Lo Stato della crisi

La crisi economica in atto sta mettendo a dura prova il ruolo dello Stato e sta contribuendo a sollevare quel velo d’ipocrisia costituzionale e politica che lo ha sempre protetto. E’ sotto gli occhi di tutti che il Parlamento e gli eletti sono stati esautorati, che è stato nominato un Governo del Presidente formato da cosiddetti “tecnici” che sono il personale politico del capitale. Benché la dissoluzione della rappresentanza “democratica” sia sotto gli occhi di tutti molti continuano a parlare di neutralità dello Stato. Intendono con ciò riferirsi alla necessità di una posizione “terza” dei suoi organi rispetto a conflitti di interesse tra diversi centri di potere e nei confronti di altre forze che si muovono e agiscono nelle società come i grandi gruppi d’interesse, le confessioni religiose, i raggruppamenti politici, ecc. Altri lo vedono depositario di beni pubblici e collettivi attraverso il suo patrimonio, stabilendo una identificazione tra statale e pubblico (inteso come di tutti). Altri ancora vedono lo Stato nella sua funzione di erogatore di servizi alla persona, certamente utili quali la sanità, la scuola, ecc.. Vi è poi chi lo vede come gestore di servizi pubblici capace di garantirne una migliore efficienza
ed efficacia nel senso che un’amministrazione di essi attraverso l’apparato dello Stato dovrebbe e potrebbe assicurare che la gestione di tali servizi non divenga occasione di accumulazione di profitto e che anzi i frutti di una oculata amministrazione si risolvano in un miglioramento in efficacia e efficienza del servizio medesimo. E si potrebbe continuare …
La crisi ha messo invece in evidenza il ruolo dello Stato di gestore del sistema economico, di garante dell’accumulazione capitalistica, spacciata per bene collettivo, di vassallo delle banche e del sistema finanziario, d’imprenditore esso stesso che opera sul mercato, non solo della finanza e del credito, ma anche su quello dell’industria e della produzione di beni, che gestisce strutture produttive non necessariamente strategiche per il paese.
Questi suoi compiti e questi ruoli sono così importanti e essenziali che si è consentito che emergesse con estrema chiarezza la fragilità e l’inconsistenza del sistema politico e l’estrema superficialità dell’affermazione che la “sovranità appartiene al popolo, che la esercita [eserciterebbe] nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione”. E’ crollato insomma il velo, impudicamente trattenuto, dell’autoritarismo dello Stato e dell’inconsistenza del sistema democratico borghese, tutt’altro che rappresentativo, tutt’altro che elettivo.

Lo Stato: un comitato d’affari

Una volta si sarebbe detto che il re è nudo. Oggi più semplicemente diciamo che il sistema elettorale non è garanzia di democrazia e di partecipazione, che l’edificio costruito dalla borghesia e supportato dalle oligarchie, dalla finanza e dai comitati di affari è uscito allo scoperto e ha preso direttamente in mano la gestione dello spazio e dei territori nei quali esercita il suo potere senza bisogno di ricorrere a infingimenti e
menzogne. Lo Stato si rivela per quello che è: il comitato di affari delle classi dominanti o meglio di quell’1 % che a livello mondiale possiede il 99% della ricchezza e che se la divide nei singoli Stati a seconda dei rapporti di forze che si determinano nel territorio nel quale si opera. Come si spiegherebbe altrimenti una struttura del mercato capitalistico nel quale opera la speculazione finanziaria, nel quale l’effettivo possesso delle strutture produttive è divenuto elemento secondario rispetto ai fattori che concorrono al profitto?
Si dirà che questo meccanismo era ben noto da tempo non solo a Marx ma anche agli economisti liberali, i quali hanno ben descritto i processi di finanziarizzazione dell’economia e ne hanno denunciato limiti e pericoli. Ma ben sappiamo anche dell’abilità del capitalismo e della sua capacità di distruttore di merci e di persone per consentire la ripresa dell’accumulazione e il rilancio del sistema economico. Quel che c’è di nuovo è che non sembra essere necessaria la guerra per distruggere le capacità produttive, ridistribuire le quote di mercato e far ripartire l’accumulazione, ma si può raggiungere lo stesso risultato depredando i popoli, distruggendo le risorse primarie oltre ogni limite, imponendo attraverso il mercato la desertificazione di alcune aree produttive a vantaggio di altre in un gioco di redistribuzione costante dello sfruttamento e dei fattori di accumulazione dei profitto. Alle periferie del mercato capitalistico domina ancora la guerra tanto che mai come ora tante guerre “locali” costellano le diverse parti del globo.
Malgrado che lo scenario sia quello descritto ancor più oggi la caduta tendenziale del saggio di profitto come limite e fine dello sviluppo capitalistico diviene una chimera. E la speranza che con lo sviluppo massimo dell’accumulazione e della concentrazione il capitalismo si autodistruggerà è di la da venire. Noi, da laici e non millenaristi, non crediamo nel giudizio universale e siamo altresì convinti che il progressivo processo di concentrazione capitalistica non porterà necessariamente al suo crollo e alla sua distruzione.
La rivoluzione necessaria per distruggere questo sistema di rapina e di sfruttamento o verrà grazie all’iniziativa degli sfruttati che prenderanno nelle mani il loro destino e in una guerra di classe affermeranno la prevalenza dei bisogni collettivi su quelli individuali e specifici del capitalismo, oppure, semplicemente, non verrà.

Un’alternativa è possibile

Secoli di lotte anticapitalistiche hanno fatto crescere anche le capacità politiche delle classi sfruttate, la consapevolezza della globalità dello sfruttamento, la convinzione che il crescente sfruttamento dei beni non ripristinabili pone l’umanità nella prospettiva di una graduale e inarrestabile distruzione delle risorse che consentono le possibilità di vita. Da questa consapevolezza prendono le mosse non solo i recenti movimenti
come Occupy Wall Street che sono figli di una progressiva elaborazione che nasce dai movimenti no global e dalla sedimentazione di tante esperienze di lotta come quelle condotte dall’anarchismo in tutto il mondo, ma anche la risistemazione teorica di alcuni elementi di analisi che ci aiutano a capire il presente e a progettare il futuro.
I popoli in lotta hanno capito che gli interessi della borghesia (e del capitalismo), in assenza di un controllo popolare e senza che la dialettica dello scontro di classe eserciti una costante vigilanza destrutturante, rinascono all’interno del Partito “rivoluzionario”, anche quando questo si dichiara espressione del proletariato.
Perciò sono ben capaci di comprendere il ruolo profondamente capitalistico del sistema produttivo cinese e quindi sono state in grado di rifiutare qualsiasi ruolo guida riconosciuto a una delle esperienze rivoluzionarie del novecento. Positivamente privi di modelli, oggi i proletari di tutto il mondo, uniti nella miseria, riconoscono l’esistenza di beni comuni dei quali bisogna a tutti i costi impedire la distruzione e che vanno riconquistati, sottraendoli alla gestione capitalistica.

Le lotte per i beni comuni

Dunque non più beni pubblici ma beni comuni che hanno natura materiale e immateriale: alla prima categoria appartengono quei beni che non possono essere distrutti perché non reintegrabili, non ripristinabili. La distruzione dell’aria, la privatizzazione dell’acqua, la distruzione dell’ambiente, il saccheggio della terra, delle
colture, della diversità biologica, lo sfruttamento senza limiti delle risorse minerarie, a quant’altro distrugge il pianeta, sono inaccettabili in quanto recidono alla radice qualsiasi possibilità di vita e perciò non devono essere lasciati nella disponibilità del mercato; vanno anzi sottratti al mercato e considerati beni comuni.
Vi sono poi quei beni comuni costituiti nei secoli dal lavoro e dallo sviluppo delle conoscenze dell’umanità quali le opere d’arte, il patrimonio culturale e artistico, quelle strutture di vita che consentono agli esseri umani un rapporto equilibrato con la natura come la conservazione delle specie animali e vegetali, la vigilanza sulla biodiversità e contro la standardizzazione produttiva delle culture, insomma una grande attenzione per la terra, i suoi prodotti, le esigenze di un equilibrio idrogeologico dei territori e poi ancora la scienza, la cultura, la poesia, la musica.
Solo dopo aver provveduto a mettere in salvo questo catalogo di beni comuni e tenendo conto dello spazio ridisegnato a disposizione dell’umanità si potrà procedere a progettare un nuovo sistema produttivo che dovrà crescere, rompendo la crisalide costituita dall’attuale sistema di sfruttamento per cominciare a costruire un mondo nuovo.

I beni comuni immateriali

Ma perché questo processo si compia è necessario trarre le conseguenze dalle esperienze di lotta fin qui condotte, fare un bilancio e capire che non c’è alcuna possibilità di vittoria senza un’attenta riflessione sui metodi d’intervento, sulle strategie politiche, sulla natura delle relazioni che devono tenere insieme questo gigantesco processo di trasformazione, che in quanto frutto di un rapporto dialettico tra realtà e utopia, è fatto di una tensione continua tra ciò che è e ciò che vogliamo debba essere.
Assumono allora estrema importanza il modus operandi e quindi il ruolo della partecipazione collettiva a questo processo e le modalità con le quali essa avviene.
Abbiamo imparato che non esiste un partito guida che possa dirigere questo processo e che là dove esistesse dovremmo immediatamente distruggerlo, perché la sua funzione sarebbe antitetica al raggiungimento del fine. La sola possibilità che abbiamo è il sostegno e la partecipazione di tutti, attraverso un’assunzione diretta di responsabilità e il contributo dato alla progettazione della società futura e dei legami che devono intercorrere tra i diversi soggetti e le differenti entità territoriali. Vi è certamente una sfera personale intoccabile. nella quale si sviluppano bisogni ed esigenze di ognuno, ma i bisogni individuali devono abituarsi a convivere, anche qui attraverso un rapporto costante di confronto, con quelli collettivi, in un quadro di
compatibilità che non mortifichi le esigenze di ognuno.
Ciò è possibile costruendo una nuova democrazia politica imperniata sul rifiuto della delega, esercitato attraverso la riduzione al minimo della democrazia di mandato e la revoca della delega quando si dimostri il mancato rispetto degli impegni assunti, dall’assunzione diretta delle responsabilità, dalla giustizia dei comportamenti esercitata direttamente dalle strutture collettive di vita e non dai tribunali. I comportamenti
vengono vagliati dalla comunità la quale autogestisce le scelte relative all’utilizzazione dei beni comuni, all’organizzazione di ciò che è di tutti, alla distribuzione delle risorse all’accesso al lavoro, al mantenimento di un dignitoso livello di vita che tenga conto delle risorse disponibili.
Si dirà che una tale struttura di gestione della vita presuppone un alto livello di coscienza e ciò è vero, ma questa è la sfida che ci aspetta per il futuro. E’ per questa via che si realizza l’estinzione dello Stato!

Ridurre i danni

Ma che fare in attesa che tutto questo si realizzi. Da comunisti anarchici e da rivoluzionari ben sappiamo che esiste comunque una fase di transizione e che non è possibile realizzare la società che vogliamo dall’oggi al domani
Perciò qui, oggi, in Italia, cerchiamo di contenere i danni e di lottare, rifiutandoci di pagare i costi di una crisi che non ci appartiene. Da ciò consegue non solo aiutare a crescere quelle lotte che presentano i caratteri di autogestione, ma impegnarci a difendere i beni comuni e a impedire che il mercato se ne impossessi, che li continui a distruggere. Organizzarci inoltre per la difesa dei diritti minimi di vita e quindi per il rifiuto
dell’innalzamento dell’età pensionabile, per la difesa delle pensioni sociali, per un’assistenza sanitaria migliore, per una scuola e un’università al servizio della collettività, per una gestione del patrimonio pubblico in linea con le esigenze della collettività, per il diritto al lavoro e la difesa dei diritti e delle libertà.
Insomma cominciamo a discutere di un programma minimo da costruire e sul quale aggregare fin da subito le disponibilità all’impegno politico e sociale e alla lotta.

La Redazione