Reshoring

L’avevamo previsto e sta succedendo! La delocalizzazione prima o poi si sarebbe scontrata con dei limiti strutturali e con la crescita dei costi nelle aree di interesse a causa dell’irrompere di opportunità di lavoro e di guadagno più consistente e garantito (cfr. http://www.ucadi.org/analisi/47-analisi-della-fase-2011, paragrafi 3.2 e 3.3; http://www.ucadi.org/component/content/article/46-sindacale/169-karakiri). Infatti ora viene molto studiato il fenomeno del reshorig o back-reshoring: per il quale “molte grandi aziende hanno analizzato i costi ed i benefici della produzione fuori confine ed hanno deciso di reshore (letteralmente: ritornare alla riva, ndr) le operazioni di produzione” (http://www.nist.gov/mep/services/america/reshoring.cfm). Questi eventi non si verificano solo negli USA, ma anche in Italia dove seppure ancora in uno stadio iniziale. Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison di Confindustria, parlando di aziende che producono per clienti sofisticati e che hanno scoperto come fosse addirittura dannosa la delocalizzazione dice: “Uno dei motivi è nel fatto che stanno aumentando nei paesi emergenti i consumatori sofisticati, quelli che cercano un prodotto perché è italiano. Al cinese ricco e raffinato che acquista un bene di lusso non fa piacere scoprire che è stato prodotto vicino a casa sua. In quel prodotto lui vuole sentire il profumo dell’artigianato italiano […] I fattori che favoriscono il rientro sono legati innanzitutto ai dati macroeconomici. All’inizio degli anni Duemila il petrolio costava 20 dollari al barile, oggi siamo a 100”. Un aumento che ha inciso pesantemente sui costi di trasporto. Contemporaneamente le retribuzioni nei paesi asiatici sono salite. Il combinato disposto delle due tendenze ha finito per ridurre i margini di chi aveva scelto di delocalizzare per abbattere i costi (http://www.repubblica.it/economia/affari-efinanza/2014/07/07/news/reshoring_il_made_in_italy_riporta_in_casa_le_produzioni_delocalizzare_non_rende
_pi-90887657/).
“Tornare in Italia, per controllare meglio il processo produttivo che, quando le fabbriche si trovano a migliaia di chilometri, rischia di diventare sfilacciato e slabbrato. Lasciare i Paesi a basso costo del lavoro, perché il premium price espresso dal Made in Italy è non soltanto garantito, ma perfino sollecitato, dagli acquirenti. Il gruppo di ricerca sul back-reshoring, formato dagli atenei dell’Aquila, di Catania, di Udine, di Bologna e di Reggio Emilia, prova a monitorare non le (molte) intenzioni di ri-localizzazione di pezzi
dell’apparato industriale italiano, ma le (ancora poche, ma in crescita) operazioni effettuate dalle nostre imprese.
Negli ultimi quindici anni, per l’Italia, si contano settantanove operazioni di back-reshoring: ventotto dalla Cina, dodici da Paesi asiatici (non la Cina), ventidue dall’Europa dell’Est e dalla Russia, tredici dal resto d’Europa, una dal Sud America, una dal Nord Africa e due dal Nord America” http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-06-20/come-si-dice-reshoring-italiano-064226.shtml?uuid=ABoDP5SB.