Questo non sarà un paese per vecchi!

Periodico come il sopravvenire dell’influenza riemerge il problema della previdenza in Italia. Il plurincaricato presidente dell’INPS, Antonio Mastrapasqua, si è dimesso travolto dagli scandali, curiosamente proprio allo scoppiare del caso del deficit dell’Istituto, si è così trovato il capro espiatorio di una situazione che ha ben altri responsabili, senza nulla togliere al contributo fattivo dato dal soggetto in questione. Per altro era ben noto a tutti, e tanto più doveva esserlo a chi detiene il potere di controllo, la quantità delle responsabilità
che ricadevano sulle spalle del commercialista (forse senza una vera laurea) assurto a quei ruoli grazie a protezioni politiche, l’enormità delle sue retribuzioni, gli interessi in conflitto insite nei suoi incarichi che ovviamente hanno inferto danni al sistema previdenziale pubblico. Ma si sa che gli scandali non scoppiano mai a caso e che le malefatte vengono scoperte solo quando serve.
L’assetto della previdenza italiana è sottoposto ad attacchi continui, quanto immotivati, da oltre venti anni. Immotivati non è la parola giusta, sarebbe meglio dire ingiustificati, in quanto i motivi risiedono non tanto nella debolezza del sistema in sé, quanto in interessi esterni ad esso di natura politica ed economica. Ma prima di ripercorrere brevemente le tappe del suo progressivo smantellamento, chiariamo la natura dell’allarme che oggi circonda l’Istituto ed il suo presunto deficit.
Il governo del supertecnico Monti, tra le altre attività avventurose, varò la fusione tra l’INPS, la previdenza dei dipendenti privati, e l’INPDAP, la previdenza dei dipendenti pubblici. Tutti osannarono alla semplificazione dl sistema, ma la semplificazione non ci fu; i due enti mantennero le loro sedi, il loro organico, la propria struttura e l’unica cosa che fu necessario fare fu quella di cambiare la carta intestata del secondo, in cui alla sigla dell’Istituto fu aggiunta la dicitura ex-IPDAP.
Ma una differenza v’era. l’INPS, nonostante sulle sua casse gravassero impropriamente oneri che avrebbero dovuto essere a carico della fiscalità generale (come ad esempio la cassa integrazione), era in attivo; l’INPDAP no, era viceversa in profonda sofferenza. Il solito cancro dei dipendenti pubblici si dirà, e questo messaggio filtra sotto traccia. La verità è ben diversa. È ben noto che i contributi pensionistici vengono prelevati dagli emolumenti dei lavoratori, in parte sottratti dalla busta paga ed in parte a carico del datore di lavoro. I privati talvolta evadono la propria parte, pur sottraendola all’ammontare del costo del lavoro, ma ciò facendo rischiano (un poco) di essere colti in fragrante; questa evasione pesa sulle casse dell’Inps e nonostante ciò, come detto l’Ente era in attivo, il datore di lavoro pubblico, per intendersi lo Stato, per anni e anni non ha mai versato la quota che toglieva alla massa salariale dei propri dipendenti all’INPDAP e questo ha creato
l’enorme deficit di quasi dieci miliardi di Euro che gravava sull’Istituto al momento della sua incorporazione nell’INPS. Ora la stampa lamenta che lo Stato dovrà intervenire a ripianare il bilancio della Previdenza, facendo balenare l’idea di un intervento pubblico a sostegno dei pensionati; in realtà lo Stato versa solo una parete di quanto avrebbe dovuto a suo tempo versare.
Con la fusione dei due Enti il Monti di pietà ha fatto il miracolo di occultare le deficienze dello Stato e di addossare sulle spalle dei contributi dei lavoratori le inadempienze statali. Del senatore a vita nessuno parla più, ma permangono pesanti le tracce del suo passaggio. Non ultima l’ineffabile riforma che porta il nome altrettanto ineffabile della ministra a suo insaputa Fornero.
L’ultimo ritocco, in ordine di tempo, al sistema previdenziale italiano (ma la storia non è finita) risale allo scorcio del 2012. È stato devastante, e lo vedremo, per le conseguenze immediate sulle persone, ma il passaggio più destrutturate, quello decisivo risale o circa vent’anni prima, il 1994. Cadeva il primo Governo Berlusconi, proprio sul problema della revisione della previdenza, grazie allo sganciamento della Lega Nord, salutata come il figliol prodigo dall’allora PDS. Gli succedeva il Governo Dini con l’appoggio della sinistra (si
fa per dire) ed i sindacati accettavano la sua riforma, la stessa proposta dal precedente governo che aveva suscitato un’aspra e vasta ondata di manifestazioni di massa. Molti allora denunciavano che veniva rotto definitivamente un meccanismo virtuoso, quello che aveva sorretto fino ad allora, la formazione delle pensioni dei lavoratori. Fino a quel momento il sistema di calcolo del trattamento previdenziale era quello conosciuto
con il termine “retributivo”, con la riforma Dini si iniziava a transitare sul sistema “contributivo”. Una china che non si sarebbe più fermata e si sarebbe conclusa nel 2012.
I motivi addotti per l’operazione risiedevano nella presunta impossibilità del sistema previdenziale di far fronte, per come era concepito allora, al progressivo invecchiamento medio della popolazione, e poi questo refrain è stato sempre ripetuto come un mantra ad ogni successivo ritocco avvenuto con cadenza quasi triennale. Allora andava di moda il tema della gobba dell’ammontare delle erogazioni, cioè della massima spesa prevista e tale da risultare non copribile dai contributi versati dai lavoratori, col piccolo problema che a seconda dei calcoli si spostava dal 2030 al 2050: un’aleatorietà intrinseca a questo genere di previsioni, vista la scarsa prevedibilità dei parametri in gioco (numero di pensionati, totale degli occupati, loro retribuzione, quote di contribuzione, etc.) si diceva che l’Italia era il paese col più alto livello, tra i paesi industrializzati, di spesa per la previdenza in rapporto al PIL, dimenticando che era anche quello che aveva il più alto livello di contribuzione da parte dei lavoratori dipendenti che il sistema pensionistico era allora in forte attivo e che le percentuali prese in considerazione comprendevano spese impropriamente accollate alla previdenza e che avrebbero dovuto gravare sulla fiscalità generale, come avveniva in tutti gli altri paesi.
L’aspetto decisivo, comunque, era l’introduzione (seguita dalla sua progressiva estensione) per la parte più giovane dei lavoratori del sistema contributivo; ciò rivestiva un aspetto pratico ed uno di profonda natura sociale. Di fatto coloro che si vedevano transitare sul sistema contributivo (pro quota quelli con una contribuzione superiore agli otto anni ed inferiore a 15, e per intero quelli con contribuzione inferiore agli otto
anni) vedeva in prospettiva sfumare la possibilità di ottenere alla fine della propria vita lavorativa una pensione dignitosa, diveniva per loro necessario, e così per tutti coloro che sarebbero entrati nel mondo del lavoro da lì in poi, ricorrere ad un’integrazione delle future prestazioni rivolgendosi a dei fondi pensionistici privati o di gestione pubblica (misto statale e sindacale), e per far ciò dovevano e debbono sacrificare gran parte del loro trattamento di fine rapporto (la liquidazione). Un danno evidente.
Ma quello che era ancora più lacerante era la rottura di un patto tra le generazioni, condita dalla differenza di trattamento tra quelli di più recente immissione nel mondo del lavoro e quelli più anziani, che restavano, per il momento, immuni dall’attacco. Il sistema retributivo, infatti, è per definizione un sistema “a ripartizione”, ovverosia i contributi che le generazioni in attività andavano a costituire i trattamenti pensionistici per coloro che non lo erano più: i giovani “pagavano” le pensioni dei vecchi e sarebbero stati pagati a loro volta
da chi sarebbe subentrato. In altri termini un patto di solidarietà tra generazioni di lavoratori, che fino ad allora aveva mantenuto in ottimo equilibrio il sistema previdenziale globale. Il sistema contributivo, invece, non è un vero e proprio sistema previdenziale, ma un sistema assicurativo: ogni lavoratore riceve quale trattamento pensionistico quant’è il frutto finanziario dei contributi che ha versato nell’arco della propria vita lavorativa,
quindi il suo rapporto non è con le generazioni precedente alla sua e quella successiva, ma è una rapporto solitario con l’Ente cui sono stati affidati i suoi versamenti.
Da quel lontano 1994 ogni successivo ritocco non ha fatto altro che rendere peggiore il sistema nel suo insieme e peggiorare, pertanto, le prospettive per la pensione dei singoli, fino all’arrivo delle lacrime in diretta della Fornero, che ha portato a termine l’opera a suo tempo intrapresa da Dini, ma con un tocco di originalità.
Fino ad allora ogni cambiamento peggiorativo prevedeva una gradualità che rendeva meno ripido lo scalino verso il basso che si andava a compiere. Ma a Monti ciò non bastava; aveva necessità di far cassa da subito sulle spalle dei pensionati e quindi le aspettative dei pensionandi sono drasticamente cambiate nell’arco di pochi giorni, con i drammi personali che ne sono seguiti, fino allo scandalo tuttora irrisolto degli “esodati”. Tra l’altro l’innalzamento dell’età pensionabile ci ha regalato l’accesso alle pensioni più tradivo d’Europa. Ora si torna a vociferare di un possibile ritocco, in senso migliorativo si dice, ma la storia ci lascia, a ragione, piuttosto scettici.

Saverio Craparo