Perù: un Presidente campesino

Il 6 giugno il Perù ha eletto al secondo turno un Presidente indio e campesino che aveva come slogan elettorale “no más pobres en un país rico“ (non più poveri in un paese ricco). Si è trattato di una vittoria di stretta misura sulla candidata di destra Keiko Fujimori, figlia del dittatore che ha governato il paese negli ultimi 10 anni del secolo scorso, seminando repressione morte e povertà. Il Presidente Pedro Castillo è esponente di Perù Libre, partito marxista-leninista-mariateguista (da José Carlos Mariategui, il Gramsci peruviano morto nel 1930) che alle elezioni parlamentari del gennaio 2020 aveva raccolto appena il 3,4 % e i sondaggi preelettorali gli attribuivano il 4%. Il fatto è che Castillo rispecchia il punto di vista predominante fra le popolazioni indigene delle Ande e i sondaggisti e gli opinionisti politici le popolazioni indigene manco le vedono. La campagna e le zone rurali e povere del paese hanno votato contro le città e il Presidente eletto ha ottenuto il 53,23 % dei voti.
Castillo è di sinistra, ma è anche un “conservatore sociale”: è contrario alla legalizzazione dell’aborto e del matrimonio fra persone dello stesso sesso, all’inserimento della prospettiva di genere nei curricula scolastici, all’eutanasia, ma si propone di combattere senza quartiere la corruzione politico-amministrativa e la criminalità comune; è contro l’immigrazione incontrollata, soprattutto di quella proveniente dal Venezuela che ritiene legata alla criminalità comune. Ma quel che conta è che Carillo vuole rinegoziare i contratti con le multinazionali che sfruttano le risorse
minerarie del paese, prospettando a quelle che non dovessero accettare la nazionalizzazione.

Il Perù

Il paese ha più di 31 milioni di abitanti e alti tassi di natalità (20‰ nel 2012) accompagnati comunque da bassi tassi di mortalità (5,3‰ nel 2012), che rendono di fatto quella peruviana una popolazione giovane: circa il 30% ha meno di 15 anni. La metà della popolazione è costituita da indios, che abitano le alte terre, seguiti dai meticci (31,9%), che popolano prevalentemente i centri costieri, dai creoli (12%), che rappresentano l’élite del Paese e vivono nelle città, e da piccole minoranze di neri o mulatti stanziati nelle zone costiere. Gli indios sono in prevalenza quechua (47%), meno numerosa è la componente ayamarà (5,4%); meno importante che in altri paesi il peso degli immigrati dall’Europa o da Cina e Giappone Per limitare il numero della popolazione india il governo Fujimori dal 1990 al 2000 fece sterilizzare forzatamente più di 300.000 donne a 150000 uomini appartenenti alla popolazione india. Si comprende perciò perché la parte più debole della popolazione teme la legalizzazione dell’aborto e l’introduzione dell’eutanasia che potrebbero essere strumenti per un controllo selettivo della popolazione. Inoltre in Perù come ovunque in America Latina si sono diffusi i culti evangelicali fondamentalisti e nemmeno la famiglia del Presidente ne è immune, la moglie appartiene ad una di queste Chiese e il Presidente, dopo aver coltivato le stesse simpatie, è tornato nella Chiesa cattolica.
È significativo che a sostenere la “modernizzazione” del paese siano le compagnie petrolifere che da anni sfruttano i giacimenti presenti nelle regioni settentrionali del Paese e che additano le comunità indigene che si battono per la salvaguardia delle antiche tradizioni locali come nemiche del progresso sociale e dei “diritti umani”. Non da meno fanno le compagnie minerarie.
Al blocco costituito da queste forze che trovano la loro roccaforte nelle città (la sola Lima ha 10 milioni di abitanti, un terzo del paese), ma che sono circondate da immense favelas si contrappone le popolazione rurale che ha sostenuto compatta Castillo.

La crisi istituzionale

Le ultime elezioni sono arrivate al termine di una crisi istituzionale assai complessa per essere ricostruita nei suoi vari passaggi. Valga comunque sapere che i tentativi dell’ex Presidente Fujimori e del suo partito di riprendere il potere non sono mai cessati; infatti e non a caso il paese è giunto alle elezioni con l’ex dittatore ormai 81 enne sostituito dalla figlia in rappresentanza del blocco di destra
Ha vinto Castillo contro ogni previsione dei media perché molto conosciuto nel paese. Già dirigente di un sindacato della scuola che nel 2017, aveva animato un interminabile sciopero (dal 15 giugno al 2 settembre) dei maestri e delle maestre che dal sud era risalito al nord, lasciando per quasi 80 giorni senza lezioni 3 milioni e mezzo di studenti. Il Governo era stato costretto a concessioni salariali e organizzative relative alla gestione del sistema scolastico. Le origini di Castillo sono umili: terzo di nove fratelli è nato in un villaggio della provincia di Chota, nella regione settentrionale della Cajamarca, la regione nella quale fu sconfitto e ucciso dal colonialista Pizzarro l’ultimo imperatore inca Atahualpa.
Nell’iconografia popolare Castillo mette in scena una sorta di rivalsa, rappresenta la reincarnazione delle radici profonde del popolo. Benché in possesso di un master in Psicologia educativa, per 24 anni ha insegnato in una scuola elementare indigena e si spostava esclusivamente a cavallo, la testa protetta dal sombrero bianco che indossa sempre. caratteristico della regione.
Da giovane ha partecipato alle “ronde campesine”, organizzazioni paramilitari che negli anni Ottanta proteggevano le comunità locali dalla delinquenza e dalle infiltrazioni di Sendero Luminoso, formazione guerrigliera degenerata in organizzazione di trafficanti di stupefacenti.

Il programma di Castillo

Il programma politico con cui Castillo si è presentato al voto, è tipicamente di sinistra radicale. Prevede sul piano istituzionale che la Corte costituzionale venga “disattivata” e ricostruita con nuovi membri eletti direttamente dai cittadini e che venga convocata un’Assemblea costituente per approvare una nuova Costituzione che attribuisca maggiori compiti allo Stato in economia e rafforzi la stabilità dell’esecutivo e dell’istituzione presidenziale visto che attualmente per dimetterlo dall’incarico basta un voto a maggioranza semplice del Parlamento.
Lo Stato dovrebbe essere «interventista, pianificatore, innovatore, imprenditore e redistributore», per poter realizzare la transizione all’ «economia popolare di mercato», caratterizzata dalla finalizzazione sociale delle risorse e più equi rapporti di scambio. La ripartizione dei profitti, derivante dalle risorse minerarie del paese, è il principale obiettivo del Governo. Il paese oltre ad essere il più grande produttore mondiale di rame detiene il primato nell’America Meridionale per il piombo, il rame, lo zinco lo stagno e l’argento, di cui il Paese è il primo estrattore al mondo.
Quest’ultimo, con cui piombo e zinco sono spesso associati, ha il principale giacimento a Cerro de Pasco; l’oro riveste minore importanza rispetto a un tempo, anche se il Perú resta il sesto Paese al mondo per quantità estratte, 2006. Ha tuttora una buona consistenza l’estrazione del ferro, presente nel Perú meridionale, a Marcona e ad Acarí. Dal sottosuolo peruviano si ricavano anche vanadio, molibdeno, antimonio e tungsteno, ricercati per la metallurgia degli acciai speciali, nonché vari minerali non metallici, come i fosfati; nel 1984 sono stati rinvenuti giacimenti di uranio. Tra i minerali energetici è presente, in quantitativi modestissimi, il carbone, mentre una discreta consistenza ha il petrolio, i cui giacimenti sono situati nel Nord del Paese, sia sulla costa (Lobitos, Zorritos ecc.), sia nell’area amazzonica (Corrientes, Maquia ecc.). Nel 1977 è stato ultimato l’oleodotto transandino, di 852 km, che collega i giacimenti di Corrientes con la
costa, dove è in funzione dal 1982 il grande complesso petrolchimico di Bayovar, sulla baia di Sechura. Nella zona di Aguaytia, infine, è stato rinvenuto un esteso giacimento di gas naturale, di cui è già in atto un discreto sfruttamento. Il Perú può anche contare sull’ingentissimo potenziale idroelettrico dei suoi ricchi fiumi, che scendono dalla Sierra e sulla produzione di farina di pesce del quale è il maggior esportatore mondiale, essenziale per l’allevamento zootecnico. L’entità dell’enorme flusso di risorse finanziarie che può derivare da tutto ciò dovrà essere rinegoziato con le imprese minerarie straniere. Se non si arriverà a un accordo, ha avvertito Catillo, vi potranno essere delle
nazionalizzazioni di imprese che «non intendano accettare le nuove condizioni». La quota del Pil destinata all’educazione dovrà passare dal 3,5 al 10 per cento e anche quella per l’agricoltura dovrà essere sensibilmente aumentata. Dovrà essere stimolata la messa a disposizione della terra per i contadini e fortemente incrementata l’agricoltura. Una politica tutta a favore degli indio.

L’assedio delle multinazionali e i nemici di Castillo

Malgrado la sua grande popolarità tra i diseredati Castillo rischia molto. Per trovare dei nemici non ha che da scegliere: già la sua vittoria di stretta misura la dice lunga sulla forza dell’opposizione di destra. Se le pressioni del Suo Governo sulle multinazionali si faranno pesanti un’alleanza tra queste e la borghesia nazionale, i proprietari terrieri e la
classe media sarà inevitabile . Inoltre c’è la pressione del milione circa di rifugiati  venezuelani che, in fuga da Maduro nel loro paese ,si vedono potenzialmente perseguitati anche in Perù dove peraltro sono già mal sopportati e potrebbero essere utilizzati come truppe mercenarie al servizio della destra.
In nuovo Governo dovrà dunque operare con accortezza e gradualità e non è certo che l’impetuoso Castillo riuscirà a farcela; potrebbe tentare di stabilire un asse con il Venezuela e con il Cile che si sta aprendo a una maggiore democrazia, dopo la recente modifica della Costituzione che ha finalmente abrogato quella voluta da Pinochet. Ma la vera partita degli equilibri latino americani si gioca in Brasile. Questo paese che è il gigante del Continente è devastato dal Covid; la politica negazionista di Bolzonaro sta convincendo anche la destra più riottosa ed estremista che il prezzo pagato dal paese a causa di un Presidente fanatico ed ottuso è troppo alto: la morte per Covid non fa distinzione e il paese non ha più, da tempo, spazio per seppellire i morti. Inoltre il proscioglimento di Lula da ogni accusa lo rimette in campo per le elezioni politiche ormai prossime: se il Brasile cambiasse rotta anche il Perù avrebbe maggiore libertà di manovra e per l’America Latina potrebbe aprirsi una nuova era.
Ma cosa farà l’America di Biden: la sua politica interna è progressista e per la riduzione delle diseguaglianze ma in politica estera i Democratici hanno sempre applicato lo slogan “l’America agli americani” e quindo espulso ogni presenza minimamente ostile dal Continente. Tuttavia ora la sua amministrazione è interessata a contenere il flusso
migratorio verso gli Stati Uniti e per farlo non vi è che una strada : migliorare le condizioni di vita dei poveri nei loro paesi e indurli a restare. Si tratta di contrastare quella politica di rapina delle multinazionali delle quali Biden vorrebbe limitare i profitti attraverso l’aumento della tassazione al minimo del 15%. Per questi complessi motivi sarà importante vedere come si posiziona l’amministrazione Nord americana.
Nello scenario latino americano, dunque, il futuro è incerto, ma aperto alla speranza.

La Redazione