Antifederalismo governativo in materia di fine vita

I ministri Maroni, Sacconi, Fazio si sono pronunciati sulla raccolta delle dichiarazioni anticipate di trattamento di fine vita da parte dei Comuni per contestarne la legittimità e richiamarne la competenza legislativa esclusiva dello Stato. Secondo i Ministeri della Salute, degli Interni e del Welfare, in assenza di un intervento del Parlamento i Comuni non possono adottare alcun tipo di provvedimento. I “magnifici tre”, in un delirio di onnipotenza, si sono sentiti autorizzati “a far chiarezza”: per rispondere ad alcuni sindaci che, in mancanza di regole chiare e di una legge sul testamento biologico avevano richiesto al governo un parere di legittimità sui registri comunali per il fine vita (DAT), hanno emesso una circolare della quale, significativamente non è disponibile il testo. Per la sottosegretaria alla Salute Roccella la circolare costituirebbe un atto dovuto in quanto la “legge che vieta il suicidio assistito […] da sola basta a rendere inefficace qualsiasi iniziativa in tal senso”.
Sarebbe interessante conoscere quali comuni hanno chiesto al Governo una “interpretazione autentica” di una legge che ancora non c’è. E’ appena il caso di sottolineare che l’illegittimità di un atto amministrativo, quale è quello di cui stiamo parlando, non spetta ai membri dell’Esecutivo, ma ai Giudici amministrativi che possono dichiararne l’invalidità e disporne l’annullamento (artt.103 e 113 Cost.). Dopotutto i rapporti Stato.
Regioni, Enti locali sono stati ridisegnati all’indomani della riforma del Titolo V, parte seconda della Costituzione, nell’ottica di un riconoscimento di maggiori poteri e competenze a vantaggio delle “periferie”.
Ma le attività degli enti territoriali, come è noto, sono croce e delizia di un centralismo confuso e distorto che interpreta il decentramento a seconda delle circostanze. In questo caso l’autonomia non è gradita e perciò si paventa un uso “distorto di risorse umane e finanziarie, con possibili responsabilità di chi se ne sia fatto promotore” (sottosegretaria Roccella). Non si è fatta attendere la benedizione della circolare da parte del Cardinal Sgreccia, secondo il quale “i Comuni hanno ben altri problemi : come far vivere la gente e procurare il lavoro e non farla morire”. Argomentazioni che possono soddisfare il cittadino comune che pensa a sbarcare il lunario, a conservare il proprio posto di lavoro, se ancora ce l’ha, perché tanto la morte è lontana e, come
scriveva Montanelli, parlarne non fa certo bene all’indice di gradimento del politico di turno. In sintesi ci chiedono di aspettare una legge di cui si continua a discutere e di pensare ad altro, di pensare a vivere o a sopravvivere!

Il federalismo cialtrone

Vale la pena soffermarsi sul soggetto “Comune”, un “microcosmo sociale, composto da individui e da formazioni sociali che trovano nell’ente comunale il loro organo o rappresentante” (Romano). Si tratta in altri termini di un soggetto che deve dare voce ai cittadini che vivono sul suo territorio e rispondere alle loro esigenze. Come si legge nel Testo Unico Enti Locali, gli organi del Comune debbono assumere iniziative che rappresentino “la propria comunità, ne curino gli interessi e ne promuovano lo sviluppo” in accordo con la loro capacità di diritto comune e di iniziativa politica. Da questa scarna definizione non sono riscontrabili controindicazioni alla tenuta di registri che raccolgono le volontà del cittadino. Tali attività sono riconducibili ad un potere di discrezionalità amministrativa che autorizza alla cura di un interesse della collettività.
Da sottolineare che il potere discrezionale si “caratterizza per il contenuto aperto della fattispecie legale che lo pone” ed è proprio questa sorta di “diaframma” che legittima la “libera” azione dei Comuni: il principio di legalità risulta comunque garantito dal momento che la “discrezionalità amministrativa” è prevista ex lege. Il suo contenuto è liberamente determinabile, come è ovvio che sia in un sistema che fa dell’attuazione del
principio autonomistico il proprio vanto. Tanto ovvio che le ordinanze dei sindaci leghisti in materia d’immigrazione e quelle sull’esposizione del crocifisso non vengono attaccate proprio in nome dell’autogoverno e dell’autonomia, ma in realtà graditi quando assonanti con l’orientamento del Governo.
Alcune riflessioni si impongono allora circa il reale grado di maturità e l’effettivo compimento del decentramento amministrativo nel nostro Paese.
Di fatto siamo fermi alla Legge 59/1997, più comunemente nota come Legge Bassanini. Allo stato sarebbe necessario affrontare la problematica nella prospettiva dei tradizionali principi di efficacia, efficienza ed economicità; e allora in quest’ottica, sorretti dai concetti di buon andamento e di buona amministrazione, i Comuni ben potrebbero custodire le dichiarazioni di fine vita dei cittadini. Né pare condivisibile privare le dichiarazioni di volontà, fino ad oggi pervenute, di qualsiasi valore giuridico. Si tratta di dichiarazioni rese in maniera ufficiale, la cui validità non può essere messa in discussione essendo scritture appositamente sottoscritte e, come tali, valide e vincolanti.

La validità delle dichiarazioni di fine vita

A coloro che invece ritengono che le stesse dichiarazioni non possano essere tenute in considerazione, nemmeno ai fini della ricostruzione della volontà delle persone, è possibile obiettare che nulla impedisce una loro collocazione quantomeno nell’ambito delle prove indirette, se non si ha il coraggio di inserirle nel novero di quelle dirette. Questo significherebbe operare secondo lo schema dell’art. 2727 c.c., ovvero risalire al fatto da provare (che qui sarebbe la ricostruzione delle volontà del malato) partendo da un fatto noto (il biotestamento sottoscritto) per giungere al fatto ignoto (la reale volontà del paziente). Inoltre il modello della presunzione semplice è quello che potrebbe concedere maggiore spazio per comprendere i reali voleri del soggetto: potrebbero inserirsi il coniuge, il convivente, i parenti, gli amici, i medici.
In questa maniera il nostro ordinamento verrebbe ad adeguarsi, seppur parzialmente, a quello di paesi come l’Olanda o la Svizzera che, in materia di fine vita, hanno scelto la procedimentalizzazione come strumento capace di fornire spazio alla volontà del diretto interessato, della sua famiglia, delle persone che lo conoscono ed assistono, garantendo comunque il primato della volontà del malato. Quanto detto dimostrerebbe
non solo che il nostro sistema è già autonomamente in grado di reggere l’impatto con queste problematiche, ma anche che l’ostacolo maggiore viene dalla volontà politica. Ne è una conferma l’esperienza raccontata da Sandro Medici, presidente del X Municipio di Roma il quale fa notare come in Italia alcuni Municipi abbiano sperimentato, già da parecchio tempo, la forma dell’atto notorio sostitutivo, garantendo la volontà delle dichiarazioni di fine vita. Il servizio messo a disposizione è tale da garantire a tutti i cittadini, anche ai meno abbienti, la possibilità di compiere quegli atti che abbisognano dell’attività di un pubblico ufficiale. Nella sostanza altro non sarebbe se non un’estensione delle funzioni dell’ufficio anagrafe e tale attività non sarebbe
dispendiosa, come obietta la sottosegretaria Roccella, talebana dei valori cattolici ultraconservatori.

Un’altra soluzione possibile

Se poi c’è così tanto ostruzionismo rispetto alla gestione di questi servizi da parte di soggetti pubblici, un’altra strada percorribile potrebbe essere quella di affidare le dichiarazioni alle ASUR, oggi “aziende”, quindi soggetti di diritto privato alle quali l’utilizzo del diritto privato dovrebbe garantire maggior celerità nell’adeguamento alle esigenze della popolazione. Quello che oggi al cittadino preme maggiormente è avere
comunque la possibilità di decidere e di autodeterminarsi senza che la politica e/o la burocrazia possano frapporre ostacoli, resistenze e condizionamenti ideologici.
Non esiste dunque alcuna norma di legge che vieti ai Comuni d’istituire Registri per la custodia delle DAT; pertanto le dichiarazioni, la cui sottoscrizione è stata autenticata da un pubblico ufficiale, sono valutabili da qualsiasi Tribunale quale elemento idoneo a costituire prova dell’orientamento dell’individuo in materia di fine vita. Per usare le parole della Corte di Cassazione si tratterebbe di “dichiarazioni idonee a configurarsi
come un testamento di vita, valevoli a delineare la personalità del paziente e il suo modo di concepire la vita prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive”.
Avanti dunque con le iniziative delle “consulte laiche” all’interno delle quali siamo impegnati.

Letizia Sollazzi