La nuova frontiera del capitalismo. Privatizzare i beni comuni

Nelle analisi circolate sulla stampa, anche di sinistra, il movimento Occupy Wall Street appare un fenomeno assolutamente spontaneo, una reazione “di pelle” alla profondità della crisi e alla macelleria sociale che caratterizza i provvedimenti di stampo monetarista adottati dai governi rispondendo agli input del Fondo Monetario, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
Non è cosi. Le mobilitazioni partite, e non a caso, dai paesi del Nord Africa e poi riprese in Spagna nel maggio e diffusesi via via in tutto il mondo, fino a colpire gli Stati Uniti, dove sembrano dover raggiungere il massimo d’intensità, hanno profonde radici strutturali e sono supportate da analisi approfondite dei processi di sviluppo dell’accumulazione capitalistica, sviluppatesi nel corso degli anni nell’ambito del movimento no global. Nelle sue assemblee, soprattutto in quelle svoltesi in America Latina, sono state messe sul piatto riflessioni e elaborazioni scaturite dall’approfondimento dello sfruttamento capitalistico dei popoli e dei territori del sud del mondo.
La domanda iniziale alla quale rispondere era costituita dalla necessità di comprendere perché lo sfruttamento delle aree povere del mondo diveniva sempre più d’importanza strategica per l’accumulazione capitalistica e il rilancio delle economie finanziarizzate dei paesi più sviluppati. Si è iniziato così a comprendere che, saturate le capacità di espansione delle economie manifatturiere dei paesi avanzati, trasferite attraverso il
decentramento produttivo interi cicli di produzione prevalentemente verso i paesi del cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e non solo, il capitalismo aveva bisogno di ripensare l’utilizzazione delle risorse a livello globale.

La riscoperta dei beni comuni

Si ritorna allora a quanto avvenuto durante la prima rivoluzione industriale nell’Inghilterra del XVII, quando scomparvero le terre comuni o comunitarie, i commons. Si trattava di terre che per diritto consuetudinario erano di uso collettivo delle popolazioni rurali che vennero progressivamente recintate e trasformate in proprietà privata con leggi apposite, le Enclosure Bills (leggi sulla recinzione). Da questa rapina
dei beni comuni i proprietari delle filande e il mercato acquisirono la possibilità dell’allevamento intensivo di pecore la cui lana era necessaria alla nascente industria tessile. In nome dello sviluppo si sviluppò un’offensiva ideologica contro l’uso condiviso della terra, a favore della libertà di trasformarla in bene commerciale. Se molta parte dei beni comuni scomparvero in Europa e gli usi civici che sopravvissero arrivarono a coprire una superficie relativamente limitata, forme di proprietà e uso collettivo restano molto diffusi nel Sud del mondo dove oggi le multinazionali, supportate dei governi locali vassalli, tendono sempre più a recintarli e privatizzarli, ampliando il numero dei beni e servizi da acquisire a quelli necessari alla sussistenza degli essere umani di tutto il mondo e al loro benessere collettivo.
L’economista premio Nobel Paul Samuelson ha stimato che all’utilizzazione dei beni pubblici possono accedere simultaneamente più individui, per cui a essi si applica il principio della non rivalità tra i diversi fruitori e, in quanto nessun individuo dovrebbe poter essere escluso dalla loro fruizione, il principio della non escludibilità, principi che tuttavia devono fare i conti con il vincolo costituito dalla scarsità del bene il cui esaurimento e il crescente numero di coloro che desiderano fruirne pongono problemi di gestione dell’accesso al loro godimento.
La soluzione razionale di questi problemi è stata trovata dalle comunità le quali sono riuscite a evitare i conflitti insolubili e a raggiungere accordi su un’utilizzazione sostenibile delle risorse comuni nel tempo tramite l’elaborazione d’istituzioni finalizzate alla loro gestione che decidono chi può utilizzarli e con quali modalità.
Schematizzando possiamo dire che le soluzioni prospettate rispondono a una suddivisione dei beni comuni in tre categorie:
Una prima categoria comprende: l’acqua, la terra, le foreste e la pesca, cioè quei beni di sussistenza da cui dipende la vita. Ciò è particolarmente importante nelle aree povere del mondo dove sono numerosi gli agricoltori, i pescatori e i nativi che vivono direttamente delle risorse naturali. Va sottolineato che non si tratta solo di beni materiali perché a questa categoria di beni comuni appartengono anche i saperi locali, i semi
selezionati nei secoli dalle popolazioni locali, il patrimonio genetico dell’uomo e di tutte le specie vegetali e animali, la biodiversità, insomma. Vanno altresì ricompresi in questo primo gruppo di beni comuni i diritti collettivi d’uso da parte di una determinata comunità, a godere dei frutti di quella specifica risorsa, diritti denominati usi civici. Anche in Europa e in Italia, contrariamente a quanto si crede, gli usi civici e le terre
collettive esistono ancora e nel nostro paese ricoprono ancora un sesto del territorio nazionale. Ciò che contraddistingue sia i beni comuni sia gli usi civici è la particolare forma giuridica comunitaria di proprietà e di gestione e che fa si che essi non siano dal punto di vista formale né pubblici né privati.
Una seconda categoria di beni comuni comprende quelli che definiremmo globali: l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace, ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva. Questi ultimi beni solo recentemente sono stati percepiti come beni
comuni globali perché sono entrati a far parte dei luoghi nei quali si ricostruisce e si ritrova la comunità. Per il ruolo che essi svolgono nel consentire il governo dei processi istituzionali e l’utilizzazione collettiva delle risorse essi sono oggetto di un attacco crescente delle strutture del capitalismo e vengono espropriati, ridotti a merce, recintati ed inquinati nei contenuti che diffondono e nelle convinzioni che generano mentre il libero accesso alla loro utilizzazione è sempre più minacciato.
Una terza categoria di beni comuni è quella dei servizi pubblici forniti dai governi in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini. Ci riferiamo all’erogazione dell’acqua, la produzione di energia e la sua distribuzione, compresa l’illuminazione, al sistema dei trasporti, alla sanità, alla sicurezza alimentare e sociale, ma anche all’amministrazione della giustizia. Si tratta di servizi strategici e risorse essenziali alle produzioni fortemente innovative e pertanto il capitale tenta in ogni modo di impossessarsene impedendone l’accesso universale per farne uno dei luoghi di sviluppo di una nuova accumulazione dei profitti legata al possesso in esclusiva dei beni e alla loro essenzialità.
Va ricordato che è stato stipulato il General Agreement on Trade on Services (GATS) Accordo Generale sul Commercio di Servizi, che consiste nell’accettazione di una serie di principi di applicazione generale e in impegni specifici relativi ai settori sui quali agire per imporre regole di mercato e di sfruttamento delle risorse. In particolare i principi generali del GATS regolano il processo di liberalizzazione progressiva, che passa
attraverso l’assunzione da parte degli stati membri di impegni specifici nel corso di negoziati ciclici sui diversi beni da ricondurre sotto la gestione e lo sfruttamento dei privati. Tali regole si estendono anche ad alcuni settori quali i trasporti aerei, le telecomunicazioni, i servizi finanziari e le persone fisiche.

La funzione strategica dell’acqua e il significato del voto referendario in Italia

L’Unione Europea, di concerto con la Banca mondiale, continua a imporre ai paesi in crisi liberalizzazioni e privatizzazioni dei beni comuni e utilizza questi beni come mezzi di scambio nei rapporti commerciali, come risulta dagli ultimi negoziati con i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) e MERCOSUR, mercato comune del sud America. E’ perciò perfettamente coerente la Banca Centrale Europea quando nella sua lettera all’Italia impone la privatizzazione dei servizi pubblici per immetterli sul mercato e farne occasione di profitto per le imprese camuffando questo intervento come finalizzato a ridurre il deficit statale. Si tratta invece di spostare la spesa per tali servizi dalla fiscalità generale ai bilanci di coloro che vivono sul territorio, conseguendo il doppio obiettivo di creare nuove occasioni di profitto e impossessarsi delle risorse.
Per questo motivo la lotta di Occupy Wall Street assume anche il significato di una riappropriazione dei servizi che assicurano, più che i beni comuni, il bene comune e cioè l’istruzione, la sanità, l’assistenza e la previdenza sociale, ma anche la conoscenza intesa come bene comune: i brevetti delle idee, il software in particolare, l’estensione del copyright ai contenuti digitali, contrastando le politiche che tendono a rendere reato
la condivisione delle conoscenze, delle formule chimiche e quindi i principi attivi dei farmaci e perfino il codice genetico, ovvero la cosiddetta biopirateria.
Al di là degli obiettivi dichiarati il grande merito dei referendum sull’acqua è quello di aver verificato la disponibilità della gran parte degli abitanti del territorio a battersi in difesa dei loro diritti in un settore in cui il bene che si vuole porre sul mercato è un bene indisponibile e inalienabile, legato com’è all’esercizio di elementari e irrinunciabili diritti della persona umana. Oltre all’opportunismo dei partiti italiani che, fiutato il vento, hanno cercato di cavalcare il referendum, quello che deve farci riflettere è lo strumento utilizzato dal movimento per intervenire, imponendo, anche contro gli orientamenti dei partiti, una scelta nella direzione di un’effettiva difesa degli spazi economici e di libertà. La vittoria referendaria è sottoposta oggi all’attacco dei partiti che rilanciano il progetto di privatizzazione dei beni pubblici non solo dismettendo il patrimonio pubblico ma anche riproponendo la privatizzazione delle aziende municipalizzate, comprese quelle che distribuiscono l’acqua.

La struttura orizzontale del movimento e i metodi di lotta

Alle lotte per la difesa dei beni comuni si accompagna un recupero da parte dei movimenti di lotta di modelli di compartecipazione e di decisione basati sulla democrazia diretta per tutti coloro che hanno diritto all’accesso aperto ai beni comuni, siano municipalità o gruppi e reti cittadine, soggetti singoli o collettivi.
Ritorna con forza il metodo libertario di lavoro politico e di partecipazione collettiva alla scelta degli obiettivi e delle strategie e tattiche di lotta utilizzate per difenderli. Non si tratta solamente del ricorso alla rete e agli strumenti di cui essa dispone ma anche della partecipazione fisica, diretta delle persone. L’occupazione di Zuccotti Park, l’abitudine di prendere possesso di piazze e trasformarle in luogo collettivo di organizzazione,
l’occupazione di un porto come a Oakland, scelto come obiettivo attraverso il quale far sentire il peso del movimento sull’economia sono la dimostrazione della non virtualità del movimento. L’utilizzazione dei metodi pacifici e non violenti, il ricorso alla disobbedienza civile hanno l’effetto di allargare la partecipazione e generalizzare le lotte. Sono perciò estremamente dannosi e da combattere i tentativi di radicalizzare lo scontro con la forza, le iniziative avanguardistiche le manifestazioni con “scontri e tutto”, nella convinzione che dal confronto militare con lo Stato possa nascere un contropotere capace di abbatterlo.
Contrariamente a quello che afferma Napolitano per uscire dalla crisi non occorre l’unità di tutte le forze politiche ma bisogna dichiarare la guerra politica ai piani della BCE, della Banca Mondiale e del Direttorio Europeo e ai suoi agenti in Italia, governo Berlusconi – Napolitano compreso, e ribadire che noi non siamo disposti a pagare la loro crisi e che occorre cambiare politica economica.
Tuttavia bisogna ricordare che lo scontro militare con lo Stato è sempre perdente e i processi di crescita dei movimenti sono l’aspetto più delicato della politica del comunismo anarchico in quanto i militanti della lotta di classe che in esso si riconoscono devono avere la capacità di restare nel movimento, crescere rispettando i livelli di acquisizione collettiva e soprattutto i tempi di mobilitazione propri delle disponibilità soggettive di coloro che sono in lotta. Non vi è dubbio, ad esempio, che l’inverno imporrà negli USA un ridimensionamento della presenza in piazza e allora bisognerà ricercare nuove e diverse forme di mobilitazione, approfondire e moltiplicare le iniziative e il coinvolgimento sugli obiettivi del movimento, raffinare gli strumenti di analisi e supportare dall’interno la crescita di coscienza collettiva, spostare i riflettori della mobilitazione verso altre aree del pianeta, avendo coscienza della dimensione internazionale dello scontro in atto.
Per i comunisti anarchici c’è la possibilità di offrire i loro strumenti di comunicazione, il dibattito interno delle loro organizzazioni come luogo di crescita delle conoscenze complessive, rendendo questo dibattito pubblico e aperto, accettando il confronto, costruendo insieme a tutto il movimento un progetto per una società alternativa e umana, un progetto che appare oggi possibile.

Gianni Cimbalo