Organici e strategie di governo degli Atenei

Tra i nodi strategici della riforma universitaria c’è certamente il problema del reclutamento e degli organici nonché quello della struttura di governo degli atenei. I due problemi sono strettamente connessi e interdipendenti anche se questa relazione sfugge a molti di coloro che nell’Università lavorano ed ancor più a chi guarda all’Università dall’esterno.

L’organico e il precariato

L’Università ha tra i suoi problemi endemici quello del reclutamento e del precariato. Nell’Università non si entra da anni e i giovani ricercatori vengono collocati in un’area di parcheggio eterno fatta di volontariato, borse di studio, contratti, assegni di ricerca, bene che vada. Coloro che si trovano in questa posizione sono estremamente ricattabili e all’attività di ricerca alla quale sono chiamati aggiungono un’attività didattica diretta o la supplenza di fatto a figure docenti inesistenti o sufficientemente forti da imporre la loro sostituzione sia delle lezioni sia negli esami di profitto. Le commissioni hanno di frequente una composizione irregolare e così avviene in molti casi con l’attività didattica.
Su un gradino appena superiore a questa base di irregolari si collocano i ricercatori, il cui ruolo non è mai stato definito, fin dalla loro istituzione con il DPR 382/80. Il loro impegno nella didattica non è dovuto, ma è in pratica indispensabile per far funzionare l’Università, poiché coprono più del 40% dell’attività didattica; essi svolgono così gratuitamente un’attività di supplenza della funzione docente. In tal modo si sottraggono
risorse, tempo e energie all’attività di ricerca e si creano aspettative legittime, a fronte del crescente vuoto dell’organico docente, causato dai pensionamenti e dalla mancata applicazione del turnover a causa dei tagli mastodontici che l’Università ha subito e sta subendo. Anzi il Governo e una parte dell’accademia intendono utilizzare questa situazione contingente per incidere sulla democraticità delle strutture di governo come si vede bene dalla legge Gelmini in discussione che prevede organi “nominati” e non eletti, con la partecipazione sostanziosa di “esterni”, con l’obiettivo di minarne alla base l’autogoverno.

Il governo dell’Università

Con tutti i suoi limiti la riforma del 1980 ha avuto il merito di riformare la governance dell’Università sottraendola all’esclusivo controllo dei docenti ordinari e immettendo negli organi la presenza di associati e ricercatori. Si tratta di una riforma tutt’altro che perfetta, ma che ha avuto almeno il merito di aprire alla conoscenza pubblica decisioni strategiche degli organi di governo e procedure concorsuali, indicando una strada che sarebbe stato opportuno e necessario imboccare con più decisione. Ma .quel barlume di democrazia che l’autogoverno ha rappresentato non fa comodo né al governo né alle figure forti dell’Università, e così da Berlinguer-Zecchino in poi tutti, destra e sinistra, si sono dati da fare per ridurre le basi della partecipazione democratica alla gestione. D’altronde lo stesso fenomeno connota l’intera società: tecnici nominati, apparentemente neutrali possono far di meglio, perché perdere tempo nelle discussioni di organ i democratici, definiti “assembleari”!
Prova ne sia che, sia pure a legislazione invariata, costoro sventolano pareri ministeriali per aggirare il divieto a ricoprire per i docenti a tempo definito a ricoprire la carica di Presidi di Facoltà, affermando che essendo in discussione la modifica delle norme vigenti, si può anticipare la riforma! Si tratta di una richiesta motivata dall’interesse a ricoprire cariche di governo per gestire l’eventuale applicazione della riforma in
discussione.
L’obiettivo di lungo periodo di governo di una parte dei docenti ordinari, soprattutto i più giovani è quello di vedere progressivamente ridursi il loro numero sia per il pensionamento dei colleghi più anziani sia attraverso il blocco delle assunzioni, limitando i nuovi ingressi a contratti a tempo determinato, in modo da ridurre sempre di più i numeri del personale docente ordinario a tempo indeterminato, poiché solo tra di essi verranno scelti i componenti degli organi di autogoverno degli Atenei. Per questo stesso motivo gli appartenenti alla fascia di docenti ordinari ancora lontani dalla pensione e che si sono nel frattempo costruiti delle strutture – così dette – di eccellenza attraverso le quali continuano a pompare risorse sia pubbliche che private, cercano di
ostacolare in ogni modo le rivendicazioni degli attuali ricercatori, considerati una categoria che potrebbe inflazionare la fascia docenti e quindi minare alla base le aspettative di impossessamento degli organi di autogoverno.
Il progetto del Governo ha come alleati una ristretta fascia di docenti ordinari che governano i cosiddetti “centri di eccellenza”, i docenti interessati ad un rapporto a tempo definito con l’Università che appartengono a settori che possono spendere sul mercato delle professioni l’appartenenze all’università e tutti coloro che pultano al potenziamento delle Università private.

Necessità di un’alleanza

E’ tenendo conto di questa distribuzione degli interessi in campo che dobbiamo cercare di costruire una rete di alleanze per contrastare gli effetti nefasti della riforma. Perciò se da un lato va sostenuta la battaglia degli attuali ricercatori per il riconoscimento della loro funzione e il diritto ad un accertamento trasparente e con criteri oggettivi dell’attività svolta e dell’acquisita attitudine e delle raggiunte capacità di svolgere il ruolo docente, dall’altro va riaperto il turn-over per coloro che da tempo lavorano come precari nell’università e che reclamano concorsi con valutazioni di merito, volte a verificare l’acquisizione di capacità di ricerca e di attitudini alla didattica.
L’intervento complessivo sull’Università richiede investimenti e risorse sia per una didattica di qualità che per l’attività di ricerca, tenendo conto del fatto che il livello miserrimo dei finanziamenti, il sottodimensionamento delle strutture di ricerca sono tali che non consentono al sistema universitario e della ricerca italiano di recuperare sotto forma di finanziamenti europei alla ricerca nemmeno una minima parte delle risorse trasferite dall’Italia sui fondi di finanziamento comunitari. I tagli all’Università attuati e quelli previsti dal 2008 al 2013 sono di 10 miliardi di euro, paragonabili alla cifra erogata dal Piano Marshall per l’Italia dal 1948 al 1953.
Il degrado programmato dell’Università pubblica è così grave che gli studenti per primi devono rendersi conto della direzione verso la quale stiamo andando e una prima parola d’ordine non può che essere l’interruzione immediata di ogni finanziamento per le Università private e la loro canalizzazione verso le università pubbliche.
E’ necessaria la mobilitazione e la lotta anche a costo di fare saltare l’apertura dell’anno accademico nella consapevolezza che in questo momento è in gioco non solo il destino dell’Università ma con essa la possibilità di crescita e di promozione sociale di tutti.
L’impianto della riforma è tale che non sono accettabili le politiche ementative proposte dalla sinistra istituzionale ma bisogna sviluppare una mobilitazione finalizzata al ritiro del provvedimento. La sinistra istituzionale ma anche quella fuori dalle istituzioni se vuole dialogare con il paese e raccogliere i consensi necessari a battere la destra tutta deve guardare agli interessi del paese e proporre investimenti nell’Università e nella ricerca finalizzato alla costruzione di un nuovo modello di sviluppo e a sostegno di una società solidale.

A.D. e G.C.