Partiti senza ritorno

Si legge molto bene e velocemente l’ultimo bel saggio di Marco Revelli[1]. Questo non va certo a detrimento di un testo importante, da discutere e, forse, anche discutibile. Un lavoro, comunque, che sembrerebbe lasciare il segno in questa fase davvero intorpidita (per non dir peggio) della nostra storia.
Certo è che, fin dal titolo, si comprende bene quale sia l’idea che permea il saggio: “Finale di partito”.
Bisogna precisare che, anche se viviamo in tempi dalla memoria cortissima, questo libro non esce dal nulla nel percorso del sociologo torinese.
Voglio ricordare che ben dodici anni fa si accese un feroce dibattito su un’opera dello stesso autore che, forse (o sicuramente) non era stata letta in maniera approfondita accendendo invece schieramenti, per così dire istintivi, in una parte della “sinistra” italiana. Anche quel lavoro si caratterizzava per una intitolazione chiara e provocatoria: “Oltre il Novecento”[2]
Lo scontro che ne seguì[3] arrivò fino a portare ad accusare lo stesso Revelli di essere un revisionista[4] al pari dei peggiori epigoni di questa categoria, tanto che l’autore dovette inviare egli stesso una lettera di precisazione al quotidiano dove era iniziata la querelle[5].
Non è certo il caso qui di ripercorrere il filo rosso di quel dibattito, ma solo sottolineare, che, oggi, l’opera di Revelli esce senza quasi discussioni (almeno per ora) e anche se essa ne producesse in futuro, dubito che assomiglierebbero solo lontanamente a quelle di oltre un decennio fa.
In “Oltre il Novecento” Revelli prendeva di petto il tema delle costruzioni novecentesche che avevano segnato quel secolo: la fabbrica, lo stato-nazione, il lavoro, il partito, insomma tutta la costruzione “razionale” su cui si è retto lo scontro fra capitalismo ed i suoi oppositori (portatori, alla fine di una visione del mondo molto simile). Le prendeva di petto dichiarandone la dipartita e la necessità del definitivo distacco.
Tuttavia, “finale di partito” (che si muove certamente nei terreni della politologia e della sociologia certamente più consoni all’autore) è molto più radicale e dirompente.
Perché, quindi, non produce gli stessi effetti di allora? Non voglio qui anticipare risposte o atteggiarmi da cassandra o profeta, per cui lascio volentieri la risposta a chi avrà voglia di scandagliare.
Torno quindi all’ultima fatica del nostro Revelli. La crisi dei partiti per l’autore è definitiva e senza via d’uscita. Perlomeno dentro a quelle strutture, la cui crisi egli fa risalire agli anni ’80, quando si approfondisce il distacco fra rappresentanti e rappresentati. L’autore dedica un intero capitolo ad una interessante disamina del politologo novecentesco Michels e in particolare al suo La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia: saggio
sociologico[6] dove è già illustrata in maniera positivistica e deterministica, la deriva dei partiti (non dimenticando che Michels aderì poi al fascismo).
Ma la sua analisi si fa ancora più interessante nelle parti in cui lega il rapporto fra partiti e strutture produttive e analizza la similitudine delle trasformazioni del capitalismo (dal fordismo al toyotismo) con quelle degli attuali partiti.
Molto profondi e originali sono anche alcune sue interpretazioni rispetto ad eventi recentissimi, come, ad esempio, la partecipazione di massa alle primarie del PD, che è stata veicolata dai media e dal partito interessato come prova del ritorno dei cittadini alla politica e alla passione per i partiti. A parte, aggiungo io, che deporre una scheda nell’urna apponendo il nome “x” o “y” non può essere certo scambiato per partecipazione (magari è il suo contrario), per Revelli le primarie sono state un fenomeno prevalentemente “mediatico”, cartina al tornasole della crisi irreversibile dei partiti. Il Renzi rottamatore è stato votato quindi anche da quelli che sarebbero suoi “naturali” avversari perché l’apparato è diventato indigeribile e i voti di un partito che non c’è più (liquido) si distribuiscono e riassettano a seconda delle diverse opportunità[7].
Tuttavia l’esempio delle primarie serve, nell’economia dell’opera (è posta nel capitolo finale) per suggellare la parabola discendente dei partiti, e in questo i numeri del declino che Revelli illustra, la vera fuga dei militanti e iscritti, davvero non lascia molto spazio ad interpretazioni. Soprattutto se li confrontiamo con l’abnorme e mostruosa crescita del costo degli apparati di partito. Quasi una forma schizofrenica di difesa di
strutture novecentesche in un mondo che cambia e che si cerca di rincorrere.
L’apparato che necessita di tali risorse non ha nulla a che vedere con il partito novecentesco. A fronte di un partito liquido si staglia l’assoluta e totale estraneità dei componenti rispetto alle vite “normali” : privilegi, benefits, stipendi fuori da ogni controllo fanno sì che ormai il partito sia qualcosa di totalmente al di fuori della esperienza comune.
Questo, secondo Revelli, scatena un odio e un rancore da parte degli “esclusi” che porta ad una visione della democrazia come qualcosa da controllare e non da condividere (la trasparenza come unica arma da usare contro i “privilegi”). Ma anche ad azioni di difesa di “beni comuni” (es. la lotta contro la Tav o il referendum sull’acqua ) sulle quali, una lettura “partitica” sarebbe oltremodo fuorviante.
Interessante in tal senso soprattutto l’analisi del referendum sull’acqua, scambiato nel dibattito mediatico come una vittoria “della sinistra” con una visione del tutto fuorviante rispetto al suo vero significato. [8]
Il libro, pur breve e scorrevole è molto denso e non è certo qui possibile riassumerlo o anche solo farne una sintesi.
Quello che Revelli ci lascia è un dubbio su cosa accadrà in un prossimo futuro, se potrà esservi un legame fra movimenti e partiti (ridotti, secondo l’autore a macchine strumentali) oppure se questi ultimi declineranno definitivamente dalla parte del mondo dominato dalla finanza (quello che Gallino ha chiamato finanzcapitalismo).
Il libro è stato scritto a fine 2012, l’esplosione del caso MPS, la crescita di Grillo in maniera esponenziale, la ricomparsa di Berlusconi, non lasciano certo ben sperare né sulla salute dei partiti né, probabilmente, su quella della nostra fragile e zoppa democrazia.
A meno che, davvero, questa non si sia ormai ridotta, come cantava Gaber qualche decennio fa, all’inebriante “potere” di apporre una scheda dell’urna. Magari con l’addebito sul nostro c.c. delle spese per la matita.

[1] M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, 2013.
[2] M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, 2001
[3] E che occupò principalmente le pagine del “Manifesto” quasi senza interruzione nel febbraio e nel marzo del 2001.
[4] Pintor definì il testo come l’opera più anticomunista che egli avesse letto.
[5] Vedi ad esempio http://www.storiaxxisecolo.it/Resistenza/revisionismo/resistenza9f.htm.                                                                                                                [6] Una primissima traccia su Michels, http://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Michels
[7] Magari qui Revelli si dimentica di annotare che Renzi è una costruzione sì mediatica ma di poteri forti, veri, presenti e tutt’altro che virtuali.
[8] Significative sono le posizioni del PD, ricordate nel volume, rispetto alla privatizzazione dell’acqua.

Andrea Bellucci