Cerchiobottismo meloniano

Proteso alla ricerca di mantenere il consenso il Governo evita di prendere posizioni nette, abolisce il reddito di cittadinanza per 169 mila famiglie, tergiversa sul salario minimo, mentre annuncia di voler tassare gli extra profitti colpendo le banche ma poi minimizza e nasconde la mano. Mentre si preparano le nuove soppressioni del reddito di cittadinanza la premier è costretta ad accettare di incontrare le opposizioni per confrontarsi sul salario minimo e prepara l’incontro cercando di guadagnare consensi con l’annuncio di una imminente tassazione degli extraprofitti delle banche, provvedimento prontamente ridimensionato nella sua portata al primo stormir di fronde delle borse che hanno affossato i titoli bancari, dando credito alle intenzioni della premier.

La questione salariale

Anche se il confronto con le opposizioni appare limitato all’introduzione di un salario minimo in realtà ciò che è in ballo è l’intera questione salariale costituita dal preoccupante calo dei livelli di vita dei lavoratori italiani i cui salari non solo non aumentano da anni, ma vengono erosi da un’inflazione che, al di là dei toni trionfalistici sul suo presunto controllo, relativamente ai beni di consumo e alimentari – il cosiddetto carrello della spesa – è ancora a livelli del 10,2%.
In questa situazione non si comprende come famiglie e persone singole con un reddito che è al di sotto delle soglie di sussistenza, possano soddisfare i loro bisogni più elementari anche se il governo addita molti di questi al pubblico ludibrio, sostenendo che si tratta di fannulloni, i quali non hanno nessuna intenzione di lavorare. Contestualmente dimentica di avere deciso di incentivare il lavoro povero, reintroducendo i voucher, tralascia di ricordare di non aver fatto nulla per favorire la stabilità del posto di lavoro e combattere il precariato, nonché la pratica scandalosa degli stage introduttivi al lavoro svolti gratuitamente, omette di riconoscere l’esistenza di salari da fame per una pletora di attività che sfuggono ad una regolamentazione attraverso veri contratti di lavoro.
C’è nel paese un problema di lavoro povero al quale la premier risponde dicendo di nutrire dubbi sulla proposta di introduzione del salario minimo, paventando il timore che esso possa fare da elemento attrattivo per una tendenza al ribasso delle retribuzioni, addirittura al di sotto dei minimi contrattuali, quando è provato dalla adozione di questo istituto in tutti gli altri paesi che lo hanno fatto proprio, che questo effetto depressivo sui salari non vi è stato, ma che anzi l’introduzione del salario minimo ha fatto da volano ad un miglioramento degli assetti contrattuali complessivi.
Nascondendosi dietro queste preoccupazioni, la premier, nel corso dell’incontro con le opposizioni, ha rispolverato un vecchio arnese come il Cnel dimenticato da tutti, presieduto da una vecchia cariatide della politica che ben conosciamo, l’ineffabile ex forzista Brunetta, arcinoto per i danni arrecati al paese in più occasioni, chiamato a
presiederlo per avere la possibilità di riconoscergli dei benefit conseguenti alla fine dei suoi impegni di politica attiva.
Conoscendo la persona e soprattutto avendo chiara l’efficienza dell’organismo incaricato di istruire il problema e prospettare soluzioni non è sbagliato affermare che si è trattato soltanto di una dilazione, allontanando qualsiasi intervento, in attesa di capire quali sono le risorse disponibili per intervenire nel settore anche in relazione alla legge di bilancio e per cercare di reperire qualche risorsa da destinare a questo problema.
D’altra parte la premier, rispetto a questo problema, sembra avere il fiato sul collo posto che sondaggi affidabili hanno rivelato che il 75% degli italiani è favorevole all’introduzione di un salario minimo e che questa proposta è stata fatta propria da tutta quella galassia che si muove a destra del suo partito e che si sta organizzando per stimolarla nell’azione di governo.

Banche ed extraprofitti

È anche per questo motivo che la premier ha aperto un altro fronte di confronto con l’opinione pubblica prospettando la tassazione blanda degli extra profitti delle banche una quota che dovrebbe aggirarsi sull’1% dei profitti conseguiti. Così facendo tuttavia la Meloni trascura di prendere atto che il problema è ben più vasto di quello relativo alle
banche e riguarda i grandi contribuenti, a cominciare dai giganti della distribuzione, per seguire con le industrie farmaceutiche e proseguire poi con quelle energetiche, quelle delle armi e quant’altri che hanno approfittato della pandemia e della guerra per accumulare profitti che vanno al di là di ogni più ottimistica previsione. Il governo sostiene di volere in tal modo recuperare risorse per aiutare le famiglie con i mutui a tasso variabile che a causa della politica monetaria della BCE si sono ripercorsi sulle banche sono notevolmente aumentati. Pertanto il prelievo sugli extraprofitti delle banche è stato definito una misura di equità sociale limitata al solo 2023, le cui risorse verranno dedicate ad aiutare il pagamento per i mutui delle prime case e il taglio delle tasse.
Questo tipo di tassazione non è nuova e in gergo economico prende il nome di windfall tax: è un’imposta straordinaria che viene provvisoriamente applicata a un gruppo di aziende o a un settore economico che sta beneficiando di guadagni estremamente alti, sfruttando una situazione straordinaria. Un esempio può essere una tassa applicata alle
aziende i cui profitti sono aumentati grazie a una guerra oppure, come di recente accaduto in Italia e in altri Paesi europei, che viene applicata sugli extraprofitti delle aziende energetiche. In questo caso di colpiscono le banche perché nel primo trimestre 2023 le cinque principali banche italiane hanno visto propri profitti – ossia i ricavi rimanenti al netto di tutti i costi sostenuti – aumentare in media del 75% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quanto di questo aumento sia un profitto “extra” e quanto sia un semplice miglioramento delle performance delle banche è difficile da stabilire con precisione e tuttavia il governo avrebbe deciso di usare come base imponibile del nuovo prelievo l’aumento di profitti che le banche hanno registrato nel loro margine di interesse rispetto al 2021. Questo margine è costituito dalla differenza tra i tassi di interessi passivi, ovvero quelli che i clienti mutuatari pagano sui prestiti, e quelli attivi, cioè quelli che vengono pagati dalla banca a chi decide di investire negli strumenti finanziari che mette a disposizione, come i conti di deposito o i conti corrente.
Per anni i tassi sui conti corrente sono stati di solito nulli, mentre gli interessi sui mutui sono rimasti bassi, proprio perché i tassi di interesse imposti dalla Bce si sono aggirati intorno allo 0% nell’ultimo decennio. In questo periodo la redditività delle banche, ossia la percentuale di ricavo netto rispetto ai costi sostenuti, era molto bassa perché non era
possibile avere tassi attivi negativi sui conti, cosicché la differenza tra tassi passivi e attivi rimaneva piuttosto bassa.
Ora che sono tornati ad aumentare, gli interessi passivi applicati dalle banche sono aumentati più di quelli attivi, facendo crescere i margini.Questo margine, si è enormemente ampliato dopo i numerosi aumenti dei tassi di interesse stabiliti dalla Banca centrale europea (Bce) per contenere l’inflazione. Di conseguenza i tassi attivi sono cresciuti più lentamente rispetto a quelli passivi, soprattutto per il maggior potere contrattuale che hanno le banche nei confronti dei clienti e l’aumento dei tassi di interesse stabilito dalla Bce ha portato un innalzamento del costo del denaro per le famiglie e per le imprese, senza che ci sia stato un altrettanto veloce aumento per i consumatori che hanno dei depositi sui conti correnti, anzi le banche continuano a non corrispondere alcun interesse sui depositi.
Si calcola che la nuova tassa dovrebbe produrre un aumento del gettito per lo Stato che verrebbe utilizzato per finanziare le famiglie in difficoltà con il pagamento del mutuo, ma si è parlato anche di utilizzare le risorse per un taglio delle tasse e del cuneo fiscale e, nella sua prima formulazione, si ipotizzava che avrebbe potuto produrre entrate per circa 3 miliardi di euro, ma su questa cifra c’è ancora parecchia incertezza. Il ogni caso le somme riscosse costruirebbero comunque un’ una tantum, visto che si tratta di un unico prelievo, mentre le voci di spesa che la tassa dovrebbe finanziare sono costituite da costi fissi e costanti nel tempo.
Inoltre, com’è noto, le misure annunciate dal governo hanno prodotto una perdita secca in borsa delle azioni delle banche il che ha indotto l’8 agosto il Ministero dell’Economia e delle Finanze a rendere pubblica in una nota nella quale si specifica che l’importo della tassa sugli extraprofitti non potrà comunque superare lo 0,1 per cento del totale dell’attivo di ciascun istituto, cioè l’insieme di tutti gli asset finanziari detenuti dalla banca, ma bisognerà aspettare i documenti ufficiali, ovvero il decreto-legge del governo per poter fare una stima credibile, tenendo conto che il provvedimento potrà essere modificato dal Parlamento, con effetti sul gettito stimato.
La nota del ministero ha anche sottolineato che le banche che hanno già adeguato i tassi seguendo le raccomandazioni della Banca d’Italia, ossia aumentando la remunerazione dei tassi di interessi attivi, non dovrebbero subire particolari conseguenze dalla tassa sugli extraprofitti. Da questo chiarimento, quindi, sembrerebbe che la misura andrà a colpire solo le banche che stanno “abusando” della propria posizione, disincentivando i comportamenti scorretti.
Ma la raccomandazione della Banca d’Italia risale a febbraio 2023, mentre la base imponibile su cui sarà applicata la tassa – in base alle informazioni oggi disponibili – farà riferimento sia a quest’anno che al 2022 e quindi anche chi si è adeguato alle direttive della Banca d’Italia già da febbraio dovrebbe pagare la nuova tassa.
La politica molto prudente su questo provvedimento adottata dal governo viene criticata non solo dalle opposizioni di sinistra, ma anche dal partito politico che si sta formando alla destra di Fratelli d’Italia, il quale rivendica una politica sociale del governo ispirata ai principi della destra sociale, e quindi converge con la richiesta dei 5 Stelle di estendere la tassazione sui super profitti alle aziende farmaceutiche che durante la pandemia hanno accumulato guadagni astronomici, alle aziende energetiche, che hanno approfittato di quanto è successo sui prezzi dell’energia a causa della guerra, sull’industria bellica che sta lucrando in modo inverecondo sulla fornitura di armi all’Ucraina, evadendo le richieste di forniture di armi commissionate dalla NATO all’industria bellica italiana.
Per il governo dipanare questa matassa e risolvere le tante contraddizioni connesse ai provvedimenti che dovrebbe adottare sarà molto difficile perché vengono toccati interessi di corpi dello Stato ben più solidi della maggioranza di governo. Basti pensare all’interlocutore principale per quanto riguarda i rapporti con le banche costituito dall’ABI, che ha una Presidenza estremamente solida e condivisa dal mondo bancario. L’interlocutore del governo può vantare una presenza ventennale nei quadri direttivi dell’organizzazione che presiede, godendo dell’unanimità dei soci da ben 10 anni, potendo così rappresentare un interlocutore solido che è stato in grado di passare indenne dai rapporti con governi di diverso orientamento che si sono succeduti in Italia nell’ultimo ventennio.
Alla luce di queste considerazioni il negoziato con l’Associazione Bancaria sarà per il governo difficile e non promette grandi risultati, con la conseguenza politica di evidenziare quanto l’attuale governo sia prigioniero di una politica economica impostata dal precedente governo Draghi, dalla burocrazia di Bruxelles, dai poteri forti in campo
economico e bancario, dal padronato.
Ebbene, la richiesta del padronato per quanto riguarda il costo del lavoro è chiara: consentire ancora per molto tempo all’Italia di spendere la carta di un basso costo del lavoro come elemento di potenziamento della concorrenzialità della industria italiana e delle merci e dei beni da essa prodotti, essendo inutilizzabili sia la leva monetaria e dei cambi, che quella della ricerca dei rapporti economici e commerciali più favorevoli, a causa del vincolo posto all’Italia dall’attuale situazione politica internazionale, sia con le sanzioni verso la Russia che attraverso la rimessa in discussione dell’adesione dell’Italia al Trattato sulla via della seta.
È perciò che il governo sembra puntare, pressoché esclusivamente sull’utilizzo della leva fiscale, detassando il lavoro e riducendo il cuneo fiscale, con il risultato che all’abbassamento delle tasse corrisponde inevitabilmente una riduzione gettito che si riverbera sui servizi erogati. La diminuita disponibilità di risorse aumenta il costo dei servizi per gli utenti costretti a rivolgersi a strutture private, i quali ricevono un salario indiretto ridotto a causa delle diminuite prestazioni in materia di scuola, sanità, servizi e quant’altro serve a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni. In altre parole, la riduzione delle tasse serve ai ricchi, mentre la diminuzione dei servizi colpisce indiscriminatamente tutti, penalizzando maggiormente le classi subalterne e quelle più bisognose di ricorrere alle risorse sociali collettive.

La Redazione