Habemus papam

Ogni opera d’arte si presta a molteplici letture sia dal punto di via sincronico che diacronico. Questi due aspetti, inoltre, sono anch’essi strettamente intrecciati. Per cui, oltre a quello che può raccontare una determinata opera, è importante anche quello che non è stato raccontato ma anche la sua aderenza o meno rispetto ai tempi in cui è stata realizzata.
Veniamo dunque all’oggetto del contendere. E’ da poco uscito il nuovo film di Nanni Moretti, “Habemus papam”. Si tratta di un lavoro un po’ spiazzante che, credo, meriterebbe un’analisi ben più approfondita e multidisciplinare.
Tuttavia, vorrei cercate di parlare di “Habemus Papam” nella maniera il più serena e completa possibile. Lo voglio però dire subito, per evitare inutili ed ipocrite (del resto impossibili) parvenze di oggettività: a me il film, così, all’impronta (senza starci quindi tanto a pensare) è piaciuto. Non so esattamente perché. Forse uno dei motivi sarà legato al fatto che ritengo la commedia all’Italiana uno dei capisaldi del cinema mondiale e quando, pur alla lontana (anche molto) si riesce a richiamare qualcosa dello spirito con il quale venivano realizzati i film nell’epoca d’oro di quel genere, la cosa mi interessa. Ma questa è solo una delle spiegazioni per cui qualcosa piace o no, all’impronta.
All’aspetto istintivo, però, è indispensabile, poi, far seguire un ragionamento più articolato, complesso, che, alla fine, può anche andare ad influire sulle sensazioni iniziali. Modificandole, oppure no.
Innanzitutto, un film è un film. Il cinema, ma nel nostro paese lo si tende troppo spesso a dimenticare, è, tra le discipline artistiche, quella più legata all’aspetto “materiale”, al lavoro, alle macchine. Si usa il termine, non a caso, di “industria cinematografica”. Appare paradossale al “senso comune”, infatti, che l’arte che più è legata all’immagine, ai sogni e all’evanescenza, sia in realtà quella più simile al lavoro (industriale, artigianale, concettuale. Lavoro inteso quindi nel suo senso più ampio).
Succede invece che questa caratteristica fondamentale venga quasi sempre accantonata. Si studia troppo poco la tecnica e troppo il contenuto, il messaggio (per semplificare). Ma i due aspetti non sono separabili. Senza la “steadycam” Kubrik non avrebbe reso “Shining” il capolavoro che è. Senza l’artigianale bravura di Totò, le dozzine di improponibili film girati dal Principe de Curtis, sarebbero ormai al macero.
Tecnica registica quindi, ma anche tecnica attoriale, artigianato. Insomma di tutto.
Nanni Moretti, possiamo dirlo, non è mai stato un regista particolarmente virtuoso sotto l’aspetto tecnico. Forse i lavori più interessanti, da questo punto di vista, sono i primi (“io sono un autarchico” ed “Ecce Bombo”). Girati in 16mm, volutamente essenziali e poveri, facevano della mancanza voluta di tecnica, la loro firma.
La filmografia successiva, fino alla “Stanza del figlio”, sotto il profilo strettamente registico, fotografico e scenico si è poi mantenuta nell’ambito di un dignitoso “mestiere”. Con fotografia, costumi e luci, spesso piatti e scialbi (mai però come nei celebratissimi, forse divertenti ma invedibili sotto questo aspetto, film di Benigni: soprattutto “Il Mostro”, “La vita è bella”, “Jhonny Stecchino”) . L’aspetto più interessante, invece, dei film di Moretti è stato spesso caratterizzato dalla originalità delle storie e dal “personaggio” che Moretti stesso si è abilmente costruito; quando si parla di arte cinematografica non dobbiamo mai dimenticare che sempre di “finzione” si tratta. E la finzione esiste ogni volta che si accende una telecamera.
L’ultimo film, “Habemus papam”, invece, sotto l’aspetto della tecnica si caratterizza per un notevole balzo in avanti. Luci, musica, fotografia, movimenti della camera, sono davvero di altissimo livello, tali da caratterizzare questo lavoro come il più maturo in assoluto dell’autore.
La storia. Dunque, innanzitutto credo che se si analizza il film con un’ottica strettamente contenutistica (aderente al testo), non possa che emergere una visione del potere assai tranquillizzante che potrebbe fare il paio con il generale andamento del revisionismo storico degli ultimi anni che tende a presentare i vari dittatori del passato come “nonni”, “bravi padri” “amanti” etc.., volutamente ignorando che l’azione nel mondo del
potere non è certo quella legata alla vita privata del tiranno di turno. Come si dice se Mussolini faceva arrivare i treni in orario perché non ha fatto il capostazione?.
Sotto il profilo dell’attendibilità e della credibilità il film risulta quindi del tutto inverosimile e può apparire, a volte, davvero indigesto. I toni surreali della partita di pallavolo sembrano non assumere aspetti “satirici” e per quanto riguarda le facce degli ecclesiastici, forse in qualche caso esse possono assumere sembianze buffe ma non certo grottesche. Del resto Moretti non è Sergio Leone, maestro assoluto in indimenticabili primi piani dei volti deformati del potere (“Giù la Testa”).
Tuttavia, io credo che sia difficile valutare un film solo in relazione a quanto narra, per così dire, in maniera esplicita: certo c’è la Chiesa, c’è un Papa, ci sono gerarchie etc…, ma a me pare, invece che Moretti abbia voluto gettarsi in una parabola sul potere, in senso generale (poiché da un punto vista fattuale nulla si sa cosa succede nelle segrete stanze del Vaticano) che però non riesce a svolgere fino in fondo, anche perché si piazza esso stesso come protagonista del film, tirando fuori tutte le sue idiosincrasie più classiche. Questo lato, forse il più discutibile, risulta però il più divertente (da qui il mio apprezzamento per l’aspetto della commedia).
Michel Piccoli è un grandissimo attore che si produce qui in una interpretazione davvero notevole, forse però scritta con pochissima ironia, tanto da risultare davvero in contrasto totale con l’altra metà del film, quella recitata dallo stesso regista.
Non credo, comunque, che il film meriti una liquidazione da “indice” (poco importa se ecclesiastico o qualcos’altro). Penso invece che esso vada approfonditamente letto e studiato come un notevole segno dei tempi. Di qualcosa che è cambiato, nei rapporti fra la cultura e la rappresentazione del potere, anche rispetto all’eterno riflusso nel quale siamo immersi da trent’anni.
Forse è un segno che quanto diceva Gaber, ormai molti anni fa, è diventato ormai senso comune: “non temo il Berlusconi in sé. Temo il Berlusconi in me”.

Andrea Bellucci