Come è ovvio, sui media di tutto il mondo impazza il toto Presidente e tutti gli sguardi sono rivolti alle prossime elezioni di novembre negli Stati Uniti d’America. È ovvio in quanto l’idiota medio statunitense [1] ha nelle sue mani non solo le sorti del proprio paese (come il bielorusso nel caso Lukašėnko), ma le sue scelte avranno notevoli riflessi sulla politica interna di qualsiasi altro Stato esistente. I sondaggi si susseguono e, a detta dei bollettini ufficiali il consistente vantaggio accumulato durante la primavera-estate dal candidato democratico, Joe Biden, sul Presidente uscente, Donald Trump, si sta assottigliando. Ciò è vero solo in parte: la media dei sondaggi (media che come è facile intuire smorza gli errori di formulazione e di scelta del campione sia dolosi che frutto di imperizia) ci racconta che tra il giugno ed il settembre le propensioni di voto per Biden sono scese dal 49,9% al 48,9%, mentre quelle per Trump sono salire dal 42,1% al 42,6, cioè il vantaggio del primo è sceso dal 7,8% al 6,3% [2]. Come si vede nulla di drammatico.
Ma quali sono le ragioni della parziale rimonta di Trump e le sue reali possibilità di ottenere un secondo mandato? Per tre anni della sua Amministrazione l’attuale Presidente ha avuto buoni consensi sul suo operato, puntando sul mantenimento delle promesse elettorali e sui supposti ed opportunamente propagandati successi
economici; l’elettorato degli Usa è, nel suo insieme, troppo ripiegato sul proprio interesse immediato e troppo suscettibile ai messaggi mediatici per curarsi delle innumerevoli gaffe internazionali e dei disastri diplomatici.
Ha contribuito una tenace ricerca di un variegato fronte di nemici esterni (Cina in testa) di volta in volta sbandierati dall’Amministrazione, cui attribuire tutte le colpe dei fallimenti.
Poi, però, è arrivata la pandemia e la gestione dissennata che ne ha fatto Trump per far precipitare le sue azioni. È stato necessario un cambio di rotta per coprire le falle aperte sulla gestione presidenziale. Prima di tutto, si è reso necessario, far passare nel silenzio l’andamento economico: l’effimera crescita su cui si basava la precedente campagna elettorale, si è rivelata tutt’altro che strutturale; nessun serio contributo alla congiuntura reale è venuto dal consistente taglio alle tasse sulle imprese (una tardiva applicazione della malsana teoria priva di fondamento euristico della supply side economy) e la crescita dei titoli azionari in borsa non ha trovato adeguato riscontro nella sfera concreta della produzione industriale. Le guerre commerciali con “nemici” ed
“alleati” hanno fatto il resto, imbrigliando non solo le importazioni, ma anche le esportazioni e contribuendo a mantenere in profondo rosso la bilancia commerciale statunitense. Questi nodi, già di per sé, rischiavano di evidenziarsi durante la campagna elettorale, quando ad essi si è aggiunto l’arrivo del Sars-Cov-2 con l’ingente impegno finanziario (spesso mal indirizzato) che ha portato, sommato alla diminuzione delle entrate fiscali, il debito dello Stato a superare il 100% del Pil.
Soprattutto, però, era necessario far uscire dai riflettori le migliaia di morti giornalieri ed il dilagare senza freni dei contagi: il coronavirus non doveva fare più notizia! La questione razziale è giunta “a fagiolo”.
Di fronte alla crescente immotivata brutalità della polizia nei confronti della popolazione afroamericana, Trump aveva due scelte: mitigare la protesta espellendo le “mele marce” dalle forze dall’ordine o inasprire lo scontro cavalcando il suprematismo Wasp; in linea con il personaggio la via privilegiata è stata la seconda ed i risultati non sono mancati.
Le sacrosante proteste dei neri, vittime sacrificali di una campagna elettorale dai risvolti inquietanti ed eversivi, hanno smosso nel pavido ma poco pacifico elettore bianco (non tutti per fortuna) un senso di insicurezza che l’attuale Amministrazione sta sfruttando a proprio vantaggio, sia per occultare le falle del suo operato pregresso, sia per agitare lo spettro inesistente del pericolo interno, sia, infine, per ergersi da paladino della legge (Law and Order), quella legge che discrimina minoranze e poveri e che non tiene in alcun conto la vita umana (quella degli altri, ovviamente).
La spericolata e disperata rimonta del Presidente in carica non conosce limiti. Cosciente che le elezioni negli Usa non si vincono con il voto popolare, ma si giocano su pochi voti negli Stati chiave (come già fu nel 2000 per George Bush e per lui stesso nel 2016 [3]), egli punta su due assi di attacco. La difesa dell’ordine pubblico, come visto, è il primo e punta ad assicurarsi il voto di quell’elettorato mediocre che fa del proprio quieto vivere l’unico obiettivo da perseguire e non ha alcun orizzonte di giustizia sociale. Il secondo è quello potenzialmente più pericoloso. Dando per scontato che coloro che manifestano in armi e divisa militare per
difendere la propria “libertà” di contagiarsi e di contagiare gli altri, si recheranno sicuramente alle urne, teme che coloro che temono le occasioni per entrare in contatto con il virus voteranno in massa per posta. Il voto per posta è antica tradizione negli Usa ha sempre privilegiato i democratici, senza però mai ribaltare i risultati finali. Questa volta, però, la situazione è diversa perché il ricorso alla corrispondenza si annuncia più massiccio delle altre. Trump punta a delegittimare il voro per posta, ponendo sul piatto della bilancia possibili brogli, senza indicare chi potrebbe perpetrarli. Fidando sul suo fedelissimo Louis Devon, amministratore del sistema postale federale, US Postale Service, tenta di inceppare il meccanismo fino a tentare di negare i fondi necessari
al suo funzionamento.
Lo scenario è quello da paese sudamericano. La sera del 3 novembre le macchie degli Stati sulla cartina dei risultati potrebbe abbondare di zone rosse (il colore dei conservatori), decretando la vittoria di Trump, mentre con una settimana di ritardo il voto per posta potrebbe con buona presunzione, ribaltare il risultato. Il candidato conservatore, forte del suo insediamento alla Casa Bianca, potrebbe gridare al colpo di Stato, avviando una serie infinita di ricorsi per i quali sta predisponendo il terreno; il conflitto istituzionale giungerebbe a punti intollerabili e non è escluso che gruppi armati si suprematisti bianchi scendano in campo [4]. Una prospettiva apocalittica che non dispiacerebbe ai trumpsters.
L’attuale Presidente, come si è visto, pur di arrivare al risultato di una rielezione non esclude alcuna soluzione estrema, convinto come è che le sue sorti elettorali siano difficilmente risollevabili. L’unica carta che ha nelle mani è l’opacità dell’altro candidato, che svetta per la sua mediocrità e per lo scarso appeal. Biden, contro il parere del suo staff, ha accettato i confronti televisivi con il suo avversario; gran parte dell’opinione
pubblica (quell’essere con molte orecchie senza alcun cervello nel mezzo) orienta le sue scelte sulla base proprio di quei confronti, dove Trump, sfrontatamente sicuro delle proprie bugie e della propria capacità di improvvisazione, può stracciare un avversario spesso titubante e dall’eloquio confuso e impreciso nei riferimenti su persone e luoghi. Nonostante la scelta di una candidata alla vicepresidenza grintosa e che da un
po’ di smalto alla sua campagna elettorale Biden non può vincere con le sue proprie scarse forze; solo Trump può agevolare la sua ascesa, inanellando alcune delle sue famose gaffe, nuove o ripescate all’uopo come quella recentissimamente riapparsa sui caduti nella prima guerra mondiale. I due stanno giocando a chi perde di più.
Saverio Craparo
[1] Uso il termine idiota nel senso originario di privato cittadino, poco attento alla cosa pubblica e culturalmente un po’ rozzo. Cfr.: http://www.treccani.it/vocabolario/idiota/.
[2] RICCARDO BARLAAM, Stati Uniti, sorpasso on arrivo del debito pubblico sul prodotto interno lordo, in Il Sole 24 ore, giovedì 3 settembre 2020, a. 156, n° 243, p. 15.
[3] Bush vinse per poche centinaia di voti nella Florida governata da suo fratello e grazie all’intervento della Corte Suprema che
interruppe il riconteggio dei voti che vedeva in continuo assottigliamento il suo esiguo vantaggio. Trump ottenne più di un milione di
voti in meno della candidata democratica, Ilary Clinton, ma si aggiudicò tutti gli Stati del profondo centro.
[4] RICCARDO BARLAAM, Stati Uniti, cit.