La pandemia, gli ultimi e i penultimi

La chiusura di ogni attività e il confinamento in casa della popolazione ha colpito più profondamente tutti coloro che non hanno un lavoro stabile e strutturato e i senza fissa dimora che evidentemente non hanno una casa nella quale rinchiudersi per osservare il divieto di circolazione sul territorio.
Contrariamente a quanto si crede il problema non riguarda solo i cosiddetti ultimi, e cioè le fasce emarginate della popolazione come i poveri assoluti e i migranti, la popolazione nomade, ma anche gli sfrattati, i disoccupati, coloro che non hanno un’occupazione stabile, tutti coloro che vivono ai margini di una società opulenta che non si preoccupa degli “scarti” che lascia lungo il suo percorso.

Il dramma degli ultimi

I senza fissa dimora, sempre più numerosi nelle città, sono evidentemente i più colpiti, privi come sono di alloggio, ma anche della possibilità di frequentare mense e luoghi di ristorazione collettiva chiusi a causa dell’epidemia; tra questi
ci sono anche non pochi espulsi dal mondo del lavoro, che hanno perduto la casa e vivono a volte in un’auto, che trovano nei lavori saltuari e nella carità il sostentamento e con l’interruzione dei rapporti di relazione si vedono privati anche di queste risorse minime. A questi bisogna aggiungere gli occupanti di immobili e coloro che usufruiscono di ricoveri di fortuna e non hanno possibilità di difesa alcuna dal contagio. Per costoro i pericoli per la salute sono tra i mali minori, considerati i tanti problemi che devono affrontare e risolvere. L’assistenza verso queste persone è di fatto stata demandata dallo Stato alle associazioni caritatevoli, ovvero a strutture legate alla Caritas e all’associazionismo religioso e parareligioso che in realtà agisce da sub agente dello Stato che, incapace di interventi organici, cede risorse alle
associazioni per alleviare il disaggio sociale, altrimenti pericoloso per l’ordine pubblico.
In verità per la prima volta con finanziamenti a gestione comunale si sta cercando di introdurre un aiuto e un sostegno diretto da parte degli enti pubblici a queste fasce di popolazione anche se i comuni non dispongono di una rete
efficiente di censimento e sostegno dei settori più disagiati della popolazione e comunque i 400 milioni concessi sono una goccia nell’oceano. Disagi ancora più accentuati sono sopportati dai migranti e non da quelli appena arrivati perché la presenza della pandemia ha permesso di dichiarare i porti italiani come non sicuri, nel tentativo di interdire gli sbarchi anche se crescono sempre di più gli arrivi “autonomi” sulle coste. Ma paradossalmente quella più grave è la condizione di quei migranti che, da tempo presenti in Italia, sono stati clandestinizzati dai decreti Salvini e vivono nelle bidonville al
servizio di un mercato del lavoro clandestino, utilizzato a sostegno dell’agricoltura e non solo, C’è anzi da dire che una ripartenza del paese sarà difficile in molti settori visto il blocco dell’emigrazione stagionale dai paesi dell’Est Europa. È questo un problema comune per tutti i paesi del continente, prova ne sia che, ad esempio. la Germania ha provveduto ad organizzare arrivi in aereo di tale manodopera (200 mila solo dalla Romania!). Sarà quindi
opportuno, necessario ripensare tutta la politica sull’emigrazione per ritornare agli SPRAR, per costrui re un’accoglienza integrata finalizzata a inserire i migranti nel tessuto sociale e produttivo del paese, superando il sostegno a strutture meramente caritatevoli nelle quali parcheggiare queste persone senza poter dare loro delle prospettive di impiego e di lavoro.

Il dramma dei penultimi

Nell’intervenire su questi problemi bisogna guardarsi bene dal limitare l’attenzione ai soli migranti o a privilegiare gli interventi che li riguardano perché in tal modo si rischia di alimentare lo scontro fra le componenti più svantaggiate della società: Ecco perché necessitano azioni di sostegno economico per i disoccupati, per quelli che vivono di lavoro nero, mentre occorre rafforzare le occasioni di lavoro non solo facendo ripartire gli investimenti pubblici, ma avviando un piano di recupero e tutela dell’ambiente, di manutenzione delle infrastrutture e delle scuole, di risanamento del territorio
devastato da un consumo irrazionale e illimitato.
Ma creare occasioni di lavoro non basta e occorre distruggere quella legislazione punitiva dei diritti dei lavoratori che si concentra in quanto previsto nel Job Act. L’abrogazione di quella normativa è presupposto necessario e
indispensabile per assicurare una nuova tutela dei diritti, per garantire la dignità del lavoratore.
Vincendo la tentazione di consegnarsi nelle mani del telelavoro, occorre regolamentare al più presto le modalità con le quali questo tipo di prestazione lavorativa si svolge attribuendo al datore di lavoro il costo delle comunicazioni per il tramite della rete, quello di computer e terminali, quello dell’energia consumata; occorre fare rientrare il costo del pranzo tra quelli sopportati dall’azienda quando il lavoro richiesto eccede le sei ore, tenendo conto che con il telelavoro il datore di lavoro “possiede” in modo globale il tempo-vita del dipendente. Occorre perciò che i contratti di lavoro prevedano fasce temporali di disconnessione, che mettano il lavoratore al riparo da una dominanza pervasiva del datore di lavoro.
Resta il problema da affrontare di nuove forme di partecipazione e mobilitazione del lavoratore che siano in grado di permettergli la difesa dei diritti e perciò occorre una nuova carta del lavoro che tenga conto delle novità intervenute nella prestazione lavorativa. Nella nuova situazione c’è lo spazio per battersi per una nuova politica salariale, anche perché le caratteristiche della prestazione lavorativa stanno cambiando e questi cambiamenti consentono, come abbiamo visto, un controllo ancora più pervasivo da parte padronale sul tempo di vita del lavoratore. Il problema che si pone è
quello delle forme di aggregazioni, che in queste condizioni divengono estremamente difficili, confinando i lavoratori all’interno delle mura domestiche: forme che la pandemia ha accentuato ed a cui si tende ad assuefare la popolazione.
Il distanziamento sociale, consente solo relazioni virtuali con amici, parenti e conoscenti, impedisce nuove relazioni, incide sulla dinamica della socializzazione; dopo questa esperienza saremo divenuti meno convulsi nel nostro stile di vita, ma più rinchiusi all’interno della famiglia; nuclei meno conflittuali forse tra di loro, meno intolleranti verso un diverso che si è fatto più lontano e meno minaccioso e che non insidia il nostro comodo posto di lavoro casalingo, ma certamente più solitari. La forma sindacato necessita di un forte ripensamento della propria struttura organizzativa e della propria funzione di rappresentanza e comunque tutti sono impegnati a trovare gli strumenti comunicativi che, andando al di là di temporanei scambi di convenevoli atti a lenire i sensi di solitudine, ricostruiscano un tessuto sociale capace di
elaborare strategie di ricomposizione di classe e di rivendicazione di diritti collettivi. È proprio questo il terreno necessario da ritrovare, quello della collettività, della comunità, degli interessi condivisi, affinché l’esperienza che stiamo vivendo non costituisca una cesura definitiva o irrecuperabile della tela di interrelazioni umane già fortemente lacerata.