AGRICOLTURA, CITTA’ E TERRITORIO

Nello scorso numero della newsletter ci siamo occupati della questione bracciantile in Italia e del rapporto tra agricoltura ed emigrazione, ma proseguendo nell’analisi del settore occorre necessariamente spostare lo
sguardo sul rapporto tra città e campagna, sul ruolo delle periferie e sull’agricoltura di prossimità. Oggi ristrutturazione dello sfruttamento capitalistico, effetti della pandemia e Recovery Plan, ripropongono in modo nuovo il rapporto tra città e campagna, gestione delle periferie, consumo del territorio, agricoltura di prossimità. Le problematiche che scaturiscono dai differenti angoli visuali dai quali si guarda al problema del lavoro in agricoltura necessitano dunque che vengano analizzate le diverse sfaccettature del problema.

L’abitare dei lavoratori agricoli e dei migranti

Analizzando i tanti aspetti del lavoro in agricoltura abbiamo visto come quello bracciantile porta all’insediamento di migranti, a volte stagionale, in alloggi fatiscenti e precari, spesso abusivi, che danno vita a aggregati sociali che divengono un serbatoio per il reclutamento da parte dei caporali che gestiscono una manodopera della quale fanno parte in maggioranza migranti clandestinizzati che costituiscono il sottoprodotto di leggi migratorie passate e vigenti. A comporre questo popolo, in larga parte itinerante, sono lavoratori, ma anche lavoratrici provenienti dall’Africa subsahariana (in particolare, Africa Occidentale e Orientale) che è la regione di origine maggiormente rappresentata, in media per il 50% dei componenti; seguono l’Asia centrale (soprattutto India, Bangladesh e Pakistan) con il 18%, il Nord Africa con il 12%, l’Europa (paesi appartenenti all’UE, in particolare Europa orientale) con il 10%, l’Europa non comunitaria con l’8% e, infine, l’America Latina con il 2%. La classe di età più frequente è 18-35 anni il 70% circa; seguono i lavoratori con età compresa tra i 35 e i 55 anni, circa il 20% e, infine, chi ha più di 55 anni che rappresenta circa il 5% del totale.(fonte; Ministero del lavoro, Statistiche, 2019). Si tratta dunque di una manodopera costituita in gran parte di giovani che mancano al paese anche a causa della crisi demografica e dell’emigrazione italiana verso l’estero soprattutto di giovani.
La pandemia ha dimostrato la valenza strategica di questo segmento della filiera agricola per l’economia del paese e la sua essenzialità ma, al tempo stesso, ha evidenziato l’alta pericolosità di questi agglomerati come luoghi che possono costituire dei focolai per il diffondersi di contagi sul territorio. Da qui gli interventi vaccinali di urgenza nei luoghi di insediamento stanziale in siti urbanizzati come quelli nell’Agro Pontino,[1] dove si è sviluppata un’importante agricoltura in serra che richiede manodopera per quasi tutto l’anno e quindi porta ad insediamenti stabili. Diversa invece
la presenza delle istituzioni in aree come il casertano e la Piana del Sele in Campania, le piane di Sibari e Gioia Tauro in Calabria, il siracusano, il ragusano e il trapanese in Sicilia, la Piana di Metaponto e la zona dell’Alto Bradano in Basilicata, la Capitanata, il Nord barese e la zona di Nardò in Puglia, aree nelle quali il picco della domanda di
manodopera si presenta nei periodi delle “grandi raccolte”, dove l’assenza dell’intervento istituzionale è stata totale.
Anche se il fenomeno, rispetto ai dati e ai luoghi citati, sembrerebbe riguardare le aree a sud di Roma, (città che conta 363.563 stranieri residenti, due terzi dei quali ai concentrano nei soli tre municipi I°, VI° e V°) è molto diffuso in alcune aree del Nord, sottovalutato, ma non certo assente, come rilevavamo nei nostri precedenti articoli.[2]
È da notare che proprio per questi motivi il Recovery Plan, così avaro di investimenti a carattere sociale, ha previsto la realizzazione di interventi volti a realizzare soluzioni alloggiative dignitose per i lavoratori del settore agricolo, non solo per motivi etici, ma anche perché la nascita e lo sviluppo di insediamenti informali “creano un terreno fertile per l’infiltrazione di gruppi criminali” anche a causa – aggiungiamo noi – di una gestione attraverso i caporali dei rapporti di lavoro. Perciò il cronoprogramma prevede che entro i primi mesi del 2022 venga realizzata quanto meno la mappatura degli insediamenti su cui intervenire. Se ci trovassimo ad avere a che fare con dei partiti quantomeno riformisti li vedremmo impegnati a richiedere al Governo l’immediata nomina di un Commissario per l’attuazione di questa prima parte del cronoprogramma e la contesa tra di loro per ottenere la gestione della progettazione delle fasi successive di intervento, mentre siamo certi che l’attuazione di questa previsione dipenderà – se mai vi sarà – esclusivamente dai compagni e le compagne che intervengono sui territori se ne faranno aggetto di vertenza e rivendicazione sindacale e dalle loro capacità di lotta.

Il recupero delle periferie e l’agricoltura di prossimità bella visione del capitale

La diffusione di nuovi modelli di consumo e abitudini di vita, la gran polarizzazione dei centri urbani, il forte sviluppo delle infrastrutture e la crescente mobilità della popolazione, hanno modificato il modello dell’organizzazione del territorio, spostando o cancellando quasi completamente i confini fra il rurale e l’urbano. Oggi, porre rimedio al degrado delle periferie è un problema complesso che certamente dovrebbe avere come priorità il recupero dell’edilizia popolare esistente – che in molti casi significa demolizione e riedificazione – ma anche il recupero del suolo, in parte da riconvertire a verde pubblico, in parte da dedicare ad infrastrutture sociali; questo processo investe direttamente il rapporto irrisolto tra città e campagna che coinvolge la cosiddetta agricoltura di prossimità. Anche questo è diventato uno dei settori di investimento sia del capitalismo di impresa sia finanziario.
Quando parliamo di agricoltura di prossimità non ci riferiamo alle politiche degli orti collettivi praticate da alcuni Comuni di grandi città che hanno assegnato ai cittadini richiedenti piccoli lotti di terreno nelle periferie, a condizione che vi realizzassero un orto a conduzione familiare per soddisfare i bisogni domestici, né a quelle reti territoriali di contadini, artigiani, studenti, lavoratori delle comunità rurali e delle città metropolitane, cuochi, attivisti politici, persone e famiglie che fanno la spesa nei mercati autogestiti in alcune aree del paese: di questi ci occuperemo in un prossimo articolo dedicato all’argomento con l’intento di analizzare significati e limiti di questa esperienza.
L’agricoltura di prossimità è un fenomeno complesso che riguarda la gestione del territorio non ancora edificato e dei comuni limitrofi ai grandi centri urbani. Ai margini della città sono presenti molte aree destinate ad assumere sempre maggiore importanza nello sviluppo sia del centro abitato che dell’agricoltura e che, nello stesso tempo, subiscono l’influsso negativo dello sviluppo urbano, caratterizzato da fenomeni quali i quartieri abusivi, il frazionamento fondiario, l’abbandono dell’attività agricola, l’incertezza contrattuale, il problema della sicurezza pubblica, ecc. Si tratta di fenomeni
che si traducono in una progressiva riduzione dei territori agricoli coltivabili e in un’accentuata penalizzazione delle produzioni presenti su queste aree; ciò condiziona e limita l’imprenditoria agricola che costituiva la principale caratteristica di questo territorio. Anche per il capitale a questi problemi è necessario trovare risposte tempestive, ipotizzando il mantenimento di un tessuto consolidato di connessione tra la città e la campagna, attraverso il contributo di un’agricoltura sostenibile e fortemente relazionata con il territorio urbano, considerando questo un bisogno in termini di
qualità del vivere, di importanza pari ai trasporti, al diritto alla casa e a tanti diritti primari ed essenziali, nonché dotato di una rilevante valenza economica.
Per questo motivo gli spazi agricoli periurbani, che dovrebbero essere riconosciuti sul piano sociale, politico ed amministrativo come necessari e tutelati con azioni e norme specifiche peculiari, in alcune aree del paese vengono già oggi utilizzate per realizzare quella che prende il nome di “l’agricoltura di prossimità”. Perché ciò avvenga è necessario che il Comune del Centro urbano predominante e i Comuni limitrofi si dotino di efficaci strumenti di pianificazione dell’assetto territoriale e di risorse finanziarie per evitare che le aree agricole periurbane siano sottoposte a ulteriori processi di urbanizzazione tali da comprometterne la loro esistenza come tessuto organico, che alimenta l’economia del territorio.
Si rende pertanto decisivo delineare una nuova prospettiva nelle politiche di tutela e valorizzazione del paesaggio rurale periurbano come scenario ospitante una “nuova agricoltura di prossimità” del resto già individuata e valorizzata dalla legislazione a diversi livelli nel contesto internazionale (vedi ad esempio la Francia, ma anche l’Olanda). Per tale scopo eventuali politiche e/o progetti devono fondarsi su scelte forti dell’Amministrazione nel creare presidi sul territorio agricolo, aree di importanza strategica che costituiscano la struttura portante, invariabile, del sistema a cui è assicurata la proprietà pubblica.
Si risponde così a uno dei temi cruciali per la costruzione di un sistema di spazi aperti nei territori periurbani delle città, caratterizzati da un’elevata parcellizzazione e da una ridotta proprietà pubblica, dove si rendono necessarie azioni mirate all’attivazione di modalità di gestione mista pubblico-privata, evitando onerosi processi di espropriazione e ponendo un limite alla speculazione che si impossessa di queste aree, orientando i Comuni nelle opere di urbanizzazione, per poi procedere ad una accentuata cementificazione che chiude le città in una cappa irrespirabile.
Si dovrebbe e si potrebbe discutere delle modalità di gestione e di intervento in queste aree, ma non vi è dubbio che occorrerebbe inserire ciò che viene prodotto nei territori periurbani in una rete di supporto alla produzione agricola che vi si realizza, il che richiederebbe di ridurre al minimo le acquisizioni, limitandole alle aree strategiche per il
funzionamento del sistema stesso, cioè, sostanzialmente, agli spazi destinati ai fini ricreativi e di integrazione infrastrutturale, creando così dei presidi nel territorio; per le aree agricole, che rappresentano la quota maggioritaria, la proprietà potrebbe rimanere privata, pur consentendo la fruizione pubblica e un’utilizzazione che va ad incrementare la superfice destinata a verde.
A diffusione del lavoro a distanza, accentuata dalla pandemia, sta d’altra parte decongestionando i centri delle città, dimostrando che si può vivere in modo più sano, accettando una visione diversa delle modalità di fruizione degli spazzi e di utilizzazione del territorio. Prova ne sia che cresce nella prossimità delle città, in forma spontanea, la quota di forme ed attività di agricoltura periurbana rivolta al mercato locale non collegato alla grande distribuzione, gestito da strutture di governance pubblica che si pone in concorrenza con la grande distribuzione alimentare, proponendo i prodotti
del territorio a chilometro zero. È bene precisare che non si tratta di sole iniziative individuali, ma che a ciò si accompagna una marcata propensione progettuale da parte delle imprese, studiata in modo da interagisce, anche con soggetti associativi e no-profit, come agenti di protezione e promozione del territorio agricolo e delle relative attività, con modalità piuttosto leggere o performanti di intervento da parte del livello comunale attraverso i cosiddetti mercatini comunali. In questo quadro si sono sviluppate significative iniziative di strutturazione di filiera corta locale e di mercati
contadini nei quali confluisce la produzione di strutture autogestite delle quali – come si diceva – ci occuperemo.
Rimane il fatto che la definizione di qualsiasi modello progettuale o altre metodologie per qualsiasi città e/o altri contesti non avrà nessun valore in assenza di una valorizzazione del territorio periurbano, di un’efficace comprensione delle potenzialità dell’agricoltura di prossimità e del riconoscimento vero e proprio che questa pratica essenziale ha quale strumento di pianificazione per le periferie.

Ricerca e/o illusione della genuinità e della qualità

L’acquisizione della consapevolezza dell’importanza di valorizzare l’agricoltura di prossimità, come frutto di una corretta gestione del territorio non può prescindere dalla consapevolezza che il volume della sua produzione è tale da non costituire un’alternativa alla produzione agricola industriale e diffusa sul territorio, destinata ad alimentare la grande distribuzione e i mercati ortofrutticoli (ma il discorso vale anche per la pesca e/o l’allevamento e gli altri settori connessi).
Occorre evitare di ricadere nella tentazione di emulare i contadini elvetici che nei 2018 promossero in referendum “Per la sovranità alimentare. L’agricoltura riguarda noi tutti” che raccolse il 38 %, chiedendo di inserire un nuovo articolo nella Costituzione allo scopo di promuovere l’agricoltura dei piccoli contadini, responsabile in primo luogo
dell’approvvigionamento locale della popolazione e di perseguire questo obiettivo mediante interventi statali sul mercato di ampia portata. Per la verità i contadini svizzeri proponevano anche che le derrate alimentari e i prodotti agricoli importati dovessero, per principio, rispettare le norme sociali ed ecologiche della Svizzera. L’impiego di organismi ogm avrebbe dovuto essere vietato. Significativa, inoltre, la richiesta che venissero adottate misure per “preservare le superfici coltivabili”, garantire “la trasparenza del mercato”, favorire “la fissazione di prezzi equi” e rafforzare “gli scambi
commerciali diretti tra contadini e consumatori”, favorire “l’aumento della popolazione attiva nell’agricoltura e la varietà delle strutture” e che si prestasse “particolare attenzione alle condizioni di lavoro dei salariati agricoli”.
Bisogna rendersi conto che l’agricoltura di prossimità, pur consentendo un impiego di manodopera, un ritmo di lavoro più umano, un potenziale rispetto delle tecniche più sane e biologiche di coltivazione, non sfugge al generale inquinamento dell’ambiente, del territorio, dell’aria e, quindi, forse attenua, ma non risolve, i guasti e i danni apportati
all’alimentazione da un’agricoltura industrializzata e intensiva che usa diserbanti e pesticidi, come anche da una zootecnia che ricorre ad antibiotici e a metodi di allevamento inumano delle specie animali.

A mò di parziale conclusione

L’agricoltura periurbana anche nella sua versione capitalistica e padronale rappresenta una complessa articolazione di attività inerenti la produzione di alimenti, la pesca e la silvicoltura, che si sviluppano ai margini della città sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo e, pur avendo caratteri propri e spesso innovativi, diversi da
quelli dell’agricoltura rurale, segue logiche di mercato, elabora modelli economici e sociali più creativi, derivanti dalla trasformazione del mondo rurale tradizionale, ma soprattutto dalla prossimità della città. Ciò malgrado, non può considerarsi il modello produttivo alternativo alla produzione su scala industriale sia sotto il profilo del volume della produzione che delle garanzie di modalità di lavoro o la realizzazione di quote di reddito ottimali.
Non vi è dubbio, tuttavia, che l’indebolimento dei margini fra rurale e urbano nelle grandi città è ormai diventato un fenomeno di carattere universale e ha generato l’utilizzazione per nuove funzioni degli spazi periurbani che inducono a collocare le interazioni tra campagna e città nella prospettiva di meccanismi validi per l’organizzazione territoriale delle aree rurali periurbane di tipo nuovo. Le potenzialità delle pratiche agricole svolte in queste aree sono condizionate dall’ambiente urbano e della sua continua espansione e comunque non possono costituire un’alternativa che ci permetta di fare a meno dell’agricoltura su scala industriale che alimenta il sistema di approvvigionamento dei mercati, necessario a soddisfare le richieste della grande massa dei consumatori. Perciò è essenziale che si provveda a un trattamento dignitoso
sia dal punto di vista salariale che sociale del godimento dei diritti da parte di questa componente del proletariato intervenendo sulle sue condizioni di lavoro e di vita che caratterizzano questo segmento produttivo.

Ci ostiniamo a cercar di capire, ad indagare e ragionare offrendo con modestia il nostro contributo alla maturazione di una coscienza collettiva e di una consapevolezza che ha tuttavia bisogno di operare nel concreto dell’intervento politico.
Ecco perché queste riflessioni non sono rivolte solo all’area comunista anarchica o anarchica del movimento di classe, ma anche ai marxisti non dogmatici e a quanti, intervenendo sui problemi concreti dei proletari, mettono in atto un intervento politico su posizioni di classe ed hanno bisogno di appropriarsi criticamente di conoscenze per applicare alla loro azione un moltiplicatore, una valenza che, se carente di prospettive, diviene sterile.
Di queste compagne e di questi compagni noi oggi, come sempre, siamo al servizio, disponibili a cogliere ogni richiesta, ogni domanda di riflessione, a fornire quel retroterra che può essere utile a rinforzare e motivare l’intervento politico: questo senza alcuna pretesa di assumere un ruolo di guida e di direzione politica, ma desiderosi soltanto di svolgere la funzione di memoria storica.

[1]Da notare che il Lazio è la seconda Regione italiana per numero di migranti. In diversi comuni della provincia romana, spesso di piccola dimensione, la loro incidenza supera anche il 20%. Dopo Roma, l’unico comune con più di 10.000 residenti stranieri è Guidonia Montecelio (10.954), cui seguono Fiumicino (8.994) e, con presenze tra i 7.600 e i 5.900 residenti, Ladispoli, Pomezia, Tivoli, Anzio, Ardea e Fonte Nuova.
[2] La schiavitù in Italia. La questione bracciantile, Crescita Politica N 147, giugno 2021; Agricoltura, lavoro emigrazione, Crescita Politica N 148, giugno 2021