Roma, 18 ottobre 2010. Quando i due cortei si sono sciolti per le strade tentando di confluire verso una irraggiungibile e insufficiente Pazza San Giovanni, incapace di contenerli, si è capito che la scommessa della FIOM aveva superato un primo scoglio. La partecipazione di massa, pacifica e consapevole con migliaia di persone che facevano didattica, spiegando ai figli e dicendosi fra di loro che esiste un valore inestinguibile, trasmissibile, reale: la lotta di classe. C’è in ognuno di noi donne e uomini, giovani e vecchi – e resterà – la voglia e disponibilità a lottare per i nostri diritti, per un mondo migliore per la liberazione dal bisogno, dalla povertà, e perché no, dalla schiavitù del lavoro salariato.
E già questo costituiva una sconfitta per il duopolio della comunicazione Rai-Mediaset perché venivano trasmessi, interiorizzati, grazie al contatto visivo, fisico, uditivo, grazie insomma ai nostri sensi un antidoto al velinismo, alla pornografia del delitto, alle case di grandi fratelli e sorelle, insomma a tutto quel ciarpame che il circo mediatico riversa su di noi.
Si dirà che la manifestazione per quanto partecipata ha un effetto immediato, che la mancata copertura dei media la sterilizza, che il giorno dopo è dimenticata. Ma se si percorre a ritroso il viaggio verso casa sui treni e sugli autobus, sulle navi e sulle auto ci si accorge che non è così e che le esperienze collettive sono fatte per essere narrate e per svolgere una necessaria e insostituibile funzione didattica.
Queste cose l’avversario di classe le capisce bene e perciò prova ad evocare il morto come il naziministro dell’interno o come il socialfascista Sacconi o come l’orribile e frustrato Brunetta che non sopporta di essere stato ciò che è stato: un craxiano. E perciò si odia.
Gli obiettivi della manifestazione
Ma quel numero non dichiarato con serietà – ed è un caso raro – certamente alto di persone che hanno partecipato alla manifestazione aveva un obiettivo politico interno, e lo ha raggiunto: unificare migranti e autoctoni, giovani e vecchi, gente del nord e del sud: e questo lo ha raggiunto.
Aveva un obiettivo politico interno alla CGIL: tirare la giacca al Segretario Generale uscente della Confederazione perché dichiarasse la disponibilità ad uno sciopero generale a fronte delle inadempienze del Governo, che inevitabilmente ci saranno. Obiettivo raggiunto appena: sciopero generale ha gridato la piazza ma non Epifani che ha sussurrato questa parola, sommerso dall’imbarazzo politico per non aver capito o voluto ascoltare le richieste che venivano dal mondo del lavoro devastato dalla crisi economica e dalle politiche di licenziamenti e tagli del padronato e nel Governo.
Il corteo per la sua composizione politica era una risposta ai sindacati collaborazionisti e filo-padronali – Cisl e Uil – i quali dichiaravano che quelli in piazza non erano operai. Certo non tutti, perché moltissimi il lavoro lo hanno perduto, perché essere precario per Cisl e Uil evidentemente non da diritto nemmeno a manifestare contro le ingiustizie siociali; perché la rappresentanza è quella assicurata dalle clientele, dalla complicità col padrone, dalla collateralità con il Governo.
Ma ancora il corteo era una risposta a Fiat e a tutto il padronato per dire che la lotta di classe è inestinguibile perché ha radici nelle condizioni materiali di vita e di lavoro, perché nasce dai rapporti di produzione tra capitale e lavoro, perché è un’esigenza umana di dignità e di aspirazione verso un mondo migliore, qui, oggi, sulla terra.
Il messaggio è arrivato
Alla manifestazione è seguito un silenzio assordante e per alcuni giorni tutti hanno taciuto meno il PD (si chiama ancora così?), il cui responsabile dell’economia era più arrabbiato dei padroni, ferito dalla solidarietà e dalle adesioni che i lavoratori avevano raccolto. A riprova che il riformismo è nella merda, in Italia come ovunque, tanto che se il consenso sociale verso i governi di destra diminuisce, ancor più cala quello verso chi
dovrebbe essere l’alternativa: l’opposizione parlamentare, appunto!
Chi ha invece orecchie attente è il capitale per bocca di Marchionne – compagno di pizzeria dell’amico Chiamparino – che dopo aver trangugiato una birretta è andato nel salotto buono della sinistra a dire a un Fabio Fazio che ricordava Bruno Vespa quando parla con Berlusconi, che se i lavoratori non ci stanno, non accettano il ricatto, lui può anche chiudere tutte le fabbriche in Italia. Sa che può farlo, Berlusconi glielo ha detto quando ai primi annunci che sarebbe andato in Serbia ha commentato che questa è una scelta che appartiene ad un imprenditore e riguarda la sua libertà.
Tanti dicono che la posta in gioco è il costo del lavoro, che per inciso pesa solo per il 7% dei costi dei diversi fattori produttivi nel settore auto. Quindi non è questo il problema.
Marchionne, da quel capitalista vero che è, ha detto a chiare lettere che la posta in gioco è il comando in fabbrica. Perché il padrone vuole la fabbrica e le vite di chi ci lavora, vuole imporre i suoi ritmi, non importa se producono incidenti sul lavoro o usura mentale e fisica, perché una volta spremuto il lavoratore lo si mette da parte. Perché il padrone vuole mano libera sull’organizzazione del lavoro, sulla catena di comando, perché acquista con un salario di merda il tempo vita del lavoratore, lo possiede. Perciò niente diritti – un lusso che non ci possiamo permettere perché se no, dice Tremonti, avremo i diritti ma non più la fabbrica.
Andare avanti
La manifestazione del 18 ottobre non è quindi che la prima tappa di un lungo percorso di ricostruzione dell’opposizione di classe che deve iniziare sui posti di lavoro e fuori dai cancelli delle fabbriche, tra i precari in lotta nella scuola e nei servizi, nei quartieri e in ogni forma di aggregazione e di lotta. Bisogna dare le gambe a un lavoro di riscoperta della coscienza di classe espellendo da questi luoghi i sindacati collaborazionisti e chi li
dirige, dialogando con i lavoratori che ancora ripongono fiducia in questi tristi figuri. Se strutture periferiche di questi sindacati accettano la solidarietà di classe e la ricerca di unità dei lavoratori in lotta, occorre richiedere ad essi la sconfessione pubblica e la presa di distanza dei loro dirigenti.
Bisogna impostare le lotte con attenzione e fantasia, creando reti di sostegno sociale e politico a chi lotta; occorre mettere in mora chi governa il territorio per indurlo a schierarsi.
E’ necessario soprattutto creare relazioni non solo tra lavoratori autoctoni e migranti ma, attraverso questi, relazioni con i loro paesi d’origine, affinché la lotta per l’emancipazione sociale si generalizzi e si diffonda in nome di una grande alleanza contro il padronato.
Bisogna riscoprire ed praticare l’internazionalismo e noi, come comunisti anarchici e militanti della lotta di classe, ci siamo e vogliamo esserci.
La redazione