serie II, n. 21, aprile 2013
Austerity – Stefano Feltri su “Il Fatto quotidiano” del 19 aprile 2013 ha pubblicato un articolo nel quale riferisce il fatto che uno dei recenti pilastri teorici della “messa in ordine dei conti dello Stato” è stato demolito da una tesi di laurea. Più precisamente tre anni fa due economisti, di Harvard, Rogoff e Reinhart, pubblicarono un articolo in cui si dimostrava, “dati alla mano”, che i paesi con in conti in ordine avevano avuto dal 1945 al 2009 una crescita economica più alta; ed esattamente del 4,1% medio i paesi con un debito pubblico inferiore 30% del PIL, del 2,8% quelli con un debito tra il 30 ed il
90% e del -0,1% quelli con debito superiore al 90%. Questi dati sono stati sbandierati come la riprova che i vari Monti sparsi per il mondo facevano il bene delle loro nazioni comprimendo i consumi per diminuire i debiti sovrani.
Peccato che in tempi molto più recenti uno studente, Heredon, nel compilare le propria tesi di laurea ha rifatto i conti ed ha scoperto che i dati erano semplicemente sbagliati e che il terzo gruppo di paesi esaminati avevano avuto una crescita del 2,2% in media, paragonabile a quella del secondo gruppo. L’articolista ne ricava che se la differenza di crescita è così risicata, la politica del rigore non trova adeguata giustificazione. La conclusione mi pare affrettata, ma la critica da fare al lavoro originario è ben più profonda. Prima di tutto vediamo perché la conclusione non è condivisibile e poi
analizziamo i lati critici del ragionamento dei due economisti di Harvard e con essi di tutta la scuola economica che imperversa da anni, facendo solo danni.
Seppure apparentemente piccola, la differenza di crescita dello 0,6% annuo ha effetti rilevanti se proiettata su 64 anni; fa infatti un differenziale del 45,77%, non così trascurabile. Resta poi il fatto che i paesi del primo gruppo sono cresciuti circa il doppio di quelli del terzo con un effetto sui soliti 64 anni pari al 227,32%, decisamente non trascurabile.
Ma, come detto, le critiche all’articolo del 2009 sono ben più dirimenti. Prima di tutto i due esimi economisti si sono giustificati sostenendo che l’errore era dovuto ad un mal funzionamento di Excel; scusa miserrima, che rileva come spesso i dati cosiddetti scientifici siano truccati e volti a dimostrare tesi precostituite e come sia invalsa l’abitudine di non controllare i conti dei lavori “scientifici”; un caso analogo è stato scoperto recentemente nei conti sul riscaldamento globale del pianeta (vedi questo “Osservatorio” serie II, n° 2 del febbraio 2010). Ma il punto fondamentale è un
altro.
Il lavoro di Rogoff e Reinhart non ha nulla di scientifico e vediamo perché. Il
raggruppamento dei paesi sul puro dato del debito pubblico non è per nulla significativo e quindi non può essere preso per base a dimostrazione di nulla. Una correlazione tra dati (entità del debito sovrano e tasso di crescita economica nel caso in esame) non si dimostra costruendo arbitrariamente dei gruppi tagliati senza alcuna giustificazione (30%, dal 30 al 00% e oltre il 90%, chissà perché non altri livelli) e misurando in essi l’altra variabile. Da un punto di vista correttamente scientifico una correlazione si
dimostra come segue: per ogni paese si considera il tasso di crescita medio e l’indebitamento medio e si cerca quale sia la curva che meglio si avvicina ai dati di tutti i paesi. Nel caso in esame se esiste una correlazione si dovrebbero vedere in un grafico cartesiano, con le due variabili in ascissa ed ordinata, una serie di punti che scendono dall’asse in cui si riporta la crescita vero l’asse in cui si riporta il debito crescente, collocandosi vicino ad una retta se la dipendenza è lineare, vicino ad una parabola se la crescita diminuisce più rapidamente all’aumentare del debito o approssimando una curva logaritmica (per esempio) se la di munizione della crescita è meno violenta dell’aumento del debito.
Esiste poi un parametro facilmente calcolabile, detto standard deviation, che, una volta
individuata la curva, ci dice se essa è una buona approssimazione ai dati oppure se ciò non avviene, ed esso quindi ci fornisce l’informazione se la correlazione tra i due parametri esiste oppure essa è talmente lasca da non essere scientificamente accettabile. Tutto ciò nel lavoro dei professionisti di Harvard manca e quindi si può dire che ciò che si intendeva dimostrare in realtà era già in parte contenuto nei presupposti della dimostrazione: un circolo vizioso.
Ma c’è di più. I gruppi così costruiti dei paesi, non solo erano arbitrariamente sezionati su parametri non giustificati in alcun modo, ma erano anche disomogenei al loro interno. Cioè a dire erano messi insieme paesi solo in base al livello del loro debito pubblico e di essi si è andati a valutare il tasso di crescita, presupponendo, come detto, che esso dipendesse solo dal debito. Ma i paesi erano e sono diversi per struttura produttiva, per professionalizzatone della manodopera, per struttura sociale, per attitudine al risparmio ed al consumo, per consistenza finanziaria, per disponibilità di materie prime, per composizione e tipologia dei consumi energetici, per livelli e modalità di tassazione, per sistemi giuridici, per consistenza delle infrastrutture, per livelli di partenza, per relazioni sindacali, per strutturazione politica, per l’accesso al credito, per stratificazione storica di abitudini, per clima, per ore lavorative pro capite, per quantità di giorni lavorativi, per sviluppo tecnologico, per propensione all’innovazione, per il rigoglio della ricerca scientifica, per i sistemi scolastici e via dicendo.
Come semplificazione tanto ardite, come quelle proposte nell’articolo di Rogoff e Reinhart possano essere assunte a paradigma di lavoro scientifico e propagandate come verità (per di più clamorosamente errate) su cui basare le politiche economiche delle nazioni e con le quali tacitare coloro che osano proporre vie diverse, la dice lunga sulla miseria in cui versa la “scienza economica” al giorno d’oggi.
Bilancia commerciale – Dal mese di gennaio la bilancia commerciale italiana è in attivo di 2,6 mld di €. Il dato non deve consolare perché risulta da una forte diminuzione delle importazioni a fronte di una consistente diminuzione delle esportazione, quest’ultima però più contenuta. I due risultati sono entrambi allarmanti. Il primo, l’import, segnala la diminuzione ai consumi del paese, e siccome riguarda anche i beni strumentali segnala anche il calo delle propensione ad investire per produrre.
Il secondo, l’export, è generalizzato e è effetto del diffondersi della crisi. Anche gli USA importano meno (-28,6% nel trimestre) e cosi i cosiddetti paesi in crescita, i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) hanno rallentato le loro importazione del nostro paese, esclusa la Russia in cui le importazioni dall’Italia sono cresciute del 9,3%. (Fonte: “Il Sole 24 ore”, a. 149, n° 111, del 24 aprile 2013, p. 39).
chiuso il 24 aprile 2013
saveri