Un Grillo qualunque

Per fare un’analisi dello sconvolgimento elettorale del 24 e 25 febbraio 2013 senza ricadere nei luoghi comuni che infestano i giornali e tutti i mass media in questi giorni occorre tenere bene sott’occhi i dati effettivi. Eccoli quindi questi ripetuti assiomi apparentemente incontrovertibili.

Il miracolo di mister B. Sicuramente è incontrovertibile che l’omino di Arcore sia una grande imbonitore e venditore di cibi avariati. Alcuni effetti sono del tutto evidenti. Primo tra tutti il fatto che il PdL fosse a dicembre un partito al collasso e che sotto la guida dell’ectoplasma Angelino non avrebbe certo superato il 14%, se pure non si sarebbe frantumato in mille pezzi; il suo irrompere nella campagna elettorale col rituale bagaglio dell’illusionista esperto ha permesso di ricostruire il fronte della destra, estremamente improbabile solo venti giorni prima, e di ricondurre all’ovile una buona parte dei delusi rifugiatisi nel non voto. In secondo luogo ha permesso il raggiungimento di un risultato elettorale sulla soglia del 30%, considerato di gran lunga fuori portata allo scadere del 2012, ma che a fine gennaio era già prevedibile; il che comprova che tre settimane prima del voto l’effetto IMU e sua restituzione aveva già esaurito le proprie potenzialità.
Il risultato ottenuto dalle urne è eclatante solo se riferito alla situazione che la destra viveva nel mondo magico dei sondaggi negli ultimi due anni, ma un’osservazione più attenta cambia le carte in tavola.
L’andamento dei risultati elettorali berlusconiani degli ultimi quattro turni di elezioni politiche è il seguente: 41,4% nel 2001, 36,4% nel 2006, 37,4% nel 2008 e 21,6% ora; negli ultimi cinque anni il partito ha lasciato sul terreno più del 42% del proprio elettorato e circa la metà di quello di dodici anni prima. Non c’è che dire un risultato esaltante e di cui menare vanto! Ma, si dirà, lo scopo del signore dei miraggi era quello di smontare la prevista vittoria del cosiddetto centrosinistra ottenendo la maggioranza al Senato, lasciando ad esso il controllo della Camera, grazie alla legge suina pensata per fermare con lo stesso meccanismo la prevista vittoria di Prodi nel 2006. In realtà il gruppo maggioritario al Senato è risultato quello bersaniano con 123 senato contro i 117 del cosiddetto centrodestra. Ciò è potuto avvenire non solo in virtù della succitata legge, ma grazie soprattutto all’inatteso successo dei grilli parlanti che hanno collezionato 54 seggi; un M5S che si fosse fermato sul 15% probabilmente, anche se conti precisi è difficili farli dato l’infernale meccanismo escogitato da Calderoli,
avrebbe consentito la presenza di una pattuglia di liberisti moderati (moderati politicamente e liberisti convinti economicamente) più prossima alla maggioranza assoluta.

La nuova Lega. Gli scandali, che ne hanno evidenziato la somiglianza con tutti gli altri partiti, della Lega Nord si sono riverberati in un crollo dei suoi consensi di oltre il 50% (dall’8,3% del 2008 al 4,08%). L’accordo in extremis con il PdL ha provocato l’ultima emorragia, anche se ha permesso al neosegretario di giungere alla Presidenza della regione Lombardia; obiettivo raggiunto, ha chiosato Maroni, perché ora il partito controlla le tre grandi regioni del Nord: Lombardia, Piemonte e Veneto. Il prezzo pagato è però altissimo, visto che i più vistosi cali elettorali si sono registrati nella roccaforte veneta, considerata inespugnabile ed anche il successo meneghino è frutto di un 43,3% dei suffragi (contro il 38% di Ambrosoli), ben lontano dagli smaglianti 60% di
Formigoni. È difficile credere che queste posizioni di comando, costruite tutte su di un terreno elettorale ormai fragile e sul supporto maggioritario di un partito ormai alla frutta (se non verrà resuscitato dall’insulsaggine dell’apparato del PD, auspice l’ineffabile Presidente della Repubblica) possano di per sé garantire un futuro di successi.

Un centro mesto, sobrio e triste. Sull’esperienza elettorale del professore bocconiano c’è poco da dire, anche perché la disfatta è talmente evidente che quello che si dice dovunque questa volta non è un luogo comune, ma la pura e semplice verità. Una campagna elettorale tutta sbagliata, in cui la prosopopea dell’illustre scempiaggine ha prodotto il peggio di sé (battute insulse e fuori luogo, contraddizioni continue, negazione in campagna elettorale delle proprie scelte di governo spacciate come esatte e prive di alternative solo poche settimane prima) è sfociata in un’autentica Caporetto. D’altra parte Monti atrofizza ciò che tocca. L’UDC, che fino a poco tempo fa era accreditata del 6%, dopo un anno di appoggio acritico al “Governo tecnico” ha rimediato un misero 1,8%. FLI, già in crollo verticale per le scelte sbagliate di Fini nell’arco degli ultimi due
anni, è letteralmente scomparsa (0,4%). Montezemolo ha portato il suo voto e quello di Giulia Sofia.

Dalle stelle alle stalle. Il vero sconfitto di oggi è il PD di Bersani. Lui ed i suoi mentori politici, cioè i vecchi pescecani di apparato, hanno come al solito fallito l’obiettivo per inseguire ciecamente un copione rivelatosi fallimentare già più e più volte. Due le idee fisse di un partito immobile: negare qualsiasi presenza alla propria sinistra ed inseguire il voto dei centristi nella convinzione che le elezioni si vincano sfondando al centro. Sulla prima torneremo in seguito. La seconda è la vera ossessione di D’Alema, che controlla pur sempre l’apparato. Non importa la considerazione che i “moderati” si cercano sempre altri sponsor diversi da quelli che Berlusconi chiama, non senza un buon motivo elettorale anche se senza alcun riscontro con la realtà, eredi camuffati del comunismo sovietico. Non importa che ormai da oltre un decennio gli USA insegnino che le elezioni si vincono mobilitando le ali dello schieramento; così ha fatto per due volte Bush e per due volte Obama (ed è grottesco che il guru statunitense sia venuto a forgiare la campagna elettorale di Monti, consigliandoli di essere aggressivo e trasformandolo in un coniglio con le zanne).
È così che il partito si è presentato all’elettorato come il più timido tra coloro che volevano rivedere la famosa “agenda Monti”, finendo per addossarsene le maggiori responsabilità; una sensazione rafforzata dall’ossessiva reiterazione della proposta di collaborazione postelettorale al supertecnico, come detto inviso ai più. Nell’arco di poche settimane la volpe del Tavoliere e le altre faine hanno sperperato un vantaggio storico, regalando voti alla protesta grillesca, per finire sostanzialmente appaiati alla coalizione concorrente e sorpassati per voti al partito dal M5S. Il problema non è che, come ha detto Bersani, loro sono arrivati primi senza vincere, il problema è che ancora una volta hanno scelto di non vincere per la continua e tenace incapacità di prendere posizioni decise, che è frutto delle anime non amalgamate del partito che lo strattonano verso direzioni diverse. Si dice che con Renzi il risultato sarebbe stato diverso, perché Berlusconi non si sarebbe presentato e Monti non sarebbe stato evocato come futuro alleato. Ammettiamolo! Questo però non tiene conto che vincere serve solo ad occupare posti, ma ciò che è rilevante è quale politica si persegue; se Berlusconi non deve incubeggiare perché qualcun altro fa il suo lavoro od addirittura fa di peggio, questo non sembra un gran successo.

La sinistra che non c’è. Il fronte della sinistra propriamente socialdemocratica è andato diviso e perdente alla competizione elettorale. SEL ha scelto di entrare nel nuovo esecutivo sacrificando a questo scopo la propria alternatività. È rifluita sui livelli del 2008, dopo una lunga stagione di consensi crescenti fino al doppio di quanto allora ottenuto. È forte l’impressione che essa abbia risucchiato i voti di Rivoluzione Civile, penalizzata dall’ostracismo del PD (ancorato alle favole della responsabilità dell’estrema sinistra nella cadute dei governi Prodi) e dalla martellante campagna del voto utile; per cui gli elettori orientati a sinistra hanno votato SEL per non disperdere il voto (levatrice la campagna mediatica sulla pericolosa crescita di Berlusconi e complici i
sondaggi che davano in costante calo la lista di Ingroia dall’originario 5% attribuitole); gli elettori potenziali di SEL sono fuggiti verso altri canali di protesta alternativi, come il Grillo rampante.

Il vincitore da corteggiare. Loacker Napolitaner era proprio sordo: l’anno scorso non aveva avvertito alcun boom del movimento 5 stelle in crescita lussureggiante. Ora il frastuono è stato enorme ed anche lui l’ha dovuto avvertire. L’astuto abitatore del Colle sta già meditando vie di fuga dall’odiato comico genovese che, ricalcando obsolete alchimie politiche, segnerebbero la definitiva fine dei partiti tradizionali e il successo totale del grillismo. Parte del gruppo dirigente del PD, però, sta iniziando un corteggiamento circospetto dei nuovi  venuti, studiati come corpi estranei agli antichi equilibri. L’uomo del momento, il vincitore incontestato delle elezioni, ha però dei problemi che non sono stati sufficientemente analizzati. Primo fra tutti quello di risolvere
la contraddizione tra la propria diversità conclamata e la necessità di fare scelte parlamentari sotto gli occhi di tutti e non nell’oscurità della rete; senza il loro apporto un governo non può nascere nella nuova configurazione parlamentare. Lo schema siciliano non è replicabile in Parlamento, non si può attendere il Governo alla prova
dei provvedimenti legislativi, perché se il Governo dell’isola esiste già per virtù elettorale, quello nazionale può nascere solo da un voto di fiducia delle Camere, quindi questo atto deve essere fatto sulla base di un programma di lavoro e non sui singoli interventi. Concedere la fiducia vuol dire fare una scelta di campo fortemente negata
in campagna elettorale, non concederla vuol dire consegnare il paese ad una nuova tornata elettorale. È vero che questa seconda ipotesi potrebbe comportare un successo dello stesso movimento molto al di sopra dell’attuale.
Però questo comporterebbe un’assunzione diretta di responsabilità politica la cui gestione risulterebbe altamente problematica per il ristretto vertice del movimento.
E qui veniamo al secondo problema. Il lusinghiero risultato elettorale ottenuto è stato, probabilmente, al di sopra delle più rosee previsioni e con esso il gruppo di neoparlamentari è divenuto molto consistente. Gli eletti non hanno alcun terreno comune e vengono, quando ne hanno, da provenienze politiche grandemente distanti;
un gruppo di una quarantina di eletti avrebbe consentito meno responsabilità ed una gestione semplificata, che poteva pur sempre prevedere alcune defezioni nel tempo. Centocinquanta persone senza storia comune prevederà divergenze infinite sui passi da intraprendere ed il governo di questa babele per via informatica rischia di essere troppo labile per risultare efficace. Paradossalmente il successo elettorale può comportare una precoce ingovernabilità del processo di formazione della strategia parlamentare ed una non lontana frantumazione del gruppo in rivoli diversi. La parabola di Grillo appare simile a quella subita a suo tempo dall’ “Uomo Qualunque” di Giannini che dopo un successo elettorale inatteso, basato su parole d’ordine di facile consumo, fu seguito da una rapido decadere del movimento ed una sua totale scomparsa.

Saverio Craparo