Mission impossible

Continuando nell’analisi del PNRR ci s’imbatte nella “Missione 4”, ovverosia, “Istruzione e ricerca”. Per quanto concerne la seconda voce è presto detto: tutta l’attenzione è puntata alla ricerca “utile”, e per utile s’intende, ovviamente tutto ciò che è spendibile nelle aziende; quindi, digitale, 4.0, tecnologia, rapporto università pubbliche e mondo della produzione. Ricordando che l’imprenditoria italiana è quella che meno spende per la ricerca [1], lo Stato si fa garante di fornire prodotti implementabili nelle fabbriche, sopperendo così, con soldi pubblici, alla miopia che contraddistingue la borghesia nostrana. Ma c’è anche un altro problema; Rockfeller lo aveva capito negli anni 30 del secolo scorso: è la ricerca di base che poi permette lo sviluppo tecnologico. Gli estensori (sia il Governo Draghi che quello Conte) novanta anni dopo sono lontani da questa consapevolezza e puntano tutto il malloppo sulla ricerca applicata, condannando la scienza italiana, una delle più apprezzate al mondo, ad un futuro asfittico.
È ovvio che le pagine e le analisi settoriali del documento non siano opera dei Presidenti del Consiglio succedutesi ad inizio anno, e che le singole parti siano state affidate ai “tecnici” del settore. Quelli del MIUR si rivelano, pertanto, particolarmente approssimativi, infarciti di luoghi comuni, contraddittori. La “Missione” inizia con un quadro fosco dello stato della scuola del paese, condivisibile nella parte concernente l’abbandono scolastico, ma decisamente superficiale quando si addentra sugli apprendimenti; citiamo: “Gli studenti italiani di 15 anni si collocano al di sotto della madia OCSE in lettura, matematica e scienze.” È chiaro che si riferiscano alle famose, stracitate a sproposito, indagini internazionali conosciute sotto il nome di OCSE-PISA. Non è il caso di pretendere che gli estensori del documento abbiano analizzato il tipo di domande che vengono proposte agli studenti e quanto esse siano pregiudizievoli [2], sarebbe chiedere troppo; è sicuramente più comodo rifugiarsi sul già detto. Ma un minimo sforzo interpretativo vorrebbe che si usasse accortezza nel dire “al di sotto”, perché i dati reali ci dicono che il livello attestato è “molto poco al di sotto”, e questa non è una questione di lana caprina, perché come tutti sanno in ogni statistica ci sono degli errori, e quindi i dati dovrebbero essere corredati da un più o meno qualcosa in funzione della massa dei dati utilizzati [3], cosicché il poco meno ed il poco più finiscono per sovrapporsi, tanto da poter dire che quei paesi che stanno attorno alla media si
equivalgono.
Segue una giusta lamentela sul basso livello di istruzione che caratterizza l’Italia, sui pochi dottorati rilasciati, sulle carenze delle strutture scolastiche ed universitarie in particolare. Qui, però, compare una prima colossale contraddizione, di cui gli estensori non paiono accorgersi. Da un lato si lamenta il fatto che il 20% dei dottorati (1 su 5) lascia l’Italia e si stigmatizza la fuga dei “talenti”. Dall’altro si afferma che “il numero di ricercatori per persone attive occupate nelle imprese è pari solo alla metà della media UE (2,3 per cento contro il 4,3 per cento nel 2017 ”). Come stupirsi, quindi, che “circa il 33 per cento delle imprese italiane lamentano difficoltà di reclutamento” di personale qualificato. A lor signori non viene in mente che le due questioni siano correlate da un offerta di lavoro molto più vantaggiosa all’estero che in Italia, e che quindi non è assolutamente il caso di cianciare di mismatch tra domanda ed offerta (poco più sotto); se i nostri “talenti” trovano lavoro altrove, non è l’offerta di conoscenze fornite dal sistema scolastico italiano ad essere non all’altezza, ma è l’offerta di condizioni di lavoro proposta dalle imprese a non essere adeguata. Invece ecco le ineffabili conclusioni cui giunge il documento “occorre consentire una maggiore flessibilità e permettere la specializzazione degli studenti in modo più graduale”.[4]
Andando oltre s’incontrano sinistri scricchiolii e frasi oscure e minacciose. Accanto ad una mai abbastanza auspicata “riduzione del numero degli alunni per classe”, cui non segue alcun stanziamento di risorse, si legge: “si pone il superamento dell’identità tra classe demografica e aula al fine di rivedere il modello di scuola”. Cosa significa? Qual è il progetto? Non è dato saperlo, ma il successivo accenno alle scuole di montagna apre una finestra sulle pluriclassi, ricorso estremo in situazioni eccezionali, certo non didatticamente efficaci; oppure alle classi di livello, uno strumento da usarsi con le molle e temporaneamente, pena riproporre la selezione dei migliori. Ma da tutto l’investimento 1.4. del capitolo M4C1.1. (Miglioramento qualitativo e intervento quantitativo dei servizi di istruzione e formazione) traspare un’ansia di riforma del sistema scolastico privo di obiettivi chiari e definiti, come se non fossero tre decenni che esso è sottoposto ad
una tempesta di riforme, cui ogni politico succeduto nella poltrona che fu di Francesco Saverio de Sanctis ha voluto legare il proprio nome, riforme che invece di migliorare il sistema lo hanno devastato.
L’affermazione è forte e chiara: “Indipendentemente dai divari tra nord e sud la nostra scuola primeggia a livello internazionale per la forte base culturale e teorica”. Nessuno si aspetterebbe le conclusioni che vengono tratte da tale considerazione, che tra l’altro è in forte contrasto con quanto già preso in considerazione circa le indagini OCSE-PISA.
Se la scuola ancora regge nel fornire una solida base culturale e teorica il merito è certo del personale docente peggio pagato d’Europa e che si trova ad operare in strutture inadeguate. Per i nostri eroi, invece, occorre migliorare le competenze dei docenti italiani, rivederne il reclutamento per “innalzarne la professionalità” e fornirgli uno “sviluppo di carriera”. Partiamo dal fondo.

La manovra sulla docenza

Lo sviluppo di carriera è stata una strada già infaustamente battuta più volte; si è sempre risolta in clamorosi insuccessi, ma soprattutto essa ha costantemente perso di vista che il risultato dell’insegnamento non si basa solo sulla capacità del singolo docente, ma anche e soprattutto sullo spirito di coesione del corpo docente, sul suo sentirsi votato ad una comune finalità sociale, sul non essere affetto da arrivismi.
Ma quale sarebbe il miglioramento da apportare alla professionalità docente? Sicuramente non l’iniezione di fiducia in se stessi, la riconquista di un riconosciuto ruolo sociale, conseguente ad una rivalutazione stipendiale che li equiparasse ai colleghi europei. No! Le competenze informatiche. Sfugge agli estensori del documento che ormai da molto tempo i docenti italiani non sono più identificabili con l’anziana professoressa di italiano da loro conosciuta sui banchi del Liceo, tutta penna e calamaio ed altezzosamente colta da ripulsa alla vista di un computer. Da più di un
decennio le aule scolastiche sono state progressivamente dotata di lavagne digitali, i docenti dialogano con i propri studenti su piattaforme digitali, che da molti anni ormai fanno uso di registri elettronici, svolgono riunioni di scrutinio con sistemi informatici. L’ossessione del “digitale” pervade tutta la “Missione”, un digitale visto coma la soluzione taumaturgica di ogni male, di ogni disfunzione. Anche l’ipotetico mismatching tra offerta e richiesta di lavoro troverebbe qui la propria base oggettiva, dimenticando che gli allievi sono più avvezzi all’utilizzo degli strumenti informatici dei propri professori; dimenticando che l’informatica non ha alcun carattere formativo, ma è solo un addestramento all’utilizzo dei sistemi digitali; dimenticando che la sua pervasività rischia di ottundere quella capacità del nostro sistema formativo di fornire una solida base culturale e teorica.
C’è un’altra ossessione che ricorre costantemente nel documento, ma che invece di essere proiettata verso il futuro digitale agognato, sa un po’ di stantio. È una vecchia fola dei nostri lungimiranti imprenditori: la scuola deve fornire diplomati e laureati adatti alle esigenze della produzione (ovviamente oggi per l’industria 4.0). Sono due i piani su cui questa pretesa si rivela errata, a parte la considerazione già fatta che essa riversa sul fronte della formazione il lamentato mismatching tra domanda ed offerta di lavoro, quello che invece va ribaltato sul piano di una classe imprenditoriale il cui scopo neppure troppo nascosto è quello di sottopagare il proprio bisogno di competenze.
Il primo piano è che ormai da lungo tempo le imprese avrebbero dovuto capire che i tradizionali mestieri sono finiti e che le prestazioni lavorative vanno uniformandosi e che quello che in esse muta è solo dovuto all’evolversi della tecnologia. Ne discende che le dette imprese non necessitano di personale già formato per le proprie esigenze immediate (e questo lo sanno bene perché ogni nuovo assunto deve svolgere un periodo di adattamento alle mansioni cui sarà addetto), ma necessitano di personale che sia in grado nel tempo di adeguarsi alle nuove esigenze che via via verranno a
presentarsi. Gli addetti più versatili non sono certo quelli già formati per uno scopo (fa venire i brividi che nel documento si prospetti l’ennesima riforma degli istituti professionali), ma per l’appunto quelli che posseggono una solida base culturale e teorica.
Il secondo piano è più teorico. Sfugge agli estensori del documento che la scuola non ha solo la finalità di preparare al lavoro, ma anche e soprattutto quella di formare coscienze, di fornire strumenti agli individui per affrontare la realtà sapendone interpretare criticamente ed autonomamente i segnali. Forse lo scopo perseguito è proprio quello di evitare che i discenti acquistino la capacità di pensare con la propria testa e risultino in tal modo più permeabili alle suggestioni del mercato e degli imbonitori della politica.

Non solo l’Italia spende meno di altri paesi in rapporto al PIL per Ricerca e Sviluppo (poco più dell’1%, contro il 3% ed oltre della Francia e 2,9% della Germania), ma è quella che mostra la dinamica più lenta, tanto che nel 2015 la Spagna l’ha superata. In questo mesto panorama, i finanziamenti privati superano di poco quelli pubblici (ma con il PNRR questo dato andrà rivisto), mentre altrove sono i primi a fare la parte del leone (Germania, Francia e soprattutto gli USA). Dati in:

[1] http://www2.dsu.cnr.it/relazione_ricerca_innovazione/volume/Relazione_sulla_ricerca_e_innovazione_in_Italia_cap1.pdf
[2] Giusto per fare un esempio, uno dei parametri importanti per valutare le capacità di lettura è la comprensione di un manuale di istruzioni, certamente importante per formare un buon consumatore, mentre un testo letterario complesso sarebbe più utile alla formazione di un atteggiamento di costruzione di un pensiero autonomo e di uno spirito critico.
[3] Si chiama standard deviation, ma come chiedere ai funzionari del MIUR di conoscere queste sofisticherie?
[4] Dopo la sciagurata riforma dell’Università attuata dal Ministro Berlinguer esistono più di mille lauree triennali e gli studenti si specializzano prima di formarsi le basi del sapere.

Savario Craparo