La spesa italiana per le opere pubbliche è un interessante capitolo. Il recente decreto cosiddetto “sblocca-Italia” (già i nomi immaginifici che ora vanno di moda nascondono solo povertà di idee) individua 671 opere incomplete e ne addossa la colpa a lentezze burocratiche, inerzia delle amministrazioni (cose senza dubbio veritiere) ed in ultima analisi alla carenza di fondi, di cui mancherebbe un terzo dello spesa per portarle a
termine (Il Sole 24 ore, a. 150, n° 190, 13 luglio 2014, pp. 1 e 3). Dal 2004 al 2013 la spesa per investimenti pubblici è calata in Italia del 19,6%: solo la Spagna ha fatto peggio (-46,8%), mentre in altri paesi la spesa è cresciuta: Germania (+30,7%), Francia (+26%) e Regno Unito (+19,1%). Nella classifica delle nazioni sopra riportate l’Italia in valore assoluto è quella che ha speso meno, anche se risulta terza nella percentuale sul PIL, superando Regno Unito e Germania grazie all’inferiorità del Prodotto lordo; anche la Spagna ha investito più dell’Italia. Se si fa riferimento al triennio 2011-2013, l’Italia risulta quarta nella percentuale sul PIL, superando solo la Germania, ma nel valore assoluto degli investimenti 2013 è quarta davanti solo alla Spagna (Il Sole 24
ore, a. 150, n° 135, 18 maggio 2014, p. 3). È evidente quanto poco si sia investito in opere pubbliche ed infrastrutture, senza considerare il dove, cui si è già accennato al terzo paragrafo.
Meno male (si fa per dire) che è arrivato il Rodomonte di Rignano con il suo decreto appena ricordato.
Appena approvato in Commissione Ambiente della Camera il 18 ottobre 2014, ed in attesa dell’usuale fiducia in aula, il solerte ministro Lupi, all’uopo nominato, ha pubblicato il suo decreto ministeriale per dare il via ai primi 1.664 milioni di € di investimenti, sui 3,9 miliardi complessivi negli anni a venire; di questi 335 milioni di € da far partire entro il 31 dicembre 2014 (Il Sole 24 ore, a. 150, n° 287, 19 ottobre 2014, p. 2). A parte il merito del provvedimento, il cui impatto ambientale, già valutato molto negativamente, ha subito peggioramenti in sede di commissione grazie all’introduzione di famigerate deroghe urbanistiche e all’adozione i un regolamento unico nazionale che passa sopra alle differenze territoriali, non è difficile scoprire il baco. C’è infatti da chiedersi se i lavori dei cantieri sbloccati partiranno tempestivamente e se il denaro investito sia rilevante ai fini della creazione di posti di lavoro. Sul primo punto è stato fatto ricorso ai soliti giochetti linguistici; poiché erano previsti dei tempi per l’apertura dei cantieri (i primi al 31 dicembre 2014 e la seconda mandata entro il 30 giugno 2015) pena il decadere dei fondi stanziati, l’arguzia governativa ha inventato il concetto di “cantierabilità” (uno dei tanti pessimi vocaboli in vigore), che prevede che i tempi da rispettare non siano relativi all’inizio delle opere, ma solo all’avvio di alcuni atti amministrativi o alla presentazione dei relativi progetti; col che non è difficile prevedere tempi biblici per l’effettiva messa in opera. Ma dubbi seri sussistono anche sulle risorse messe a disposizione nel decreto in sede di conversione di legge. La prossima legge di stabilità doveva provvedere a rinforzare la dotazione esigua (nel solo 2013 sono stati investiti oltre 27 miliardi di €, a fronte dei 3,9 pluriennali dello sblocca-Italia), ma di ciò non vi è traccia (cfr GIORGIO SANTILLI, Il Bel Paese (con Tav, suolo e acquedotto che non c’è), in Il Sole 24 ore, a. 150, n° 287, 19 ottobre 2014, p. 2).