La chiamavano “antipolitica”

Il coro è unanime: “le liste del movimento cinque stelle (i grillini) hanno ottenuto un risultato inatteso, molto al di sopra delle aspettative! Ha vinto il sentimento antisistema, che si affianca alla crescita dell’astensione.” E tutti ad interrogarsi come arginare una deriva di contestazione alla politica in quanto tale. Ovviamente viene trascurato il
dato fondamentale. Il merito del successo non è di Grillo, ma il demerito è di tutti gli altri. A far finta di non capire è solo re Giorgio!
L’antipolitica non è rappresentata da coloro che non sono andati a votare o hanno depositato nell’urna scheda bianca, oppure infine hanno espresso un voto che si dissocia dai noti partiti.
Di antipolitica, quella vera, abbiamo vissuto per un ventennio. Il periodo è stato contrassegnato da un leader di cartapesta e da un’opposizione sedicente tale, da un Presidente della repubblica complice colluso (ricordatevi il mese di tempo dato a Berlusconi per fare acquisto di voti un anno e mezzo fa!).
I due schieramenti elettorali che si sono affrontati per molte tornate, con l’aspirazione di polarizzare totalmente l’opinione pubblica, si sono sempre presentati con programmi le cui distinzioni si potevano intravedere solo attraverso un potente microscopio. Le differenze percettibili erano solo relative ai “comportamenti morali”, anche quelli poi rivelatisi tutt’altro che macroscopiche. Le ideologie, si diceva, sono morte; sono solo foriere di irrigidimenti pericolosamente risolventisi in dittature. In un mondo bigio, privo di colori, concentrato su battaglie verbali e di immagine, ma privo di contrasti veri di prospettive, è cresciuto il declino della partecipazione politica, quella passione che aveva animato il trentennio precedente. Chi ha costruito l’“antipolitica”?
Una classe dirigente mediocre, attraversata da continui scandali legati ad arricchimenti personali, incapace di intravedere una qualsiasi cambio di passo possibile, impermeabile ad ogni rinnovamento, sorda al discredito crescente, si è arroccata su posizioni queste sì ideologiche nel senso deteriore del termine (bipolarismo, rappresentanza bloccata, taglio delle posizioni divergenti), non fornendo alcuno spiraglio per riottenere la fiducia dissipata. Chi ha costruito l’“antipolitica”?
Anni di miope subalternità al feticcio europeo (un Europa costruita sul trattato di Maastricht, primo vero baluardo internazionale del neoliberismo), si sono susseguite nel segno di una compressione dei diritti dei lavoratori, di decremento del valore di acquisto dei salari, della destrutturazione dei rapporti di lavoro, del dilagare dei lavori precari. Il sistema pensionistico ha subito negli ultimi venti anni una decina di riforme e di ritocchi, tutti peggiorativi. Tutto ciò nel segno di un risanamento del bilancio dello Stato, presentato come prioritario ed imprescindibile, per altro mai raggiunto. Chi ha costruito l’“antipolitica”?
Di fronte allo sfascio ormai manifesto, questa stessa classe politica non ha trovato di meglio che ritirarsi dietro le quinte per far posto ad una di facciata, apparentemente più presentabile, ma di fatto ancor più determinata a perseguire una politica di rigore economico, con un furore che può solo pervenire da una fede assoluta e cieca nella ricetta monetarista. Un rigore eccessivo, controproducente, fondato su assiomi economici non dimostrati e indimostrabili, che continua a premiare il sistema finanziario, penalizzando le classi meno abbienti e condannando ai limite dell’indigenza quelli che furono i ceti medi. E tutto ciò con l’assenso, il supporto ed il lasciapassare dei soliti e tristemente noti partiti di sempre. Chi ha costruito l’“antipolitica”?
Beneficiamo di una Capo dello Stato che a fine 2010 ha inopinatamente, come sopra ricordato, regalato ad un Berlusconi in piena apnea, un mese di tempo prezioso per riorganizzare le proprie file in rotta e comprare quella manciata di voti parlamentari che gli hanno permesso di galleggiare per un anno, per nulla fare e stare a guardare il tracollo dell’economia. Non pago di questa performance Loacker Napolitaner ha scelto il suo successore a palazzo Chigi, nominandolo senatore a vita prima di consultare, come di prammatica i partiti, mettendoli di fronte al fatto compiuto, con grande garbo istituzionale. Ha poi difeso Monti in tutti i passaggi del suo governo, incurante delle nefandezze in atto, facendosi attore interprete invece che arbitro super partes, come vorrebbe il suo ruolo. Finendo di poi con trattare sprezzantemente forze politiche che gli sono invise (Grillo mi piaceva molto come comico, ma lo ritengo impresentabile come politico, ma ciò non toglie che il Capo dello Stato non può permettersi questi atteggiamenti), mancando così di rispetto a più di mezzo milione di elettori. Chi ha costruito l’“antipolitica”?
Veniamo ai dati, anche se è difficile in elezioni amministrative, come queste, fare raffronti omogenei, se non sminuzzando l’analisi in una disanima dei risultati, località per località. Nonostante ciò delle indicazioni di massima si possono ricavare, come quella patente della crescita da tutti prima sottostimata del movimento “cinque stelle”. Da questa, comunque, una prima considerazione riguarda i sondaggi preelettorali, che hanno fallito tutte le previsioni, a parte la forte tendenza all’astensione: sono stati sovrastimati tutti i partiti maggiori e fortemente sottostimati quelli che non rientravano nell’arco delle istituzioni, con scarti tra previsioni e risultati veramente abissali.
Un’altra riflessione di carattere generale concerne il contesto europeo: anche in Italia si è manifestata un forte insofferenza nei confronti delle politiche di rigore economico, penalizzando ovunque i partiti che se ne sono fatti portatori. Questo rifiuto palese di farsi carico di una crisi, generata da coloro che ora ne stanno lucrando, ha assunto connotati diversificati paese per paese, in relazione ai diversi contesti. Se dovessimo
parafrasare i giornali di qualche anno fa, potremmo dire che in Europa si fa strada un’onda di sinistra, ma questa sarebbe una conclusione superficiale, come lo è l’enfatizzazione relativa ai successi riportati dai movimenti di estrema destra in alcuni paesi: sia l’una che l’altra affermazione ascriverebbe a quanto sta succedendo un sostrato di coscienza politica, che non pare invece, purtroppo, colorare di speranza o di
disperazione quella che di fondo è soltanto una protesta che una vera forza di sinistra dovrebbe saper incanalare; la storia ci insegna che laddove la sinistra non riuscisse in questo compito, potrebbero riapparire spettri che si pensavano relegati al passato.
La disfatta del PdL è così evidente che non merita neppure parlarne (-16% rispetto a solo due anni fa e un calo del 25% rispetto alle politiche del 2008); circa due elettori su tre hanno abbandonato Berlusconi nell’arco di questa legislatura). Anche la Lega paga pesantemente gli scandali che ne hanno sfigurata l’immagine di movimento contrario ai giochi di palazzo e fuori dai vizi diffusi nella classe politica. La vittoria di Tosi a Verona, unico successo cui si attacca Maroni per esclamare un mesto “non siamo morti”, è frutto solo dell’insediamento forte del sindaco in una città da una radicata tradizione di destra e quindi un successo personale che non ha soverchie possibilità di fungere da esempio trainante.
Ma se la destra ha tutti i motivi per piangere non è dato capire cosa abbia da rallegrarsi il PD, che ha lasciato sul terreno un consistente 8,6% dal 2010, che non è compensato dall’aumento dei sindaci eletti e probabilmente futuri eletti nei ballottaggi, frutto non della buona salute del partito, ma solo della disfatta dell’avversario tradizionale. A riprova che l’abbraccio di Monti si sta rivelando esiziale per tutti coloro che l’appoggiano si staglia lo stallo del centro, che guadagna qualche inaspettato ballottaggio solo grazie alla dissoluzione della destra e che non ha caso ha deciso di sciogliersi. Casini non ha più nemmeno il terzo pollo da attentare!
In questo quadro non si è registrato neppure il presunto sfondamento di Sel che fa registrare un modesto aumento, mentre anche l’IdV di Di Pietro arretra, invece di avanzare, se si esclude l’anomalia palermitana dove ha giocato l’inattendibilità del candidato di sinistra, uscito dalle primarie con un voto evidentemente inquinato. I loro deludenti risultati vanno ascritti alla cosiddetta “foto di Vasto”, che ha reso poco credibili le loro battaglie contro la politica economica del governo Monti, rese opache dall’alleanza con il PD. Un po’ meglio del previsto, da quanto si può intuire dalla presentazione frammentaria dei risultati, ne è uscita la Federazione della Sinistra, che dove si è presentata ha raggiunto percentuali vicine a quelle di Sel, mentre i sondaggi accreditavano a quest’ultima uno scarto del 4% rispetto ai superstiti comunisti. Nulla di paragonabile a quanto successo in Francia ed in Grecia, a riprova che il vento anticapitalistico soffia ancora debole in Italia.
Esso può rinascere solo da un ciclo intenso di lotte, che ridia alla classe una nuova fiducia nelle possibilità di una società diversa, dove non solo la finanza non abbia più lo strapotere odierno, ma in cui l’assetto capitalistico sia ribaltato dalle fondamenta.
Una chiara indicazione quindi per noi a rafforzare l’intervento nel sindacato e sui posti di lavoro, a lavorare nel sociale per far capire che l’alternativa è ancora possibile e che le ragioni della lotta di classe ci sono tutte.

Saverio Craparo