Prato: una struttura “arretrata” nello sviluppo capitalistico?

Il rogo di Prato che ha visto sette lavoratori morire e molti altri restare gravemente feriti ha scoperto la pentola, ponendo una questione più generale sulle modalità di lavoro per produrre profitto. Da più parti si è parlato di modelli “arretrati” di produzione, introdotti in Italia dalla globalizzazione, tanto che avremmo “importato la Cina in Italia” invece che delocalizzare la produzione in Cina.
In realtà il problema è molto più complesso e incide sulle modalità con le quali le forze di sinistra affrontano il problema dello sfruttamento capitalistico, costituito dal fatto che qualsiasi lavoro è un atto di espropriazione del plusvalore prodotto dal lavoratore che consente il trasferimento a vantaggio del padrone del guadagno derivato dal lavoro. La differenza è costituita dal fatto che in questo caso il salario è minimo, le condizioni di lavoro pessime, le garanzie in termini di sicurezza, di salute e di vita sociale accettabile
semplicemente inesistenti al punto da assimilare questa condizione alla schiavitù.
Si afferma che questo modo di produzione “importato” è incompatibile con le conquiste del lavoro e le garanzie proprie del modello italiano quasi che Prato sia un modello atipico, particolare, unico di produzione relegato al fenomeno attuale della globalizzazione e che invece il modello occidentale del lavoro di fabbrica sia quello proprio e più umano del capitalismo nostrano.

Non è così, soprattutto nel caso di Prato.

I cosiddetti marxisti conseguenti e deterministi, applicando alla lettera le teorie marxiane sostenevano che il modello di sviluppo capitalistico, è rappresentato da un treno va da Prato a Marghera, viaggia in una sola direzione, quella di Marghera, ovvero che la concentrazione delle forze produttive e la grande fabbrica costituiscono il futuro del capitalismo e che questo crea proletarizzazione, coscienza di classe e produce
cambiamenti positivi. Eppure Marghera, luogo simbolico della grande fabbrica capitalistica e tecnologicamente avanzata ha chiuso, mentre Prato continua a produrre, anche se ha subito delle trasformazioni che tuttavia non la allontanano molto dalla sua struttura originaria. Sono inoltre mutati i soggetti gestori del sistema produttivo.

Prato ieri

La struttura economica pratese si caratterizzava da decenni per un modello integrato di sfruttamento che aveva fatto della città una fabbrica collettiva e sociale legata al settore tessile, come oggi.
La produzione utilizzava in gran parte il filato recuperato dagli stracci e reso nuovamente utilizzabile (basso costo della materia prima) che veniva tessuto da una rete di piccole o relativamente piccole fabbriche, le quali avevano la funzione di calmierare all’occorrenza il mercato aumentando o riducendo la produzione, secondo le necessità sociali e di mercato. L’introduzione di un sottilissimo filato di nylon che rafforzava la tenuta del tessuto garantì a lungo una consistente esportazione dei tessuti prodotti a basso costo, anche per l’alta moda, non solo italiana. Un valore aggiunto, quindi, grazie all’innovazione e contemporaneamente il rapporto simbiotico con le grandi griffes le quali sapevano bene quanta produzione fosse riservata alla contraffazione, prova ne sia che anche i tessuti di Chanel come quelli inglesi erano spesso “contraffatti”, rispediti in Francia e Inghilterra e poi rietichettati e immessi sul mercato mondiale.
La gran parte della produzione veniva fatta in casa dalle unità familiari o parentali le quali si alternavano nell’uso di uno o più telai acquistati dalla famiglia e istallati in casa. Era così possibile un ciclo continuo di attività della macchina utilizzata per tutto l’arco di 24 ore dal lavoro autonomo di “piccoli imprenditori” che credevano di fare i padroni e che pagavano il costo fisso costituito dalle macchine per lavorare; si illudevano di essere padroni della loro vita. Era impressionante circolare di notte in qualsiasi ora per
le vie della città, perché si udiva il lavoro incessante dei telai, come un sordo brontolio che segnalava la natura della condizione umana e dello sfruttamento capitalistico. Chi scrive visitò allora ogni “opificio” in occasione del censimento del 1971 ma dovette visitare anche moltissime case nelle quali erano istallati i telai, verificando quanto fosse diffuso questo tipo di struttura produttiva di lavoro a domicilio.
Tuttavia questa parte di produttori era sotto il controllo continuo e ferreo dei padroni delle aziende e dei marchi, spesso le griffes più importanti del mondo, le quali si adoperavano per far ottenere i prestiti per gli acquisti dei telai da parte delle famiglie, vendevano tramite loro uffici o davano in sconto lavoro (facendosi così pagare con il futuro prodotto e quindi vincolando i produttori al mantenimento di predeterminati ritmi) le macchine, ne curavano a pagamento la manutenzione, fornivano il filato, acquistavano il prodotto e lo commercializzavano come proprio. Nel caso di una improbabile coalizione dei produttori a domicilio gli impianti fissi, quegli stabilimenti tessili direttamente gestiti dai padroni supplivano alla mancata produzione dei
lavoranti a domicilio che in caso di crisi del mercato vedevano ridursi i loro margini di guadagno, pagando il prezzo della congiuntura.
Un sistema perfetto nella sua criminale organizzazione dello sfruttamento che ha costituito un fiore all’occhiello per il made in Italy, un modello del quale tutti sapevano tutto e tacevano. Questo non significa che non vi fossero eccezioni e punti di eccellenza produttiva ma erano, appunto eccezioni.

Prato oggi

Da allora sono passati 40 anni e questo sistema produttivo ha subito delle trasformazione e dei cambiamenti, si è evoluto adattandosi alle nuove condizioni di mercato e di produzione.
Abbassare i costi di produzione in un sistema quale quello appena descritto era pressoché impossibile, se non trovando il modo di far costare ancora meno la forza lavoro. La soluzione venne trovata incoraggiando la migrazione di operai e operaie cinesi, spesso clandestini, che erano disponibili a stare al telaio a costi ancora
minori dei pratesi e in condizioni igienico sanitarie e di fruizione dei diritti ancora minori. A gestirli per conto dei pratesi, in un primo momento caporali e capi clan cinesi.
Questa soluzione venne estesa alle confezioni di vestiti, ai divani, ad ogni attività produttiva e in una prima fase vide i pratesi diventare i padroni, divenuti tali non per essersi emancipati dallo sfruttamento dei controllori del mercato, ma per aver creato una categoria di sfruttati più sfruttati di loro. Del resto tutto era comodo: a gestire il lavoro in condizioni di quasi schiavitù, provvedevano come si è detto gli stessi caporali
cinesi, che controllavano il flusso dei migranti.
I padroni pratesi con la crescita della crisi del tessile degli anni ’80 – ’90 hanno iniziato il processo di vendita dei capannoni e di dismissione del lavoro a domicilio, decentrando anche verso altre aree. E’ il caso dell’attuale Sindaco, padrone della Sach, fallito in Italia e che ha riaperto altrove. I cinesi gestori di forza lavoro si sono invece gradualmente resi autonomi, hanno risalito la filiera, occupando via via prima le postazioni intermedie, poi creando proprie banche e propri uffici direzionali rigenerando in loco il modello Prato. Appena in un capannone si chiudeva l’attività subentrava un cinese che apriva la propria mentre gli ex proprietari percepivano e continuano a percepire gli affitti. Così e solo così le due comunità si integrano ma restano
separate e oggi i cinesi costituiscono il nerbo dell’imprenditoria mentre i pratesi mantengano la loro presenza ai livelli alti del sistema.
Dietro questa struttura produttiva c’è la violenza nei rapporti sociali e produttivi. La più grande comunità cinese d’Europa è prosperata con il consenso della madre patria, la quale ha sempre guardato con favore a questa porta aperta sull’Europa, dalla quale anche molte merci prodotte in Cina, attraverso tiangolazioni, possono viaggiare verso i paesi della Comunità europea una volta che hanno indossato il vestito del made in
Italy, costituendo una riserva immensa di produzione di profitto in valuta pregiata che attraverso la rimesse dei “migranti” prima ed oggi direttamente, provenendo dai gestori e proprietari delle attività produttive, va ad alimentare lo sviluppo in molte contrade della madre patria.

La lezione di Prato

Prato insegna che per il capitalismo non ci sono sistemi produttivi avanzati o arretrati, ma solo sistemi che producono profitti. La combinazione dei fattori produttivi di volta in volta adottata si plasma alle opportunità, alle esigenze di mercato, alle condizioni che trova o riesce a creare nuove/vecchie soluzioni e non vi è luogo inadatto “per principio” a produzioni a bassa intensità di innovazione, perché anzi la generalizzazione del mercato, l’immissione sul mercato globale di forza lavoro è un elemento di forza del
capitale che spinge a creare tendenze al ribasso dei salari e impoverimento dei lavoratori, al punto che sempre più il lavoro non affranca dalla miseria e dall’indigenza, ma anzi rafforza la polverizzazione della collocazione sociale dei lavoratori e la loro collocazione alla base della piramide sociale sotto la soglia della sussistenza.
Pertanto ciò che serve oggi non è il lavoro, ma quello dignitoso, quello con una paga elevata, quello di qualità e dotato di una opportuna remunerazione sul mercato e nella società, un lavoro che consenta una vita dignitosa.
Di tutto questo a Prato non c’è traccia e a poco servono le lamentazioni di autorità comunali, associazioni imprenditoriali, sindacati, cittadini che sapevano e sanno tutto e preferiscono invece ricordare i tempi felici quando il modello Prato tirava, perché ora come allora lo sfruttamento selvaggio e brutale è la costante di quel modello produttivo.
E lo sfruttamento non è solo quello dei cinesi sui cinesi ma anche quello dei pratesi su chiunque voglia avviare una attività e comincia fin dalla messa a disposizione dei documenti di identità falsi ad opera di personaggi che gravitano intorno agli uffici del Comune per proseguire poi in relazione ad ogni minimo aspetto della vita di ogni giorno con complicità sull’elusione scolastica, servizi medici più o meno clandestini, ecc.
C’è stato in un recente passato un intervento svolto mediante l’utilizzo di un camper che ospitava operatori sociali volontari che agivano a sostegno della popolazione cinese; ben nota era la presenza di un compagno, eccellente conoscitore del cinese ma soprattutto dei problemi della comunità, il quale agiva in collegamento con l’ispettorato del lavoro, con le strutture di prevenzione delle malattie professionali e con le
strutture sanitarie in genere, con i servizi scolastici. Ma questa persona generosa è morta stroncata da un male incurabile e ai suoi funerali celebrati con rito civile non c’erano solo i compagni di tante lotte ma la comunità cinese, numerosa, in segno di riconoscenza per le comuni lotte contro la criminalità organizzata.
Oggi possiamo dire che Renzo e quelli come lui hanno ben seminato se guardiamo al fatto che molti appartenenti alla comunità cinese hanno partecipato al funerale delle sette vittime, esponendosi per la prima volta in prima persona ma forse questo è anche il segnale che la comunità è diventata adulta, si è data proprie strutture finanziarie e si pone da pari a pari di fronte alle pretese dell’imprenditoria e soprattutto della finanza
pratese che da sempre cerca di governare il fenomeno anche stabilendo relazioni di collaborazione direttamente con imprese cinesi operanti in Cina.
Una situazione complessa insomma che tuttavia dimostra la capacità del sistema capitalistico di rinnovarsi e mettere a punto nuove strategie con il preciso obiettivo di perpetrare lo sfruttamento mediante l’utilizzo di tecniche di organizzazione del lavoro e della struttura finanziaria che si adattano al territorio e alla composizione di classe con l’unico obiettivo di continuare a fare profitti. Il capitalismo produce sfruttamento e soprattutto non fa distinzione tra i cinesi e gli originari abitanti di Prato, ma tra ricchi e poveri, tra padroni e lavoratori, tra sfruttatori e sfruttati.
Su queste tematiche vedi le analisi dei comunisti anarchici italiani a partire da:
Ai compagni su Capitalismo, ristrutturazione e lotta di classe, Firenze Crescita Politica, 1975.
Autonomia e organizzazione. Sui rapporti sociali comunisti, Firenze, Crescita Politica, 1975. e successive elaborazioni, in www.ucadi.org

Gianni Cimbalo