Il virus è una cartina di tornasole

L’erompere del contagio da Covid-19 impone una serie di riflessioni su ciò che
comporta a tutti i livelli (sociale, economico, lavorativo, personale), sia immediatamente che a più lungo termine la pandemia in atto. È nostra convinzione che il panorama della struttura socio-economica e dei rapporti sociali e produttivi che uscirà da questa fase di crisi sarà fortemente mutato rispetto a quello che era precedentemente. A queste problematiche è dedicato questo numero della rivista.

E le libertà personali?

Tutta l’Italia vive in questi giorni un clima che nessuno di noi (se non i pochi molto molto anziani che hanno ricordi antecedenti al 1945) ha mai visto: città deserte, file
agli “spacci”, silenzio, traffico azzerato; un vero e proprio clima di guerra. La
constatazione immediata è che la gran parte della popolazione si è rapidamente adattata alle nuove regole imposte dal dilagare dell’epidemia. Indagheremo successivamente quali siano le cause reali dell’allarme dilagante per una malattia che ha colpito a tutt’oggi al massimo lo 0,05% della popolazione e che, si dirà anche grazie alle restrizioni imposte, non supererà ragionevolmente lo 0,5% (300.000 contagi
sarebbero in percentuale rispetto alla popolazione, più di quelli conteggiati in Cina). Quello che ci chiediamo e se queste imposizioni violino le libertà dell’individuo, e se come comunisti anarchici riteniamo che queste stesse libertà vadano comunque preservate.
È senza dubbio diritto di ognuno di decidere come condurre la propria vita, come concluderla, come porla a rischio. La rivendicazione di tale diritto sic et simpliciter è patrimonio teorico dell’individualismo borghese, che tanta strada ha fatto purtroppo nelle file dell’anarchismo. Esso infatti è ammissibile solo nel caso che l’individuo viva isolato e non si ponga in interrelazione con i suoi simili, non dipenda da essi per il proprio approvvigionamento e per la propria stessa sopravvivenza. La realtà è ben diversa. L’essere umano è un animale sociale e quello che ha costruito non è il frutto
di contributi individuali, pur importanti, ma è il risultato del proprio vivere in società; oggi gli individui vivono strettamente correlati tra di loro con legami la cui dissoluzione è impensabile.
Di questo i comunisti anarchici sono consapevoli e da questa consapevolezza traggono la conclusione che la libertà individuale va difesa, ma solo fino al punto in cui non si riveli dannosa per gli altri: non sono cioè difendibili comportamenti che non pongano a rischio solo la propria incolumità o la propria esistenza, ma mettano in gioco quella dei
nostri simili, che hanno tutto il diritto di tutelarsi da scelte che non condividono. I comunisti anarchici ripongono la loro fiducia nel sapere collettivo, nello scambio di idee tra tutti gli appartenenti al consorzio umano; pensano che le scelte debbano scaturite dal basso e non essere imposte dall’alto. I comunisti anarchici non sono contro il potere perché rifiutino le regole in se stesse, ma sono contro di esso perché le regole sanno darsele da soli, quali individui coscienti della propria collocazione sociale. Sono contrari a subire le regole, perché sanno imporsele, quando necessarie e quando non violino
diritti degli altri; non sopportano le imposizioni, ma non perché nutrano un’insofferenza ribellistica ed infantile al potere, ma semplicemente perché non ne hanno bisogno.

Tutto quello che succede è giustificato?

Le file sono ordinate, gli spostamenti limitati; gli italiani reagiscono bene e  rispettosamente; non si lamentano, ma cantano alla finestra. Ci rimane una sensazione un po’ salata sul palato: tutte le misure adottate sono strettamente giustificate o tecnicamente ineccepibili? Certo fa specie sentire gli “esperti”, i virologi, spiegare il senso di alcune disposizioni. Da un lato si è detto che il virus non sopravvive che poche ore sugli oggetti su cui gli capita di depositarsi; allora che senso hanno le disinfestazioni cittadine che vedono le proprie strade pressoché prive di frequentazioni? Si è detto che esso non si trasmette per via aerea, ma solo tramite fluidi organici come la saliva; ma allora che senso ha proibire le passeggiate solitarie o la frequenza dei parchi pubblici? Si dice, quindi, che l’eventuale stilla di saliva può essere trasportata da un alito di vento, oltre la distanza indicata di un metro, un metro e mezzo, da mantenersi tra gli uni e
gli altri; ma allora perché ciò dovrebbe avvenire al passeggiatore solitario o nei pubblici parchi e non nelle ordinate file davanti ai supermercati ed agli esercizi aperti al pubblico; forse che queste ultime sono immuni dagli aliti di vento? Si è detto che occorre lavarsi le mani di frequente, ed allora perché non invitare gli addetti ai pubblici sportelli a disinfettare le superfici su cui lavorano ed a lavarsi le mani subito dopo aver ricevuto un utente? Si è detto di evitare gli assembramenti; ma gli operai continuano ad andare in massa a lavorare in ambienti, già di per sé malsani, sommando nocività a nocività e i provvedimenti del Governo per tutelarli sono lacunosi e insufficienti. Insomma nasce il sospetto che tanta frenesia regolatoria (forse un poco utile e limitare il diffondersi del contagio), di fatto non concorra a creare panico ed ansia (anch’essi psicologicamente molto dannosi) costringendo tutti ad assuefarsi ed a genuflettersi acriticamente. L’operazione è stata agevolata da una sapiente progressività delle misure adottate, da una campagna martellante intrisa da uno stucchevole afflato patriottico, che hanno contribuito all’assuefazione. L’adesione a comportamenti rispettosi dell’altrui incolumità deve nascere dalla consapevolezza e non dal panico indotto; la popolazione va educata e non terrorizzata.

Il sistema sanitario: alcuni numeri

Quanto sta avvenendo fa emergere drammaticamente la mancanza di coordinamento dei sistemi sanitari nazionali in Europa malgrado che la Carta di Lisbona lo preveda. Recita infatti la Carta che «nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche e attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana». L’obiettivo deve essere raggiunto mediante il sostegno dell’Unione agli Stati membri, nonché favorendo la cooperazione. Tuttavia la responsabilità primaria per la tutela della salute e, in particolare, per i sistemi sanitari rimane degli Stati membri (ed in Italia è devoluta per gli aspetti organizzativi e gestionali alle Regioni), mentre all’UE spetta un ruolo importante nel miglioramento della sanità pubblica in termini di prevenzione e gestione delle malattie, limitazione delle fonti di pericolo per la salute umana e armonizzazione delle strategie sanitarie tra gli Stati membri.[1]
Ciò malgrado la Carta di Nizza impegna l’U.E. a proteggere i cittadini dalle minacce per la salute,: essa dovrebbe rafforzare la vigilanza, nonché la preparazione alle epidemie e al bioterrorismo, migliorando altresì la capacità di reagire alle nuove sfide per la salute come ad esempio i cambiamenti climatici e “sostenere sistemi sanitari dinamici, aiutare i sistemi sanitari degli Stati membri a raccogliere le sfide poste dall’invecchiamento della popolazione e dalle crescenti aspettative dei cittadini, nonché dalla mobilità dei pazienti e degli operatori sanitari”.
Tuttavia per effetto del patto di stabilità e delle politiche restrittive della spesa pubblica tutti i paesi d’Europa hanno attuato delle scellerate politiche di ridimensionamento del sistema sanitario. In particolare si sono distinti per i tagli alla sanità Italia, Inghilterra e Spagna.
Se si guarda ai dati attuali l’Italia fa peggio di Stati Uniti (dove però la sanità pubblica praticamente non esiste) che spende il 14,3% del Pil, della Germania (9,5%), della Francia (9,3%) e del Regno Unito (7,5%), ma è sostanzialmente in linea con la media Ocse, ferma al 6,6%. Sotto di noi solo i paesi dell’Europa orientale, Spagna, Portogallo e Grecia. In numeri assoluti ciò si traduce in un esborso per lo Stato di 2.326 euro a persona (2mila meno della Germania), complessivamente 8,8 miliardi in più ma in valore nominale rispetto al 2010. Un tasso di crescita dello 0,90%, dunque, che con l’inflazione media annua all’1,07% che si traduce in un definanziamento di 37 miliardi.
Il grosso dei tagli è avvenuto tra il 2010 e il 2015 (governi Berlusconi e Monti), con circa 25 miliardi di euro trattenuti dalle finanziarie del periodo, mentre i restanti 12 miliardi sono serviti per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica tra il 2015 e il 2019 (Governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I). Nello stesso periodo il personale dipendente, è calato di 46mila unità (tra cui 8mila medici e 13mila infermieri). I mancati investimenti si fanno sentire soprattutto nel sud Italia, dove tutte le Regioni (eccezion fatta per il Molise) spendono meno della media nazionale. Se si valuta la spesa in termini reali, il livello del 2018 è all’incirca uguale al livello del 2005, prima della grande impennata che si verificò fra il 2006 e il 2010.
Prima dell’inizio della crisi l’Italia aveva a disposizione 164mila posti letto per pazienti acuti (272 ogni centomila abitanti), un terzo in meno del 1980 rispetto ad oggi. I posti in terapia intensiva erano invece poco più di 3.700, che diventano 5.300 (8,4 ogni 100mila abitanti) se consideriamo anche le strutture private. Per il numero di posti letto per
abitante l’Italia risulta (dati del 2017) al 67° nel mondo ben dietro anche a paesi del cosiddetto terzo mondo (Mongolia, Gabon, Cuba, Sri Lanka, etc.); i posti in terapia intensiva sono meno di 1 ogni 10.000 abitanti (poco più di 5.000 per 60 milioni di abitanti), contro i 3,1 della Germania (25.000. per una popolazione di 81 milioni).
È utile precisare anche che la Lombardia nelle classiche nazionali delle regioni in merito alla sanità non figura mai in cima, non andando mai oltre il quinto posto, tranne che nel caso del costo per abitante dove, a parte la provincia autonoma di Bolzano e la valle d’Aosta, primeggia di gran lunga con notevole distacco dalla seconda classificata, il
Piemonte, grazie alla “sapiente” politica di privatizzazione che ha perseguito da alcuni decenni. Il problema maggiore per il servizio sanitario lombardo è che i cittadini che non riescono a fissare visite ed esami diagnostici attraverso il Servizio Sanitario regionale; le liste d’attesa sono infinite e spesso risultano chiuse fino al 2020 e questo malgrado il fatto che la Regione destini 2 miliardi/anno ai privati accreditati e i 1,2 miliardi di euro/anno che le stesse strutture guadagnano con le visite e gli esami diagnostici. Per intervenire su questa situazione il documento programmatico “Sanità: regole 2019” prevede una “svolta epocale” nell’organizzazione dei servizi sanitari della Regione trattenendo 35 milioni all’anno del budget destinato ai privati a gestione degli uffici di sanità pubblica. L’esame dei dati che abbiamo riportato, se pur limitati a una sola regione (ma significativa) dimostra che l’impoverimento del sistema sanitario pubblico ha tra le proprie cause la privatizzazione del servizio pubblico. Le scellerate politiche nazionali nell’allocazione delle risorse hanno fatto il resto!

Una politica dissennata

La politica di ridimensionamento del sistema sanitario ha seguito criteri che avevano come linee guida il mero ridimensionamento della spesa. Questa scelta è stata purtroppo facilitata da ruberie e sprechi (famose le differenze di costi per una siringa o una prestazione da Regione a Regione). Ma invece di procedere alla razionalizzazione della spesa è stata disposta ovunque la chiusura dei piccoli ospedali, con il risultato di centralizzare la cura in grandi ospedali invece di distribuire le terapie meno invasive e le patologie meno gravi sul territorio, con il risultato che i grandi ospedali in situazioni di emergenza quale quella che stiamo vivendo sono costretti a respingere le patologie più comuni. Si è insomma dimenticato che le malattie più comuni non vanno in vacanza. Inoltre con questa scelta i territori sono rimasti sguarniti, con grave danno per gli interventi di urgenza, ad esempio i parti (diminuiti a causa della crisi demografica) ma
che spesso avvengono in ambulanza durante il trasporto alla maternità più vicina!
La necessità di ridimensionamento della spesa ha portato a una carenza di attrezzature per cui si sono privilegiate le spese per alcuni reparti come quelli cardiologici e oncologici, a tutto danno delle cosiddette patologie minori. La spesa in attrezzature e in assunzione di personale è stata distribuita allocando le risorse a seconda della tipologia di reparti.
Contemporaneamente è stata adottata la scelta scellerata del numero chiuso a medicina, seguita da una assoluta carenza di finanziamento per i periodi di specializzazione dei laureati, con il risultato di ostacolare o, nel migliore dei casi, ritardare l’immissione di nuovi medici sul mercato del lavoro, pregiudicando le nuove assunzioni, con il risultato che il blocco del turnover nelle assunzioni e i pensionamenti anche precoci con quota cento hanno portato alla uscita accelerata dal lavoro di migliaia di medici e infermieri. In pratica mancano oggi 56.000 medici a causa dell’assoluta carenza per i medici ospedalieri di contratti di lavoro autonomo, anche per lo svolgimento delle funzioni ordinarie (la necessità della specializzazione è ora stata rimossa nell’ambito della legislazione emergenziale). Lo stesso dicasi per gli infermieri per i quali si registra oggi una carenza che va da 10.000 a 20.000 unità di personale. Senza considerare che il blocco del turnover ha reso l’Italia il paese con la classe medica più anziana d’Europa. Insomma il sistema sanitario italiano era già in affanno prima del Covid-19, con il personale sottoposto a turni massacrati per le suddette carenze di organico; anzi si può dire che è proprio l’affanno del sistema che giustifica l’allarmismo e le misure di contenimento.
Questa pressione sugli ospedali potrebbe essere supportata da un efficace struttura del sistema dei medici di famiglia i quali invece sono diventati dei burocrati prescrittori di ricette in molti casi perdendo l’abitudine di curare a casa il malato. Del resto le lunghe liste d’attesa per gli esami per i non ospedalizzati fanno propendere quando possibile per il ricovero e il ricorso al 118. Dovrebbero sostenere questa azione le farmacie intesi come presidi sanitari sul territorio, ma molti farmacisti, soprattutto nei piccoli centri, hanno visti tagliati i loro introiti dalle parafarmacie spesso non dotate di personale altrettanto qualificato in campo sanitario e sono appesantite da una gestione economica di costi e ricavi che prevede una forte esposizione finanziaria del farmacista per anticipare i rimborsi ASL e approvvigionarsi di medicinali.
A queste considerazioni si aggiungono problemi gestionali in attrezzature e dotazioni e regolamenti standard inesistenti a causa della gestione regionale del sistema sanitario che ha finito per dar vita a sistemi sanitari regionali, ognuno con proprie caratteristiche e con differenze abissali in quanto ad efficienza e efficacia dei servizi forniti, con il risultato che in tempi non pandemici è in atto una migrazione sanitaria costante dalle aree meno servite verso quelle più efficienti, con un giro di affari che alimenta la cosiddetta spesa della disperazione e dell’ultimo estremo tentativo per salvarsi e condanna le regioni del sud a finanziare con i rimborsi le strutture sanitarie del resto del paese.
Nell’insieme il sistema sanitario del paese, benché sia complessivamente un buon livello, presenta elementi di debolezza strutturale derivanti dalle politiche di privatizzazione che hanno visto crescere il ruolo del privat convenzionato soprattutto in Lombardia e in Veneto, con il progressivo impoverimento del rapporto tra strutture
pubbliche e territorio.

[1] L’UE ha adottato in materia di strategia sanitaria il programma «Salute per la crescita» (2014-2020), accompagnato da un’insieme di norme di diritto derivato che
comprende la Direzione Generale della Salute e della sicurezza alimentare (DG SANTE) della Commissione e alcune agenzie specializzate, in particolare il Centro
europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA). In generale però tali organismi riguardano gli effetti
economici della produzione dei farmaci e l’agroalimentare. Il ruolo del ECDC è marginale.