare un’operazione che massimizza i profitti [l’impresa] lo fa, non perché è cattiva, ma perché funziona così.” E ancora “Almaviva non è andata in Slovacchia perché l’imprenditore è selvaggio, ci è andata perché là il lavoro costa un terzo di quello che costa in Italia e, quindi, quando deve fare gli appalti, può fare prezzi più bassi, perché là il lavoro costa un terzo. Ma non è selvaggio, non è scorretto, ha fatto semplicemente l’interesse della sua impresa e dei suoi azionisti,
funziona così.! (…). La verità è che il quadro di regole che abbiamo che è stato costruito a livello globale e a livello di mercato unico europeo (…) è un quadro regolativo che colpisce e svaluta il lavoro in modo fisiologico, non in modo patologico per le delocalizzazioni selvagge.”
A fronte di questa situazione i modi per affrontare il fenomeno differiscono a seconda che si agisca nell’ottica di tutelare l’impresa o il lavoro. Chi tutela l’impresa, ritiene che per tutelare il lavoro vadano minimizzati i diritti delle persone che lavorano, perché gli animal spirits degli imprenditori – come diceva Keynes – possano produrre più ricchezza
e quindi far sì che venga distribuita. Per questo stesso motivo costoro ritengono che la flat tax sia utile perché il mercato remunera meglio gli imprenditori più produttivi, i quali farebbero “colare” parte della ricchezza prodotta su tutti. Questa è la posizione espressa dai partiti di destra dichiarata e dai falsi sinistri, come “Italia Viva” e Azione”, ma anche dal PD.
Vi è invece, chi pensa che vadano tutelati i diritti delle persone, perché ciò costituisce anche un argine che consente all’impresa di investire in tecnologie innovative e che siano necessari investimenti pubblici per sostenere la domanda in un periodo in cui quella aggregata è molto scarsa. Perciò difendere l’interesse della proprietà dell’impresa non basta e occorre invece che vada riequilibrato l’interesse di chi è proprietario dell’impresa con l’interesse del lavoratore.
Invece i Governi che si sono succeduti negli anni hanno approvato provvedimenti che hanno colpito il lavoro e quello attuale, per bocca del demiurgo Presidente del Consiglio, ha ribadito di credere nella forza regolatrice del mercato e ritiene di non dover intervenire, in attesa che la situazione si riequilibri da sé e che le imprese che il padrone ha deciso di chiudere chiudano, perché così esige il mercato.
È questo il motivo per cui il testo licenziato dal Governo e imposto con la fiducia nella legge finanziaria si limita a distribuire “pannicelli caldi” sulle crisi aziendali e ad accompagnare con gli ammortizzatori sociali i lavoratori alla perdita del posto di lavoro: basta guardare al destino delle tante crisi aziendali che giacciono nei corridoi del MISE e che crescono di numero di giorno in giorno. In queste condizioni le norme anti delocalizzazione, come del resto è avvenuto anche con la legge francese – come notavamo commentandola – non possono che fallire il loro scopo.
Costruire una vertenza sindacale in Europa
Quello che, a nostro modesto, avviso manca nella proposta, peraltro generosa ed apprezzabile dei giuristi democratici, è creare le premesse per la costruzione di una vertenza sindacale, rimettendo in gioco i lavoratori, posto che dai Governi controllati dal padronato non c’è da attendersi nulla di buono In tal modo si darebbero le gambe per conferire efficacia ai meccanismi di garanzia ipotizzati. Ci permettiamo di proporre alla riflessione una proposta.
Il problema della delocalizzazione produttiva affligge tutti i paesi ad economia matura e con livelli salariali e fiscali che non permettono dumping né salariale né sotto il profilo fiscale. Se si analizza la posizione a riguardo del problema, quanto meno di Francia e Germania, abbiamo constatato che la reazione francese a protezione dell’economia
del paese è fallita malgrado il generoso tentativo di metterla in atto, mentre quella tedesca, a causa della presenza dei sindacati in molti organi di gestione delle imprese, ha avuto un limitato successo. Sappiamo altresì dell’indisponibilità del Governo italiano ad agire in modo incisivo poiché quest’ultimo confida nel mercato e intanto non agisce.
Spetta perciò al sindacato lanciare una vertenza a livello nazionale e contestualmente europeo, cercando e trovando il coordinamento con i sindacati di almeno la Francia e la Germania. Ad esempio, interlocutori possibili potrebbero essere Force Ouvrière in Francia e la IG Metal in Germania e, perché no, la intera Deutscher Gewerkschaftsbund. (confederazione dei sindacati tedeschi).
Queste organizzazioni dovrebbero finalmente prendere atto della dimensione sovranazionale dei problemi e trasformare il loro rapporto burocratico di relazioni internazionali, affidato oggi a funzionari che vegetano nel cimitero degli elefanti degli incarichi sindacali di facciata, in un rapporto operativo e vitale che vede operare in prima persona i Segretari Generali, i quali dovrebbero aprire una vertenza con i rispettivi Governi, e farsi portatori di una proposta presso il Parlamento dell’Unione e la Commissione, considerato che la stragrande maggioranza delle delocalizzazioni avviene nel mercato unico e che funziona sulla base del dumping sociale, ovvero, sulla base della concorrenza al ribasso sulle condizioni del lavoro. Rafforzare quindi la richiesta di un salario minimo e avviare un piano di coordinamento delle legislazioni del lavoro e dei diritti e norme comuni in materia di orari, salari minimi, festività e garanzie del lavoro, dando finalmente corpo all’Unione nel settore del lavoro. Questo passo è oggi indispensabile se si intende procedere sulla strada del PNRR e della tendenziale messa in comune del debito, in considerazione del fatto che in questa prospettiva è
ineludibile una futura convergenza in materia di regime fiscale. Questo livello di intervento permetterebbe di mettere a punto sanzioni efficaci all’interno dell’Unione, imponendo come primo passo a tutti i paesi quantomeno l’adozione di un salario minimo comune e diritti e tutele validi per tutti.
Intervenire invece sulla libertà di stabilimento delle imprese nel territorio dell’Unione è paradossalmente più difficile. Sappiamo bene che la proposta può incorrere in un rischio di contenzioso giuridico oltre che politico, perché vige a decorrere dai Trattati di Roma del ’57, l’articolo 43 sulla libertà di stabilimento delle aziende. Ma bisogna considerare che sono vigenti anche altri principi, tra i quali quello della coesione territoriale, oggi a tutti gli effetti misconosciuta e subordinata dai Trattati europei al principio della libera concorrenza. Tuttavia la questione potrebbe essere portata davanti alla Corte di Giustizia, chiedendo un bilanciamento tra il principio di coesione territoriale, che è anche poi di coesione sociale, e quello della libertà di stabilimento, che andrebbe reinterpretato.
In questa prospettiva il ruolo dei giuristi democratici potrebbe essere prezioso ed essenziale per contribuire alla crescita complessiva della coesione dell’Unione, tanto più oggi che con il Recovery and Resilience Facility si va verso una maggiore coesione e in prospettiva – si spera – verso la condivisione del debito e perché no, di una politica fiscale comune. Il risultato politico dell’iniziativa sarebbe quello di dare una qualche rilevanza in più all’Unione e di affermare un principio, quello della coesione sociale, oggi decisamente residuale nell’Unione Economica Europea.
Come si conviene ad ogni vertenza sindacale “il punto di caduta” dell’iniziativa sindacale potrebbe essere quello di ottenere che come primo passo e segno di buona volontà sia assicurata l’efficacia di queste norme almeno al di fuori dell’Unione ponendo ostacoli reali nei confronti del dumping messo in atto dai paesi esterni all’Unione; la proposta potrebbe comunque costituire a risolvere almeno una parte del problema.
Senza dare una efficacia nei paesi che mettono in atto il dumping salariale e quello fiscale; d’altra parte, l’Unione rischia di mettere in discussione il mercato unico, costringendo i diversi Governi a praticare la politica dei dazi e delle reciproche sanzioni economiche, rimettendo in discussione i progetti ambiziosi di decarbonizzazione, di lotta alla crisi climatica, di transizione verso un’economia verde. Ne va non solo del destino e del benessere dei lavoratori, ma anche della coesione dell’edificio comunitario.
È questo il punto di partenza per intessere delle alleanze politiche per togliere spazio e significato alle politiche sovraniste di alcuni Stati che poi sono quelli che mettono proficuamente (per loro) in atto le politiche di dumping salariale e fiscale a tutto danno sia dei lavoratori di questi paesi che sono sottoposti a un maggior sfruttamento sia dei lavoratori degli altri paesi sottoposti a una concorrenza sleale e alle peggiori condizioni e da ultimo alla perdita del lavoro.
La redazione