Le hai volute le elezioni….

Finalmente Corbyn è arrivato al tanto sospirato traguardo elettorale e … che scoppola! Il Labour è ai minimi storici.
Indubbiamente ha pesato la sua cultura britannica, fatta di orgoglio immotivato e di isolazionismo isolano. Il non avere preso una posizione chiara sulla Brexit, avere oscillato tra la richiesta di un nuovo referendum e la proposta di un’uscita concordata non ha certo
entusiasmato l’elettorato. Dopo il fallimento di Theresa May, sull’onda di sondaggi favorevoli ha caparbiamente scelto la via delle elezioni anticipate, senza porre un visibile distinguo tra la propria posizione e quella di Boris Johnson, nell’illusione di essere
portatore della capacità di negoziare un nuovo accordo, possibilità che anche un cieco vede irrealizzabile (Irlanda, Gibilterra, etc.).
Non si è reso conto che al numero 10 di Downing Street c’era un nuovo inquilino, il rinoceronte color pannocchia, deciso a tutto, anche a sospendere illegittimamente i lavori parlamentari. Con la sua decisione il leader conservatore ha fagocitato il Brexit Party,
accreditato di uno splendido quanto evanescente futuro.
Con questo clamoroso insuccesso Corbyn non solo si è consegnato al pensionamento, ma ha restituito il suo partito all’apparato cui lo aveva strappato promuovendo uno spostamento dalla tradizione blairiana imperante verso una riproposizione di
una politica più autenticamente socialdemocratica.

Una strategia sbagliata

L’analisi sociale cui ha fatto riferimento Corbyn era condivisibile: la cappa liberista imposta dai vertici dell’Unione Europea è una camicia di forza che impedisce la rinascita di un reale movimento politico che tenda a riequilibrare i dissesti creati dalla politica
economica “rigorista”, prona ai bisogni del sistema bancario e finanziario. Da questa nasceva la posizione favorevole alla Brexit del partito laburista corbyniano. Non gli fu chiaro che la fuoriuscita dall’Unione avrebbe collocato, come collocherà, la (Gran) Bretagna in un altro contesto altrettanto liberista, quello degli Stati Uniti d’America, in cui, per altro, il paese giocherà un ruolo molto più marginale di quello attuale: da uno dei paesi pesanti dell’UE ad uno dei paesi satelliti, e in aggiunta periferico, dell’imperialismo
nordamericano. Ma dopo questo primo errore di prospettiva, il secondo, esiziale, è stato quello di non considerare lo scorrere del tempo; quello che poteva essere capitalizzato era la resipiscenza di coloro che via via si sono resi conto degli effetti negativi portati
dalla Brexit; invece di giocare la carta di un referendum secco, Corbyn si è presentato all’elettorato con una proposta pasticciata: un nuovo chimerico accordo con Bruxelles da sottoporre,  questo sì, a referendum in contrapposizione ad un remain; tempi biblici per un
elettorato stanco delle manfrine infinite e bisognosi di soluzioni certe e rapide. È per questo che molti elettori laburisti del nord del paese hanno votato per Johnson, per un verso restando fedeli all’idea della Brexit, e per un altro per uscire, senza divenire realmente conservatori, dalle secche della politica londinese, ben rappresentata da Corbyn.

L’analisi dei dati elettorali

Sul “Sole 24 Ore” a p. 3 di sabato 14 dicembre 2019 (a. 155°, n° 344) tale Nicol Degli Innocenti annuncia perentoria: “la maggioranza dei cittadini britannici vuol lasciare l’Unione Europea”. Ma è proprio così? Mai si dirà troppo male del sistema elettorale vigente in Gran Bretagna, vecchio di oltre tre secoli: un sistema maggioritario a turno semplice dove chi ottiene anche un voto in più nel singolo distretto viene eletto. Il problema già evidente nel 1700 (noto come quello dei “borghi putridi”) e che vide la prima correzione nel 1832 risiede nel fatto che gli spostamenti demografici rendono fortemente ineguali i distretti, cosicché il numero degli elettori che mandano un deputato in parlamento varia enormemente da luogo a luogo; senza considerare che paradossalmente può
vincere a livello nazionale chi prende meno voti, se la sua distribuzione territoriale è più consona al risultato (come è successo a Trump negli Stati Uniti nel 2016, che  complessivamente ha preso 1 milione di voti in meno di Clinton: i due sistemi hanno molte
affinità). Ne sia testimonianza il fatto che i liberaldemocratici, da sempre il terzo partito del paese, hanno conseguito un aumento del 4,2% rispetto alle precedenti elezioni ed un deputato di meno.
Venendo all’affermazione sopra riportata la travolgente vittoria dei conservatori vede 365 seggi su 650 (pari 56,2%) a fronte di un risultato elettorale nettamente inferiore ( 45%) e che i loro voti sommati ai poveri resti del partito di Farage ci dicono che i brexiter non sono la maggioranza. D’altra parte un analisi territoriale del voto ci dice che il cuore pulsante dell’economia britannica, Londra, rimane saldamente in mano ai laburisti, il che accentua la divisione tra città e campagna, come sta avvenendo un po’ ovunque nel mondo.
Il problema è che sempre più il cosmopolitismo diviene patrimonio delle classi dominanti: la globalizzazione fa fraternizzare i potenti senza patria. Nel mentre le classi subalterne, prive di un ancoraggio occupazionale (lavoro sempre più precario, destrutturazione dei poli industriali, impossibilità di controllo su di un ciclo produttivo disseminato, scomparsa di centri di aggregazione sociale), ripiegano su di una deriva identitaria e isolazionista: si difende la “razza” e la comunità limitrofa, individuando un falso nemico nel diverso in luogo del nemico di classe; un sostanziale spostamento a destra generalizzato.

Le conseguenze interne del voto

Dopo la comprensibile esultanza per il risultato del voto, che fu molto deludente per May, a Johnson si presentano i veri problemi. Due sopra di tutti: Irlanda del Nord e Scozia. In entrambe le regioni il suo messaggio è stato clamorosamente disatteso. In Irlanda del Nord il partito unionista che ha supportato i due più recenti governi conservatori è stato pesantemente sconfessato, tanto da dare la palma della vittoria, per la prima volta nella storia del paese, al partito cattolico; ciò in odio alla prevista barriera di confine tra
il Nord e la Repubblica Irlandese, che molto danneggerebbe il commercio che è fiorito tra le due parti dell’isola, supportandone l’economia; senza considerare che la comune appartenenza all’UE ha favorito l’integrazione tra i seguaci delle due confessioni
religiose, anglicani e cattolici; pacificando il paese. Ciò rende, in vista di una soluzione confusa del problema del confine, appetibile per gli irlandesi del Nord, una riunificazione con gli altri irlandesi ed una permanenza nell’Unione e su questa linea già stanno
pensando di muoversi i leader del partito cattolico nordirlandese La Scozia è un problema ancora più spinoso. Già gli scozzesi si erano battuti per un referendum indipendentista che li rendesse autonomi da Londra. Lo ottennero e lo persero nel 2014. Ma allora la Brexit era lontana a venire. Ora possono ragionevolmente sostenere che le regole del gioco sono cambiate per colpa degli inglesi, che loro hanno sempre votato in massa contro l’uscita dall’UE e che nelle ultime elezioni il partito indipendentista ha conosciuto un voto plebiscitario. La leader del SNP ha già detto che chiederà un nuovo referendum; Johnson si opporrà, ma ciò riscalderà gli animi accentuando le tendenze secessioniste che sarà nel corso del tempo sempre più difficile reprimere. Occorre ricordare che le riserve petrolifere della Gran Bretagna si trovano nel Mare del Nord, di pertinenza scozzese. Anche un altro popolo gaelico, quello gallese, ha votato contro i conservatori, seppure la loro importanza economica, dopo la decarbonizzazione, è divenuta marginale.

Il quadro internazionale

Giustamente dal suo punto di vista Trump ha esultato per il risultato del voto britannico; l’attrazione della Gran Bretagna nell’orbita economica statunitense (la riunificazione dei paesi anglosassoni, che rende, pensano, l’Atlantico un mare interno, anche se le sue dimensioni sono ben superiori a quelle della Manica) è sicuramente, un successo che si affianca alle manovre per farvi rimanere Hong Kong. La storia ha invertito i ruoli tra paese madre e colonia, ma il prossimo presidente USA dovrà riflettere se poi l’esito sia così conveniente: l’Unione Europea non avrà più al suo interno la quinta colonna inglese, sempre affine alle politiche d’oltre oceano, guadagnandone in compattezza e la Gran Bretagna da tempo non è più una potenza industriale e uscendo dall’UE indebolisce il proprio ruolo di sua capitale finanziaria; non è un caso che la City si sia sempre opposta alla Brexit. Per altro si rompe l’asse franco-inglese che tanto ha condizionato la politica europea nel nord Africa; la Francia dovrà rafforzare l’alleanza con la Germania, rendendo sempre più forte l’egemonia tedesca sull’Unione, cosa ben vista da Macron, che ne diventa il partner principale. Il recente vertice tra Macron, Merkel e, minus inter pares, Conte sulla Libia ne rappresenta le avvisaglie.

La UE perde pezzi

D’altra parte l’Unione Europea, in concomitanza dell’uscita della Gran Bretagna, evidenzia i limiti di un allargamento precipitoso. Non c’è solo la riottosità del gruppo degli ex paesi dell’est ad adeguarsi ad una politica comune sulle ondate migratorie; in questi giorni la Polonia si è rifiutata di sottoscrivere il protocollo comune sul controllo del clima. Le spinte centrifughe stanno aumentando e quando i benefici delle sovvenzioni europee non saranno appetibili quanto lo sono attualmente le divergenze saranno meno governabili. L’Unione Europea rischia l’immobilismo o, in alternativa, concentrare il potere nelle istituzioni comunitarie: l’unione bancaria ne è uno strumento. La seconda prospettiva non può che rafforzare le spinte centrifughe.

C’era una volta la City

Le conseguenze più immediate saranno a carico della finanza britannica, il cui declino è già iniziato; aziende e banche di primaria importanza hanno già abbandonato o pensato di abbandonare la capitale inglese. Il futuro dei molti lavoratori europei che si sono recati soprattutto a Londra vista come la patria delle opportunità, ora appare incerto. Un rallentamento dell’economia (l’uscita senza accordo, ora più probabile che mai, comporta secondo autorevoli analisi una riduzione del PIL del 10% in tre anni) ridurrà occupazione e posti di lavoro ed i primi a farne le spese saranno proprio loro. Con essi rientreranno nei propri paesi di provenienze quei lavoratori intellettuali che molto hanno contribuito al progresso dell’economia britannica. Anche i valori immobiliari vanno incontro ad una riduzione importante. Tutto ciò, a mio avviso, ridimensionerà drasticamente il ruolo centrale della città, che invece di essere la capitale finanziaria dell’Unione Europea, sarà una delle tante megalopoli della periferia dell’impero statunitense.
Dio confonde chi vuole perdere!

Saverio Craparo