Sono passati 25 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè ma è ancora vivo il suo pensiero, la sua ricerca musicale e di ciò che ha trasmesso in termini di lirica e di impegno politico nel suo significato più alto. Mi soffermo proprio sul percorso personale che diede vita ad rivoluzione canora che ha preso le mosse dall’influenza degli chansonnier francesi e in particolare con i dischi di Brassens che gli aveva regalato il padre, fino alla sua ricerca e valorizzazione dei dialetti italiani. Brassens divenne il suo maestro di vita che gli ha confermato le sue idee anarchiche, ma è stato un esempio musicale che gli ha dato aperture tecniche sull’uso della chitarra. Maturò la consapevolezza che, come suggeriva Brassens nelle sue canzoni, tutto scaturiva dai problemi sociali e da quelli morali che spesso contrastano tra loro. La morale secondo Fabrizio De Andrè è un complesso di leggi istituito dalla classe al potere tanto da creargli molti problemi con la Chiesa cattolica dopo l’aspra critica ai dieci comandamenti, contrari a qualsiasi senso sociale: “E’ comodo dire ‘non rubare o non desiderare la donna d’altri’ quando si hanno soldi e concubine”. Così frequenta con alcuni compagni genovesi la Federazione Anarchica Italiana di Carrara. Il percorso politico e personale lo porta a staccarsi un po’ da tutti, compresa la famiglia ma osservando la realtà, ha inventato il suo stile che lo ha portato ad essere un artista e un poeta delle più intense, struggenti e sofisticate poesie del nostro tempo. Ma De André ha dovuto fare i conti con la sua anarchia poetica che precedeva il Comunismo e i movimenti operai e sindacali: perché dal momento in cui agli inizi degli anni ’60 aveva preso piede il marxismo, chi non faceva coincidere la Sinistra col marxismo era considerato un avversario politico in stile sovietico, mentre, per lui, la differenza tra comunisti e anarchici era che i comunisti si basavano soltanto su Marx mentre gli anarchici si basavano su Bakunin e Stirner e la critica a Hegel. I comunisti, diceva Fabrizio, non sapevano che la guerra civile spagnola era stata perduta dai Repubblicani perché nelle trincee gli anarchici (che costituivano il maggior numero di combattenti) si trovavano a combattere due guerre: quella fuori delle trincee contro i franchisti e quella dentro le trincee con i compagni delle Brigate Internazionali di matrice Staliniana: questo, commentava Fabrizio, un anno e mezzo prima che Stalin, chissà perché, facesse firmare il patto di non aggressione con la Germania. Così nei primi mesi del 1936 le armi sovietiche avevano smesso di arrivare al fronte, il che voleva dire che Stalin malgrado tutti i suoi proclami, aveva maggiore convenienza a vedere instaurato in Spagna l’ordine di Francisco Franco.
Ma veniamo all’analisi dei suoi lavori, sono convinto che della produzione di De Andrè niente risulta poco poetico ed ispirato ed è difficile per me indicare il disco migliore, posso solo esprimere la mia preferenza in questo momento che scrivo, perché nel tempo mi sono legato a tutti i lavori del Faber (nomignolo che gli aveva affibbiato il suo
amico Paolo Villaggio). In questa fase della mia vita e della situazione politica che sta attraversando l’Italia, l’album che più calza questi sentimenti è senz’altro “Storia di un impiegato” perché è entrato, nel bene e nel male e con prepotenza nelle nostre storie personali e ci ha consegnato spunti di riflessione su tante problematiche ancora molto attuali, la lotta, i rapporti tra le generazioni, la violenza, il carcere. Un disco, scritto nel 1973 con Nicola Piovani (musica) e Fabrizio Bentivoglio (liriche), un concept-album che insieme a “La buona Novella” (1970) e “Non al denaro non all’amore né al cielo” (1971) fa parte di una trilogia in cui si riflette su grandi temi. Un album particolare, di cui si è molto parlato e da taluni addirittura contestato perché sembrava quasi un incitamento alla ribellione, mentre secondo me rappresenta un quadro, sotto forma di poesia, in cui viene descritto un importante periodo storico. Un ritratto molto marcato ma assolutamente privo di qualsiasi pretesa di insegnare o ispirare azioni violente, anche se è innegabile la sua forza fatta di melodie e nuove sonorità che unite ai tanti temi caldi e sentiti si fondono in una miscela esplosiva.
“Storia di un impiegato” è un disco sull’illusione che nasce da quel grande movimento di massa che fu il 1968. E’ un romanzo in musica in cui si traccia il percorso di un giovane che partendo dall’ascolto di una canzone di lotta del ’68 (La canzone del Maggio) riflette sulla sua incapacità di prendere parte alla lotta, perché ormai troppo integrato nella
società borghese, ma è una canzone in cui c’è una presa di coscienza dei problemi sociali e della necessità di lottare per cambiare la situazione; si parla di lotta, si ricordano gli avvenimenti accaduti durante la rivolta nata dagli studenti e, rivolgendosi a quelli che alla lotta non hanno partecipato, li accusa e ricorda loro che chiunque, anche chi, in quelle giornate, si è chiuso in casa per paura, è ugualmente coinvolto negli avvenimenti. La canzone contiene l’affermazione che la rivolta non è finita ma ci sarà nuovamente, in futuro, più forte. L’impiegato riflette sulla sua vita fatta di mediocrità,
paura e tanto individualismo e si paragona a quei ragazzi che hanno voluto, invece, ribellarsi al sistema che li opprimeva.
Questa riflessione risveglia in lui sopiti ideali di protesta, che lentamente si fanno strada nella sua mente e nei suoi sogni (Al ballo mascherato e Sogno numero due), in cui pensa di risolvere individualmente tutti i problemi. Decide così di gettare una bomba ad un ballo mascherato al quale partecipano tutti i miti, i valori della cultura e del potere borghese. E comincia a sognare di assistere agli effetti della deflagrazione su coloro che per anni ha rispettato, assiste all’agonia di tutti, del padre e della madre e dell’amico che gli ha insegnato a ribellarsi. Il sogno prosegue: la voce di un giudice lo
informa che il potere borghese era al corrente dei suoi atti, addirittura lo stava seguendo dalla nascita così come segue tutti i suoi sudditi. L’accusa di omicidio, di strage, si trasforma in ringraziamento per aver eliminato vecchi residui che davano fastidio al potere stesso, che ormai ha trovato altri modi per governare.
Il giudice lo informa che ha usato correttamente gli strumenti della legge e che il suo gesto non è altro che la ricerca del potere personale. Così lo accolgono tra coloro che contano, tra coloro che decidono, tra coloro che governano e dispongono della altrui e della propria libertà. Un nuovo sogno, o una nuova puntata dei sogni precedenti, e l’impiegato prende il posto del padre da lui stesso sacrificato alla ricerca di uno spazio personale. Rivive una vita lancinante, fatta di illusioni e di relative delusioni, di difese disperate della propria integrità, del proprio denaro, delle proprietà, non è più un
sogno, ma un incubo e l’impiegato si sveglia. Ha capito che in qualunque modo è un uomo finito, senza nessuna possibilità di recupero, che i suoi gesti saranno sempre individualisti, tesi al proprio bisogno personale e che salendo la scala del potere non si sfugge comunque alla propria condizione di isolamento, d’angoscia. La bomba che nel sogno era stata gettata con forza, con rabbia, per vendetta, ora, nella realtà, diventa un momento di ebbrezza e, ovviamente, di lucidità. Il sogno si trasforma in incubo quando l’uomo sogna suo padre, che lui stesso ha ucciso “in un sogno precedente”, e capisce di essere uguale a lui (Canzone del padre). L’impiegato si sveglia consapevole di essere in tutto e per tutto funzionale a quella società che odia. L’impiegato sa cosa fare, sa dove andare, sa chi deve colpire e perché; va dritto al parlamento a gettare una bomba vera per ammazzare gente vera, ma la sua abilità era soltanto un sogno: la bomba rotola giù verso un’edicola di giornali e l’unica cosa che colpisce è, come una previsione, la faccia della sua fidanzata che sta su tutte le pagine dei giornali.
E alla fidanzata del mostro, l’impiegato scrive una lettera dal carcere nel quale è rinchiuso (Verranno a chiederti del nostro amore), e poi, nell’ultima traccia del disco, assume finalmente una nuova consapevolezza del suo ruolo all’interno di una collettività, in questo caso il carcere, e della lotta (Nella mia ora di libertà). Nel carcere, in una realtà non più individualista, ma forse il massimo dell’essere uguali, l’impiegato non più impiegato scopre un nuovo modo di capire la vita e le cose che lo circondano. Scopre la realtà della parola “collettivo” e della parola “potere”. Quand’ecco, proprio l’incarcerazione fa compiere al ragazzo l’ultimo passo per raggiungere la piena consapevolezza di ciò che è giusto fare: la lotta in carcere da individuale si rifà collettiva e la rinuncia all’ora d’aria, come rinuncia all’individualismo prepara il terreno al sequestro dei secondini con l’ausilio di tutti i prigionieri, uniti, per riconquistare la vera aria, la vera libertà che gli era stata, ingiustamente, sottratta. Una grande novità stilistica del disco sta nel linguaggio, un linguaggio moderno che anziché racconto diventa immagini a volte psicologiche a volte oniriche in un pout-pourri di elementi reali e non. Nuove tracce che delineano un percorso in cui si rincorrono le diverse fasi della sua coscienza, sogni a volte carichi di lirismo (Lottavano così come si gioca/i cuccioli del maggio era normale/loro avevano il tempo anche per la galera/ad aspettarli fuori rimaneva/la stessa rabbia la stessa primavera), e di ironia (c’è chi lo vide piangere/un torrente di vocali/vedendo esplodere/un chiosco di giornali). Una menzione speciale spetta ad un capolavoro “Verranno a chiederti del nostro amore”, una delle più intense canzoni d’amore se sia stata mai scritta, la lettera dal carcere del bombarolo alla sua donna: partendo dal loro rapporto De Andrè si spinge ad una riflessione più ampia sui compromessi della coppia borghese…. “non sei riuscita a cambiarmi / non ti ho cambiata lo sai.”
BUON ASCOLTO O RIASCOLTO DA JANKADJSTRUMMER
*Molte informazioni sono riprese dalle note di copertina del disco a cura di Roberto Danè e dal libro di Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, pp. 175-176