Le conseguenze sulla struttura produttiva

Le conseguenze della crisi economica scaturite dal coronavirus sono molteplici, ma il dilagare epidemico sancisce una rottura definitiva con il modello produttivo fino ad ora perseguito e rappresenta la scintilla che fa deflagrare il sistema.
Nel descrivere la situazione economica del momento nel 2011 individuavamo come modello della struttura produttiva quello che definimmo “sviluppo neuronale, ovverosia di una struttura del sistema produttivo generale fatto di poli di forte produzione e di linee di comunicazioni tra di essi e tra essi e i luoghi di approvvigionamento delle materie prime (corridoi)”.
Già allora ci parve che il sistema avesse dei punti deboli:
1) la concorrenza deleteria al ribasso tra i distretti produttivi e l’alto costo di realizzazione dei corridoi;
2) i limiti della delocalizzazione (difficoltà di insediamenti in aree prive di infrastrutture, l’allargarsi dei conflitti, che rendono inagibili certe zone come l’Ucraina, Turchia, etc.);
3) la perenne ricerca di nuove aree da sfruttare allorché i costi del lavoro salgono al realizzarsi di un relativo benessere in quelle di nuova industrializzazione; conseguente desertificazione e degrado delle aree progressivamente abbandonate e aumento esponenziale di inquinamento e consumo del suolo; l’allargarsi delle nazioni sviluppate in grado di produrre in concorrenza a quelle tradizionali (Cina, India, Brasile).
Ad un decennio di distanza quelle previsioni si sono verificate, ma le cause della messa in crisi del modello si sono moltiplicate. Prima di tutto pesa il costo esorbitante che il trasferimento delle merci comporta: i prodotti finiti sono il frutto di lavorazioni parziali che si verificano in luoghi diversi; talvolta per giungere al risultato i componenti vengono
portati altrove, assemblati ad altri componenti, trasferiti di nuovo con una serie di passaggi estremamente pesanti per i costi e per i tempi. È la scelta della FCA, ad esempio, che dimostra i limiti delle strategie del genio maglioncino Marchionne, all’epoca tanto bravo perché capace di stroncare le organizzazioni operaie, ma dalla vista così corta e miope, tanto da collocare oggi il gruppo in una situazione di estrema debolezza rispetto ai concorrenti. Ora che la crisi del modello diviene evidente si cerca di sopperire alla crisi complessiva del mercato dell’auto forzando i consumatori verso la
scelta dell’auto elettrica per un rinnovo integrale del parco macchine.
In secondo luogo viene al pettine il nodo della strozzatura del rifornimento dei primi componenti in gran parte affidati appunto a Cina, India, Brasile ed altri paesi già in via di sviluppo; laddove, come ora, quei fornitori di pezzi da assemblare vengano meno è il motore complessivo della produzione che rischia di fermarsi.
Infine va messa in conto la dipendenza da materie prime che sono in possesso di paesi che le possono utilizzare come arma di ricatto o di condizionamento del cosiddetto “mondo sviluppato”, che ha pensato finora di poterne controllare imperialisticamente le politiche o controllarne le economie supposte troppo deboli per poter resistere alle
pressioni. Anzi alcuni di questi paesi hanno iniziato a fare un proprio gioco indipendente sullo scacchiere geopolitico, come la Russia in medio oriente e la Cina in Africa.

Ma quale prospettiva si presenta?

Già da alcuni anni un fenomeno nuovo si è affacciato e ha preso consistenza: il reshoring: ovverosia molte aziende che avevano a loro tempo delocalizzato alcune produzioni le hanno riportate o le stanno riportando nel paese d’origine. Non è privo di interesse, per esempio, che Trump abbia fatto una bandiera del favorire ed agevolare le
produzioni interne agli Stati Uniti d’America. Fattori diversi concorrono a scelte similari:
a) il costo della logistica, come visto ormai molto oneroso e con il tramonto della sua importanza il declino della politica dei corridoi, ormai desueti ed eccessivamente costosi. (sia detto per inciso alla luce di queste considerazioni grandi opere, come la TAV, diventano sempre più anacronistiche, fuori tempo e sbagliate);
b) la possibilità di un controllo complessivo sul ciclo produttivo non più soggetto a tempeste politiche sempre in agguato nei paesi terzi; se per una grande aziende è possibile orientare la politica di un singolo paese, diviene meno probabile poter influire su quella di paesi lontani e con strutture e istituzioni o troppo fragili o troppo accentrate.
c) la diversificazione delle fonti di materie prime e di energia è un altro asse strategico che punta ad eliminare una dipendenza pericolosa da altre nazioni, le cui forniture possono essere trattate commercialmente e non sotto la spada di Damocle dell’esclusività. In questo quadro l’accento sulla green economy fornisce un comodo alibi per ripartire dalle risorse di un territorio, valorizzarne le potenzialità, farne rinascere l’economia anche attraverso il ritorno ad usi e costumi locali ormai ritenuti decaduti per sempre.
Questo non significa il ritorno a forme di economia chiusa, autarchica o quasi feudale, ma la proposizione di un modello che potremmo definire “neocurtense”, in cui il mercato globale si affida a produzioni locali che si scambiano con altre produzioni locali ed in cui ogni territorio mira al massimo di autosufficienza possibile.
Vista la rilevanza del fenomeno vale la pena di dedicarvi qualche riflessione.

Il modello “neocurtense”

Nel nostro documento d’analisi della fase del 2011 al punto 8.2 scrivevamo:
“L’economia neocurtense si caratterizza per l’esistenza sul territorio di aggregati, o di “isole”, organizzati economicamente in modo da sottrarsi alla notevole pressione fiscale esercitata dallo Stato, visto come depauperatore della ricchezza prodotta per voler distribuire il reddito sui suoi territori. Queste “isole” si sviluppano spesso a latere dei
comprensori e si appoggiano sulla loro specializzazione e sulle capacità dei comprensori stessi di fare rete, anche se affermano di essere autosufficienti. Spesso queste “isole” ospitano al loro interno e a margine aree dormitorio di immigrati (che diventano elemento costitutivo del mercato del lavoro) e che vengono sfruttati a livelli insopportabili mediante il costo delle locazioni. Le spese di insediamento sul territorio, fornite dalle amministrazioni locali, sono spesso con standard di qualità inferiore ai servizi destinati agli abitanti autoctoni. In tal modo gli immigrati sostengono il modello economico con il loro reddito e con il versamento dei contributi sociali, ma vivono una situazione precaria e possono essere espulsi in qualsiasi momento. I produttori piccoli e medi, ma anche i titolari di insediamenti a carattere multinazionale preferiscono codeterminare e sottomettersi alle forze locali che gestiscono uno specifico territorio per
sfuggire agli oneri di natura economica contratti verso lo Stato”.
Così descrivevamo la nuova tendenza in atto ma l’accentuarsi delle criticità dovute alle carenze di un modello economico basato sulle piattaforme e sulla logistica (quello fino ad ora vigente) hanno indotto a un ripensamento su quale ruolo assegnare alle economie nazionali e di area e a ipotizzare una strategia economica che rielabora il modello neocurtense sopra descritto ipotizzando una economia a chilometro zero come antidoto alla delocalizzazione. Perciò già prima della crisi indotta dal Covid 19 Germania vara un grande piano per la “green economy” e molti paesi si avviano
nella stessa direzione sotto la spianta di un movimento ecologista montante.
Il fatto è che comunque il modello di sviluppo fino ad ora perseguito è giunto ad un collo di bottiglia e la crisi ormai più che decennale in cui navighiamo e da cui non si riesce a riemergere ne è un sintomo evidente. La frantumazione geografica delle filiere produttive, che comportava decentramento delle aziende, delocalizzazione delle lavorazioni, spostamento di merci, ha generato la nascita dei cosiddetti corridoi, con lo sviluppo della logistica e l’ipertrofia del sistema dei trasporti, ha comportato il trasferimento a grandi distanze delle risorse energetiche con metanodotti, oleodotti,
tralicci. Questo fenomeno riguardava anche le produzioni alimentari, il cui spostamento prima in India e poi in Africa, ha devastato le economie locali di sussistenza. Tutto ciò è divenuto troppo costoso e danneggia le aree di più antica industrializzazione e sviluppo dove peraltro sono concentrati i maggiori consumi.
La crisi indotta da Covid 19 impone la necessità della ricerca di soluzioni e pertanto acquistano una credibilità ancora maggiore il ricorso alle energie alternative che si consumano dove vengono prodotte, il reshoring (ovverosia il ritorno nei paesi di origine delle aziende un tempo delocalizzate), le filiere dei prodotti tipici locali consumati a chilometri zero. La crisi nella disponibilità di mascherine di protezione e nella disponibilità di impianti di ventilazione rende evidente quanto sia stato folle smantellare le produzioni nazionali e delegare solo a Cina India e Vietnam la produzione di
supporti sanitari di protezione. In altre parole è la grande distribuzione a tenere sotto controllo il sistema produttivo polverizzato.
Tuttavia ciò non comporterà presumibilmente la ricostituzione dei giganteschi centri produttivi di un tempo, con le conseguenti pericolose concentrazioni operaie o un rientro in massa delle produzioni, ma accentuando ruolo e importanza della “green economy”, stimolerà il mantenimento di capacità produttive strategiche per i diversi settori a livello locale. La rivoluzione digitale permette un controllo centralizzato di una miriade di microaziende disseminate sul territorio; consente inoltre il ricorso al telelavoro e alla polverizzazione delle aggregazioni sociali.
Si crea sul territorio un reticolo di aree a gestione autonoma e tuttavia le aree di sviluppo e di sottosviluppo si intersecano e si scambiano nel tempo. Benché si tenda a produrre il più possibile all’interno di ogni singola zona o area territoriale in un’ottica di autoconsumo non si tratta di una economia chiusa. C’è bisogno di commercio e di scambi soprattutto in una struttura produttiva come quella descritta nella quale continueranno comunque ad esistere specializzazioni e nicchie produttive. Perciò le vie di comunicazioni devono essere molteplici ed efficienti e questo vale soprattutto per il trasporto e la distribuzione di energia, ma anche per le merci. La contiguità frequente con i distretti produttivi – che conservano un loro ruolo – farà il resto.
La natura di queste cellule produttive autonome, di questi territori, dal punto di vista istituzionale è destinata a trovare una ricomposizione in entità sovranazionali di dimensioni continentali, gestori della forza militare che ha funzioni di polizia interna all’area, più che di difesa esterna e che hanno sperimentato con la crisi in atto forme penetranti di controllo sociale e comportamentale.
Il modello descritto è ancora dai contorni incerti e non si veda come possa reggere il confronto con gli effetti della crisi demografica che ha portato all’invecchiamento della popolazione europea e consentire il sostentamento dei soggetti deboli, anziani e malati, che riversano sul volontariato il peso del loro mantenimento o cercano rifugio in aree estere, che fanno la corsa per attrarre i pensionati, dove mettere meglio a frutto l’ammontare dei loro redditi. Ciò che rimarrà sarà una crisi drammatica del welfare.

Gli effetti sulla prestazione lavorativa

La disseminazione su vasta scala del ciclo produttivo ha dato il colpo di grazia alla possibilità del controllo su di esso della classe lavoratrice, già minato a partire negli anni settanta ed ottanta del secolo scorso dalla frammentazione della grande fabbrica, dalle esternalizzazioni dei reparti, dal ricorso intensivo all’indotto, dalla precarizzazione del
rapporto di lavoro.
Non si deve credere che il nuovo modello “domestico” prospettato più sopra comporti un riappropriazione della conoscenza dell’intero ciclo delle lavorazioni da parte dei lavoratori, ché da quegli anni bui di sconfitta di un ciclo di lotte le condizioni non sono migliorate: la direzione tecnica della produzione è ormai fuori dalla fabbrica dove si effettuano le lavorazioni; sempre di più le competenze sono decentralizzate, le prestazioni lavorative hanno subiscono una forte accelerazione verso una più spinta precarizzazione.
Ma c’è anche il fatto che l’emergenza epidemica ha accentuato fortemente il ricorso al telelavoro, pensato e sentito ormai come norma e non più come eccezione; ed il telelavoro espropria completamente il lavoratore della possibilità di riconnettere la propria prestazione a quella di altri, lasciando tale capacità alla sola direzione tecnica. Con l’aggravante della destrutturazione di ogni connettività sociale, che si riconnette alla desertificazione dei luoghi di aggregazione che non siano quelli di puro svago ed evasione, dove le frustrazioni e la perdita del senso del vivere affogano nel mare dell’inutilità, nella reciproca sostanziale indifferenza.
C’è poi da fare una riflessione sui costi economici di questa trasformazione.
È pur vero che se il sistema andrà a regime sarà presumibilmente compito del datore di lavoro occuparsi dei consumi, dei costi di fornitura, manutenzione, installazione e riparazione di attrezzature e di tutte le misure necessarie a consentire l’utilizzazione di tale modello produttivo, ma non vi è dubbio che con queste modalità della prestazione
l’imprenditore scaricherà sul lavoratore i costi di gestione di affitti, impianti e molte altre voci di quello che si chiamava capitale fisso. Per quanto attiene al settore pubblico, invece, il telelavoro è disciplinato dalla legge n. 191/1998 (meglio nota come Bassanini ter) congiuntamente col d.p.r. 70/99 e con l’accordo quadro dell’8 giugno 2011. Più recentemente è stato introdotto anche il “decreto Crescita 2.0”, contenente l’obbligo, per le P.A., di stilare un piano per l’attività telelavorativa, specificando come essa si deve sviluppare ed in quali casi non si possa utilizzare.
Benché il trattamento retributivo e disciplinare dei dipendenti è rimesso alla contrattazione collettiva e nazionale, i diritti, ed i relativi doveri dei telelavoratori sono solo sulla carta uguali a quelli dei dipendenti che operano direttamente all’interno della struttura delle aziende. E tuttavia quelle che hanno utilizzato il telelavoro hanno registrato un incremento della produttività pari al 35-40% ed un decremento dell’assenteismo pari al 60%.
È indubbio che con tali modalità delle prestazioni lavorative i padroni realizzano un sogno: il possesso globale del tempo del lavoratore del quale potranno possedere l’anima.

Cosa resta della globalizzazione?

L’esperienza ci ha insegnato che la globalizzazione, anziché essere la soluzione dei problemi economici come hanno cercato di farci credere, ha permesso il formarsi di agglomerati finanziari immensi, concentrando in pochissime mani le leve del potere e con esse le ricchezze. Per i lavoratori ha significato una perdita di forza contrattuale, grazie al permanente ricatto occupazionale. I frutti evidenti di mercati globali privi di regolamentazioni sono stati una crescita smisurata delle diseguaglianze, un’aggressione sconsiderata alle risorse del pianeta, una crescente precarizzazione del
mercato del lavoro, una destrutturazione dei sistemi formativi, una crisi endemica dell’economia pagata ovviamente dagli strati più poveri della popolazione e dai paesi più marginali. La “pandemia” del Covid-19 ci insegna ora che la globalizzazione comporta anche l’insicurezza sanitaria, laddove merci e persone circolano fuori controllo, provenendo da paesi con sistemi sanitari non affidabili; quegli stessi paesi che praticano il dumping sociale, forti dell’assenza di organizzazioni sindacali; è ovvio, tra l’altro, che queste aree franche dal conflitto sociale, dalle regole del rispetto igienico, della salvaguardia ambientale hanno fatto molto comodo a coloro che in questi anni si sono tremendamente arricchiti.

Che fine ha fatto l’austerity?

Ma il cadavere più ingombrate che resta sul terreno è quello della politica dell’austerità. Di fronte all’emergenza che investe progressivamente tutti i paesi, ed in particolare quelli cosiddetti avanzati, a riprova che questo virus viaggia comodamente in business class, l’Unione Europea ha dismesso il pareggio di bilancio dai propri obiettivi primari e tutti i governi annunciano misure massicce di aiuto all’economia finita in panne. A fronte di quanto annunciano di stanziare gli altri. il pacchetto di 25 miliardi messo sul tavolo dal governo italiano appare aria fresca (anche se altri interventi sembrano dover arrivare)
Germania, Francia e Spagna parlano di centinaia di miliardi. Il governo britannico, in colpevole ritardo, promette 500 miliardi di sterline, con le quali Johnson, il borioso, spera di recuperare un po’ del consenso perso e soprattutto di ammortizzare o edulcorare gli esisti nefasti conseguenti alla Brexit. L’altro pannocchione di oltreoceano, anche lui partito da posizioni minimaliste, pensa addirittura a mille miliardi di dollari, un’autentica atomica sganciata sul sistema produttivo statunitense; ma guarda caso questo negli Stati Uniti d’America è anno elettorale! Che interessa più l’inflazione (tanto i salari non ne sono tutelati)? Cosa interessa più il fardello di debito lasciato sulle spalle delle future generazioni? Questi erano argomenti validi nel pieno vigore del paradigma neoliberista; ora che lorsignori temono una stretta formidabile del mercato globale e con essa un calo incontrollabile dei loro “sacrosanti” profitti, occorre immettere liquidità nelle ruote inceppate, disincagliarle dal pantano per far ripartire il meccanismo. Sembra che finalmente si siano accorti che se l’economia non gira non c’è austerità che tenga: è necessario alimentare il mercato e la ripresa moltiplicherà gli effetti, ripagando in tasse quanto esborsato in tempi di crisi!
Con buona pace dei rigoristi del monetarismo che hanno imperversato sulla scena in questi ultimi cinquant’anni.