In quest’estate torrida a sconvolgere i territori non c’è solo il fuoco (mai per autocombustione e sempre causato dall’uomo, per colpa o dolo), ma c’è anche la sete, che in Calabria si trasforma nella guerra dell’acqua ad opera di un sindaco, quello di Cotronei, che indossata la fascia tricolore e seguito dagli operai del Comune, va a deviare l’acqua verso le fontane del suo Comune, lasciando a secco quelle del vicino San Giovanni in Fiore.
Questo avviene agli inizi di agosto nella Sila cosentina ricca di acqua e sorgenti e con ben tre laghi, ma dotata di acquedotti che perdono circa il 40% della portata, gestiti dalla Società Risorse Idriche Calabresi S.p.A. – So.Ri.Cal., società mista a prevalente capitale pubblico regionale, [53,5% Regione Calabria; 46,5% Acque di Calabria S.p.A. (2% Veolia)] che gestisce l’esistente e dovrebbe completare e l’ampliare la rete idrica, provvedendo alla captazione, stoccaggio e potabilizzazione dell’acqua. Gli impianti che la società gestisce gli sono stati trasferiti in concessione per trent’anni dalla Regione Calabria, che a sua volta li ha ricevuti dalla disciolta Cassa per il Mezzogiorno, ex art. 6 L. n. 183/1976: erano stati realizzati a partire dagli anni ’50 del secolo scorso e la Cassa ha provvedendo alla loro gestione e manutenzione fino al 1983, quando la Regione ne ha assunto sia la proprietà sia la responsabilità del funzionamento. Dal
2004, in attuazione della Legge Regionale n. 10 del 1997, la Regione Calabria ha affidato la gestione degli impianti alla Società mista So.Ri.Cal., S.p.A., di cui la stessa Regione è l’azionista di maggioranza, con un contratto di concessione che avrà termine nel 2033.
La privatizzazione della gestione dell’acqua
Il 12 e 13 giugno 2011, 26 milioni di cittadini italiani partecipando al referendum, sancirono da allora in poi non si sarebbe potuto più fare profitto con l’acqua e che la sua gestione, trattandosi di un bene comune, avrebbe dovuto essere pubblica, erogata da servizi efficienti a fronte di investimenti pubblici sulla rete per ridurre le perdite. Si dava così attuazione non solo al mandato popolare, considerato che “il diritto all’acqua, potabile e sicura, e ai servizi igienici” è “un diritto umano essenziale al pieno godimento della vita e parte di tutti i diritti umani”, come stabilisce la risoluzione delle Nazioni Unite del 26 luglio 2010.
In questi dieci anni è avvenuto invece che la promessa “nessun profitto” non solo non è stata mantenuta, ma guardando ai conti economici dei gestori del servizio, alle tariffe applicate e pagate dai cittadini per utilizzare l’acqua del rubinetto, l’attore pubblico – in veste di ente locale, azionista delle società o ente regolatore – ha continuato ad agire come privato e a fare profitti. È un fatto che nel periodo citato “Le tariffe del servizio idrico sono aumentate di oltre il 90%, a fronte di un incremento del costo della vita del 15% – dati della CGIA di Mestre, alla mano” e le società di gestione hanno continuato a distribuire dividendi, mentre la manutenzione e il miglioramento della rete non c’è stato, prova ne sia che le perdite delle rete sono salite a una media del 41,4% (ovvero 3,4 miliardi di metri cubi, dato 2015, ndr), e da allora la situazione non è certamente migliorata. Del resto, è quanto sta avvenendo ovunque, tanto che in ben 37 paesi, in buona parte europei, si tende alla “ripubblicizzazione” del servizio [come fa notare Emanuele Lobina, ricercatore presso il Public Service International Research Unit dell’Università di Greewich].
La gestione del servizio avrebbe dovuto avvenire tenendo conto della “qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari” e “dell’entità dei costi”, in modo da poter assicurare la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio, secondo il principio del recupero dei costi e del “chi inquina paga”.
Nessuna “remunerazione”, dunque, ma solo la “copertura integrale dei costi” (o principio del “Full cost recovery”). Ad applicare e riscuotere la tariffa è oggi il gestore del servizio, tenuto per legge (“Codice dell’ambiente” 152/2006) a farlo nel rispetto della convenzione che ne regola il rapporto con l’Ente di governo dell’Ambito territoriale ottimale (EGATO).
Gli “Ambiti” (ATO) sono oggi costituiti dall’“organizzazione territoriale” del servizio idrico e vengono disegnati dalle Regioni, in alcuni casi intorno a specifici bacini idrografici. Spetta quindi agli enti locali – e in primo luogo ai Comuni – occuparsi delle risorse idriche, a partire dalla programmazione delle infrastrutture. Ebbene questo modello di
determinazione dei costi ha prodotto in 10 anni il 90% dell’incremento delle tariffe del servizio idrico.
Tutto questo è stato possibile attraverso l’adozione di un metodo molto complesso di determinazione delle tariffe che prevede voci “irreali e inesistenti” in assenza delle quali sarebbe possibile ridurre la tariffa del 25-30% e coprire tutti i costi e tutti gli investimenti, in quanto quel margine non sono altro che gli utili e i profitti che hanno una destinazione e finalità diverse dalla gestione del servizio. Eppure, il referendum aveva “cancellato” la remunerazione del capitale. ma ARERA [l’Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità] ha sostituito la ‘remunerazione del capitale investito’ con gli ‘oneri finanziari del gestore’ che sono finiti nella tariffa praticata agli utenti. In teoria dovrebbe trattarsi del costo del denaro che il gestore mette a disposizione per la società, ma così non è, perché nel conto economico delle società. diviene l’utile d’esercizio. Quindi ritorna la remunerazione, ovvero il profitto d’impresa. C’è poi l’utilizzo della voce ‘costi di morosità’”, corrispondente al rischio di non incassare crediti, ovvero al rischio di morosità che viene calcolato in modo presunto e fatto pagare in tariffa, applicando determinate percentuali al fatturato annuo del gestore che variano a seconda dell’area del Paese: più bassa al Nord e più alta al Sud perché si presume che al sud vi sia un maggior numero di utenti morosi.
Ma il gestore del servizio idrico opera in condizione di monopolio naturale ed è, quindi, coperto comunque da eventuali ‘rischi’ di perdere crediti in quanto il gestore non ha costi perché addebita gli interessi di mora all’utente in ritardo e perché prima o poi riscuoterà: dunque si garantiscono al gestore perdite inesistenti. Questo meccanismo,
perfettamente legale, produce per il gestore profitti enormi che di fatto costituiscono il reddito di impresa che finisce nei dividendi distribuiti ai soci, dividendi alimentati anche da ciò che si ricava dai conguagli e dai costi che deriverebbero dalla gestione finanziaria.
A questa situazione tenta di porre un argine la proposta di legge “AC 52 (“Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque”, prima firmataria l’on. Daga). Questa proposta di legge è l’erede della proposta legge di iniziativa popolare (oltre 400.000 firme raccolte) presentata a più riprese dal 2007. Il 30 gennaio 2019 la Commissione Ambiente della Camera l’ha adottata come testo base, ma occorre che si sviluppi la mobilitazione affinché il Paese si doti di un quadro legislativo unitario rispetto all’acqua come bene comune, introducendo modelli di
gestione pubblica e partecipativa di gestione del servizio idrico, procedendo da subito alla ripubblicizzazione. È necessario inoltre escludere l’ARERA, da ogni intervento perché in questi anni ha dimostrato di tutelare gli interessi delle aziende e non degli utenti. Come hanno ribadito le Nazioni Unite, il 22 marzo 2019, “Chiunque tu sia, ovunque tu sia, l’acqua è un tuo diritto umano”. Bisogna dunque che i Comuni tornino ad occuparsi direttamente della questione, perché l’esperienza di questi anni ha dimostrato che, stante la legislazione attuale, pur se in regime di monopolio naturale,
l’unico ad essere garantito è il gestore.
Quando il rimedio è peggiore del male
Proporre, tuttavia, una gestione diretta del servizio non basta se si guarda, ad esempio, i Comuni che operano nell’erogazione dei servizi, dando vita a organismi consortili come quelli di bonifica: ci riferiamo ai consorzi di bonifica che sono enti di diritto pubblico previsti dalla legge che curano l’esercizio e la manutenzione delle opere pubbliche e controllano l’attività dei privati sul territorio di competenza, detto “comprensorio di bonifica” e che amministrano i servizi e le acque. Essendo consortili, questi enti sono amministrati dai consorziati – i Comuni – anche se in pratica si tratta di un consorzio obbligato. Tali strutture esistono ovunque e non sono limitati alle aree periferiche o rurali.
Tutti i proprietari di beni immobili (terreni e fabbricati in genere) ricadenti all’interno del comprensorio di competenza dell’ente sono tenuti, per legge, a contribuire alle spese per la manutenzione e l’esercizio delle opere di e delle strutture di servizio come gli acquedotti. Il riparto delle spese ed il conseguente calcolo del contributo a carico di ogni singolo consorziato, viene calcolato in proporzione al beneficio che gli immobili di proprietà traggono dalle suddette attività. Ebbene proprio da Cosenza viene l’esempio di ciò che può succedere quando il cittadino finisce nelle grinfie di un consorzio di bonifica, ma tutto il territorio del Paese – ribadiamo – ne è pieno.
Ci riferiamo al Consorzio Valle Crati che venne costituito nel 1974 su iniziativa di alcuni Comuni dell’hinterland della Valle del fiume Crati allo scopo di risolvere con mutua collaborazione vari problemi di carattere ambientale dei Comuni e, in particolare, per programmare, attuare e gestire un piano complessivo e integrato di smaltimento dei rifiuti liquidi e solidi urbani. A questo ente, Regione Calabria, nel 1992, trasferì le competenze per la gestione dell’impianto di depurazione al Consorzio Valle Crati, affinché, tramite l’affidamento dei servizi ad imprese autorizzate, garantisse la gestione anche dei rifiuti. In un primo momento il Consorzio dette vita alla Vallecrati S.p. a. (società mista pubblicoprivata lanciata dal Consorzio per la gestione dei rifiuti solidi urbani). Questa società, nata nel 2001, fallì nel 2010, a causa di una gestione clientelare e disastrosa, producendo un passivo accertato di quasi 37 milioni di euro. Alla sua direzione si sono avvicendati 7, manager, nominati dalla politica, indagati per bancarotta fraudolenta. I 430 operai dell’azienda hanno perso il lavoro e molti stipendi non sono stati pagati; la raccolta dei rifiuti nell’area urbana di Cosenza è in condizioni disastrose perché, a fronte di esose tariffe, forniva e fornisce servizi pessimi.
Per questi motivi il Consorzio Valle Crati è stato ad un passo dalla soppressione. Ma il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto – fratello del candidato alla Presidenza della Regione per il Centro Destra alle prossime elezioni di ottobre – affascinato dalla portata dell’affare, ci si è impegnato anima e corpo e, coadiuvato dai soliti gruppi di potere e in accordo con una componente del Pd calabrese, ha proposto e fatto approvare la nomina di un manager di fiducia di area Pd, a soli quattro giorni dalla scadenza per la richiesta dei fondi relativa alla gara per l’appalto della gestione del depuratore
consortile che serve l’area cosentina, garantendo al vincitore della gara un profitto nel tempo. In altre parole il gestore assicurava prezzi contenuti di gestione in cambio di un profitto che si sarebbe accumulato nell’arco della gestione dell’impianto per 15 anni.
Con l’assegnazione dell’impianto di depurazione di Rende-Cosenza sono stati concessi inoltre 35 milioni di finanziamento da parte del CIPE in Project Financing al signor Alfonso Gallo che aveva provveduto a costituire la Kratos s.c.a.r.l.. Per realizzare l’opera 26 milioni verranno versati a fondo perduto dallo Stato, mentre 9 milioni di euro dovrebbe versarli il privato, ovvero Gallo. Al Consorzio Valle Crati vengono assicurati 12 milioni di fatturato all’anno per 15 anni, ovvero 180 milioni di euro. L’azienda per effetto del contratto avrà un utile complessivo di 206 milioni di euro.
Se non che a partire dal 31 dicembre 2021 in Calabria come in tutta Italia dovrà essere reso pubblico tutto il ciclo integrato delle acque, nella prospettiva di dover gestire le misure previste dal PNRR in materia di acque, in particolare gli investimenti in infrastrutture idriche primarie per la sicurezza dell’approvvigionamento idrico (M2-C4.4-I.4.1) a cui sono destinati 2 miliardi di euro, nonché la linea di investimento per la riduzione delle perdite nelle reti di distribuzione dell’acqua, compresa la digitalizzazione e il monitoraggio delle reti (M2-C4.4-I.4.2) a cui sono destinati 900 milioni di euro; gli investimenti nella resilienza dell’agrosistema irriguo per una migliore gestione delle risorse idriche (M2-C4.4-I.4.3), a cui sono destinati 880 milioni di euro, e gli investimenti in fognatura e depurazione (M2-C4.4-I.4.4), a cui sono destinati 600 milioni di euro. Il piano prevede inoltre interventi di riforma volti alla semplificazione normativa e al
rafforzamento della governance per la realizzazione degli investimenti nelle infrastrutture di approvvigionamento idrico (M2-C4.4.-R.4.1). nonché a garantire la piena capacità gestionale per i servizi idrici integrati (M2-C4.4.-R.4.2). da parte di enti pubblici. A questi aspetti del Recovery Plan dedicheremo un prossimo articolo.
Per questo motivo il contratto stipulato dal Consorzio Valle Crati con la Regione Calabria, conseguenza dell’affidamento che fatto nel mese di luglio, non è più in essere ma va onorato comunque per ciò che attiene gli utili di impresa garantiti al vincitore della gara erogando comunque il mancato guadagno pari al 10% di 206 milioni di euro,
ovvero 20 milioni e 600 mila euro, che dovranno essere versati il Consorzio Valle Crati e da questo transiteranno al concessionario Kratos s.c.a.r.l che avrebbe dovuto realizzare i lavori e di gestire gli impianti fognario-depurativi consortili e dei singoli Comuni consorziati. Tutto questo mentre la magistratura procede a un nuovo sequestro del depuratore di Coda di Volpe – gestito dal Consorzio – che era stato già sequestrato, anche se non interamente nel 2013, a dimostrazione dell’efficacia operativa del consorzio.
Per una gestione pubblica dei beni comuni
È del tutto evidente che occorre recuperare una gestione pubblica dei beni comuni e per farlo lo strumento istituzionale da utilizzare può anche essere il consorzio, ma a condizione vengano profondamente modificate le norme che ne regolano il funzionamento, che risalgono – e non a caso – al 1933 ! Occorre fare in modo che l’organo di gestione non sia costituito da politici trombati, come avviene ora, che utilizzano questo tipo di incarico come un beneficio per riempire il proprio portafoglio e incrementare la propria clientela, in attesa di una rivincita alla prossima tornata elettorale.
Occorre garantire la partecipazione dei consociati e non basta la composizione elettiva del consiglio di amministrazione, ma bisogna che la struttura di gestione sia effettivamente partecipata, prevedendo deliberazioni assembleari dei consociati, con poteri di ispezione e deliberativi a riguardo delle scelte gestionali operate da funzionari incaricati, capaci, dopo ampi dibattiti e confronti, di adottare decisioni improntate a una effettiva tutela dei beni comuni che nel caso specifico garantiscano trasparenza di gestione, economicità, efficienza e efficacia nella gestione delle strutture e nell’erogazione dei servizi, una utilizzazione ottimale delle risorse, la salvaguardia dell’ambiente, la possibilità di immediata revoca della delega al venir meno della fiducia nei confronti dei dirigenti pro tempore incaricati.
Nelle condizioni date invece questi organismi sono destinati a costituire lo strumento per assicurare continuità e potere alla classe dirigente attuale, ai boiardi di Stato, ai faccendieri delle diverse cordate politico-criminali che fanno si che il risultato elettorale delle elezioni prossime venture sia scontato e nulla cambi nella struttura clientelare e mafiosa del potere.
Gianni Ledi