L’insostenibile pesantezza del “sostenibile”

Ormai tutto è “sostenibile”, dai lacci delle scarpe agli stuzzicadenti, dai fazzoletti di carta ai palloni per il calcio. La parola è divenuta un passepartout per ogni prodotto immesso sul mercato, in modo da accrescerne l’appetibilità per il consumatore; una colossale operazione di greewashing. Ma essa è anche la parola che maggiormente ricorre nelle molte pagine del PNRR, seguita a breve distanza da “resilienza”. Ma è poi così ecologico il progetto del Governo Draghi o in esso si nascondono delle trappole? La “transizione ecologica” prevista nelle prime missioni del documento, garantisce, al di là dei facili proclami sul futuro migliore, davvero un avvenire meno incerto, meno rischioso
per la nostra sopravvivenza?

Più elettricità per tutti

Il piano individua erroneamente i gas climalteranti tout court con l’anidride carbonica (CO2). I cosiddetti gas serra sono vari e su di essi e sul loro impatto sul cambiamento climatico sarà opportuno tornare. Resta ovviamente il fatto che il biossido di carbonio è uno di essi e che esso origina anche da attività antropiche. Le celle ad idrogeno sono una fonte di energia che non genera gas serra su di esse c’è nel PNRR un interessante capitolo, non si comprende però perché al momento esse siano in previsione utilizzate solo per i treni e per i camion; si ricordi che il primo motore ad idrogeno risale al 1807, ben prima che fosse sviluppato quell’aborto energetico che è il motore a scoppio per soddisfare gli investimenti dei Rothschild e dei Rockfeller.
La cosa che non torna, perché scientificamente inesatta, è quella di puntare molto sullo sviluppo dell’utilizzo massiccio dell’energia elettrica, quale “fonte sostenibile”. In effetti per il PNRR l’energia elettrica dovrebbe trovare maggiore impiego nelle linee ferroviarie, quelle non elettrificabili cui è riservato l’uso dell’idrogeno, nei consumi privati, nelle auto elettriche da incentivare e così via. Nella seconda metà del secolo scorso c’è stato un paese che ha puntato sul “tutto elettrico” abbinato al “tutto nucleare” (e quest’ultima tipologia di produzione dell’energia elettrica non sembra dispiacere troppo al Ministro per la transizione ecologica Cingolani): la Francia. Non sembra che i fatti le abbiano dato ragione.
Propongo un breve ripasso per i “tecnici” del Governo, in primis per il fisico Roberto Cingolani:
· il mininucleare (motori per navi e sottomarini), che la Francia (guarda che combinazione) vorrebbe fosse riconosciuto come “green”, soffre degli stessi problemi del nucleare adulto: scorie radioattive da smaltire, impianti per l’arricchimento dell’uranio, uso militare e potenziale grave inquinamento in caso di incidente; nessuno l’ha mai utilizzato per produrre energia elettrica a scopi civili;
· l’energia elettrica è una forma di energia molto versatile e pertanto pregiata; non esiste in natura, se non in forme infinitesimali, e va prodotta; per produrla o si ricorre al calore, che comporta una grande spreco dell’input energetico (60-70%) ed emissione massiccia di CO2, oppure si sfruttano energie rinnovabili (per lo più di origine solare). Nel secondo caso gli sprechi non ci sono e neppure le emissioni, ma si va incontro ad altri inconvenienti, ovviamente di minor peso (cambiamenti microclimatici nel caso dell’idroelettrico, utilizzo di superfici sfruttabili per l’agricoltura nel caso dei pannelli solari, massiccio utilizzo di prodotti tecnologici dipendenti da materie prime strategiche nel caso delle pale eoliche, possibile produzione di terremoti nel caso del geotermico, etc.);
· il maggior fabbisogno di energia di un paese si concretizza in calore; non ha quindi senso produrre energia elettrica per poi convertirla in calore: pensare alle pompe di calore per gli ambienti è energeticamente un nonsenso.
Da quanto detto discende che l’uso dell’energia elettrica va limitato agli utilizzi indispensabili, che in un paese normale si aggirano intorno al 10% del fabbisogno totale. Questo senza dimenticare che l’enfasi sulla “mobilità sostenibile”, che per il trasporto individuale e per quello pubblico si concretizza nelle auto e negli autobus elettrici (su cui vedi http://www.ucadi.org/2019/02/01/illusione-elettrica/) con i relativi problemi correlati alla produzione di batterie; queste necessitano di materie prime che sono quasi un monopolio cinese (le due maggiori aziende al mondo che le producono sono appunto cinesi) ed è patetico il tentativo di puntare ad una produzione autocratica, utilizzando i materiali ottenuti dal riciclo dei RAEE. Una goccia nel mare. C’è da chiedersi quando i compratori si renderanno conto che per fare un lungo viaggio con la loro vettura elettrica dovranno fermarsi al massimo ogni 450-500 km per più di mezz’ora per operare la ricarica del veicolo, nella speranza che sia efficiente e ramificata la rete dei distributori, sul cui sfruttamento già si appuntano occhi famelici.

Il biometano

La promozione del biometano a risorsa energetica green è ben più di una mistificazione, è vero è proprio sviamento delle informazioni. Anche in questo caso è opportuno fare un quadro esaustivo delle verità scientifiche, su cui si richiama ancora una volta l’attenzione del fisico Roberto Cingolani, Ministro della Transizione Ecologica. Come detto in premessa, si ricorda che per il momento si prende per buona la teoria più seguita che l’effetto serra sia originato in prevalenza, o per la quasi totalità, dall’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera.
· L’utilizzo della parola biometano è funzionale alla distinzione di esso dal metano fossile; ora la combustione del metano, sia quello prodotto dalle biomasse che quello estratto dai giacimenti (CH4), ossia la sua combinazione esotermica con l’ossigeno (O2) produce vapore acqueo e biossido di carbonio, entrambi gas serra.
· Il metano fossile è quasi totalmente privo di biossido di carbonio, mentre il biometano, ottenuto dalla digestione anaerobica di rifiuti organici fa parte di un gas che ne contiene oltre il 20%; d’altronde è ben noto che la fermentazione dei liquami produce CO2, come dimostrano gli allevamenti intensivi di animali; è vero che questa quota di biossido di carbonio viene separata dal metano per aumentarne l’efficienza energetica, ma essa viene smaltita in aria (quello che si evita di immettere nell’atmosfera non facendo fermentare all’aperto le biomasse, ma facendole digerire da reattori anaerobici, in gran parte ritorna nell’aria con questa separazione del gas ottenuto).
· Il vantaggio del biometano è la facilità con cui viene prodotto e la facile reperibilità della materia prima (che è la causa dei cattivi odori che provengono dagli impianti); ciò evita di dover ricorrere alle importazioni del metano fossile da paesi la cui affidabilità di approvvigionamento non è massima (Russia, Algeria, etc.) e l’Italia è uno dei maggiori importatori.
· Resta il fatto che se si vuole diminuire la produzione di anidride carbonica, come il PNRR dichiara ripetutamente di volere, non è certo il ricorso al biometano o al metano fossile con cui si può raggiungere questo obiettivo.

Piccole perle

Il documento in esame offre, qua e là, affermazioni curiose e talvolta inquietanti, di cui fornisco alcuni esempi:
· “Per l’Italia caratterizzata da […] un’economia orientata all’export”: sfugge agli estensori che questa prevalenza vero le esportazioni è uno dei talloni d’Achille della struttura produttiva, che espone il paese eccessivamente alle fluttuazioni del mercato globale e che questa situazione andrebbe equilibrata da un’energica rivitalizzazione del mercato interno.
· “… incentivi all’aggregazione delle imprese turistiche”: il settore del turismo dovrebbe vivere grazie allo sbocciare di mille piccoli fiori, mentre nella costruzione di grandi imprese si distinguono catene alberghiere con capitali esteri e il riciclaggio dei proventi criminali delle associazioni mafiose.
· “Per fare quanto si prevede (la consapevolezza su temi e sfide ambientali) […] iii) coinvolgere influencer e leader di pensiero”; i ferragnez funzionari dello Stato!
· “L’Italia […] con le migliori università in materie STEM […] sconta, al contempo, un evidente fallimento di mercato in termini di trasferimento della ricerca scientifica in brevetti e business innovativi”: le affermazioni stanno lì, giustapposte senza alcun tentativo per correlarle; si potrebbe avanzare l’ipotesi, ad esempio, che i nostri brillanti ricercatori trovino migliori e più remunerative occasioni di impiego all’estero, visto che il paese è uno di quelli che meno investono in ricerca e che molti ricercatori italiani
siano tra i più citati al mondo, peccato che lavorino in altri paesi.

Saverio Craparo