Il dibattito in corso sulla sull’immigrazione ha posto all’attenzione la crisi in atto in Tunisia che rischia di portare il paese al collasso, spingendo gran parte della popolazione ad emigrare, con un esodo possibile stimato al 10% della popolazione (1 milione). Se si guardano i dati relativi all’immigrazione in Italia si può notare che la gran parte è costituita da uomini, donne e bambini che arrivano sul territorio italiano con mezzi autonomi, piccoli barchini, pescherecci in gran parte provenienti dalla costa tunisina, mentre la quota di migranti imputabile alle ONG non supera il 12% del totale di coloro che arrivano in Italia. I migranti non sono ovviamente tutti tunisini, ma la gran parte di essi è costituito ormai da contadini poveri, da giovani disoccupati che abbandonano quel paese in preda ad una crisi economica profondissima, generata dal fallimento delle politiche che hanno visto contrapporre gli interessi di una parte del paese, quella costituita dalla popolazione rivierasca, a quella della popolazione contadina poverissima che abita all’interno del paese.
Per comprendere la situazione tunisina occorre tenere conto del fatto che su 1700 km² circa di territorio il 40% è occupato dal deserto; il resto e dedito all’agricoltura, mentre ha una diversa struttura economica il territorio costiero nel quale sono concentrate le città e risiede la gran parte della popolazione. Fino allo scoppio della pandemia quest’area era quella di maggiore sviluppo grazie al turismo e qui si concentravano la gran parte delle iniziative industriali. La pandemia ha messo in crisi il turismo che per il paese rappresentava la pressoché unica possibilità di disporre della valuta estera
necessaria ad acquistare prodotti alimentari e di consumo dei quali il paese è carente. Questa è una delle ragioni della crisi economica del paese, insieme ai contraccolpi della guerra Ucraina che elevando e i prezzi delle derrate alimentari ha impoverito ulteriormente il paese che dipende in larga parte dalle importazioni per il suo fabbisogno alimentare. Oggi la crisi è drammatica al punto che i generi alimentari di più largo consumo come latte, zucchero bianco, caffè, riso sono razionati mentre i prezzi di carne, uova e oli devono fare i conti con un’inflazione che supera il 12 %.
Ma per comprendere la crisi tunisina occorre fare un salto indietro nel tempo, premettendo che il paese ha una tradizione di lotte sociali come pochi paesi dell’Africa e che ha conosciuto lotte di minatori e di contadini. Guardando alla situazione attuale occorre partire quantomeno dall’indipendenza per capire quando sta avvenendo.
La “rivoluzione dei gelsomini” e la cosiddetta primavera araba
La Tunisia ottenne l’indipendenza dalla Francia il 20 marzo 1956. primo ministro Habib Bourguiba. Un anno dopo fu proclamata la Repubblica e Bourguiba ne divenne Presidente; rimase in carica fino al 1987 quando un colpo di Stato, sostenuto dai servizi segreti italiani, con a capo Ben Alì non assunse il potere dopo una lunga malattia del “padre della patria.” Durante gli anni della dittatura di Ben Alì l’élite dominante, sub agente delle multinazionali, soprattutto francesi, si è appropriata di una enorme ricchezza, rubata allo Stato e al popolo. Questa blocco sociale ha mantenuto in carica un Capo di Stato completamente ostaggio dei Servizi segreti.
La rivoluzione ha avuto il suo punto di partenza, il 17 dicembre 2010, a Sidi Bouzid, capitale di una regione rurale per eccellenza. L’immolazione col fuoco di Mohamed Bouazizi, laureato, ambulante e contadino povero, testimonia, al di là delle motivazioni personali, il fallimento del modello di sviluppo nazionale che ha penalizzato le regioni a predominanza agricola la cui economia non ha conosciuto alcuna diversificazione; il settore agricolo nel suo complesso è stato sfruttato dalle politiche di sviluppo a vantaggio di altri settori, il che ha portato alla sua emarginazione insieme a quella degli abitanti delle campagne e delle aree interne del paese.
Nonostante la riduzione del peso demografico delle aree rurali tunisine (il tasso di ruralità è sceso dal 60% degli anni ’60 al 33,8% del 2011, secondo l’INS), il deterioramento delle condizioni di vita in alcune aree a prevalenza rurale è stato all’origine della rivoluzione che ha avuto come punto di partenza le zone rurali profonde, posto che la città di Sid Bouzid o quella di Kasserine sono urbane solo di nome. Le due delegazioni che comprendono l’agglomerato di Sidi Bouzid sono infatti prevalentemente rurali, poiché secondo il censimento della popolazione effettuato dall’INS nell’aprile
2004, appena il 35% della popolazione era urbana. Inoltre se consideriamo gli agglomerati di Menzel Bouzaiène, Regueb o Meknassi che furono i primi a trasmettere la rivolta di Sidi Bouzid, questi sono tutti piccoli centri rurali privi del tessuto socioculturale che sostiene le città. La rivolta si è poi diffusa nelle regioni più povere del Paese, che si trovano in una situazione ancora più emarginata e più depressa di Sidi Bouzid. Tra questi il vicino Governatorato di Kasserine, ma anche quello di Gafsa che aveva vissuto una prima rivolta nel 2008.[1] La rivoluzione, ha mobilitato molti giovani disoccupati che rivendicavano il lavoro, la dignità che offre e la libertà, e ha portato all’allontanamento di Ben Ali e di parte della sua corte mafiosa, legandosi alle popolazioni delle periferie delle città abitate dagli esclusi del processo di sviluppo che ha coinvolto il settore turistico trainante della costa e la borghesia nazionale. Questa saldatura ha consentito l’estendersi della protesta alle grandi città e in particolare a Sfax e Tunisi e quindi al successo della cosiddetta “Rivoluzione dei gelsomini”.
Decisivo in questa occasione è stato anche il ruolo svolto dal Centro Sindacale (in particolare i suoi sindacati regionali) e dai social network su Internet.[2]
Tuttavia, appena pochi mesi dopo la rivoluzione, i dibattiti si sono spostati dalle questioni di dignità, giustizia sociale e libertà (che erano gli slogan della rivoluzione) a questioni di identità e gradualmente,verso questioni di natura politico-religiosa. Le diverse forze politiche ed il paese si sono divisi in due gruppi contrapposti: da un lato, gli islamisti e dall’altro i laici o cosiddetti modernisti, con il risultato che le istanze delle popolazioni rurali alla base della rivolta contro il regime, che costituivano la maggioranza delle popolazioni delle regioni interne (Tunisia centrale e occidentale) e
aspirano a più giustizia e più equilibrio nella distribuzione della ricchezza sia tra i settori sociali e produttivi che tra le regioni, sono passate in secondo piano.
Il risultato è stata la progressiva perdita di forza del movimento e l’affermazione nelle elezioni del 2011 dei partiti islamisti, primo tra tutti il partito islamico moderato Ennahda. Questa fase dello scontro politico è sfociata nell’elezione dell’Assemblea costituente e nel varo di una nuova Costituzione con la quale il paese è divenuto una Repubblica islamica.
Il difficile cammino costituente, caratterizzato da tensioni anche tra i partiti, si è concluso con alcune intese, che hanno permesso di mantenere un quadro politico-istituzionale. Il 26 gennaio2014 è entrata in vigore una nuova Costituzione che tuttavia contiene garanzie di libertà ed uguaglianza, principi di tutela delle tradizioni e un’ “introduzione rivoluzionaria” dei “nuovi diritti”. Le elezioni legislative per l’attribuzione dei 217 seggi previsti per l’Assemblea del Popolo (il Parlamento tunisino) si sono tenute senza incidenti e contestazioni il 26 ottobre 2014. Le elezioni presidenziali hanno registrato la vittoria di Beji Caid Essebsi, restato al potere fino alla sua morte il 25 luglio 2019.
Nel decennio post rivoluzionario il paese è cresciuto socialmente, pur tra mille contraddizioni, ma la sua economia e in particolare il turismo ha avuto un primo crollo dopo gli attentati islamisti del 2015, aprendo le porte alla crisi economica del paese accentuata dallo scoppio della pandemia.
La presidenza di Kaïs Saïed e la crisi attuale
Il 17 ottobre 2019 Kaïs Saïed, professore universitario di diritto, indipendente viene eletto Presidente della Repubblica. La sua prima scelta è quella incaricare suo fratello Naoufel, anch’egli professore di diritto costituzionale, di nominare i consiglieri e i membri del gabinetto presidenziale. Nel discorso di investitura il Presidente si impegna, a combattere il terrorismo e le sue cause, a garantire le conquiste delle donne tunisine, rafforzandone i diritti economici e sociali e rifiuta di soggiornare nel palazzo presidenziale di Cartagine, preferendo la sua villa a Mnihla, situata nel governatorato di Ariana sulla costa del paese.
Il neo-presidente deve confrontarsi con i partiti islamisti e soprattutto con Rachid Ghannouchi (già presidente del Parlamento) a capo di Ennahda, il partito meglio organizzato della scena politica del Paese africano. Con 54 deputati su 217 seggi, il movimento che si autodefinisce “democratico musulmano” è la prima forza politica dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo e ha condizionato i lavori della Costituente; Ennahda preconizza una via tunisina all’islamismo è contrario alla parità di genere, persegue l’islamizzazione del Paese. Durante in decennio precedente, quando a governare era la cosiddetta “troika”, frutto dell’accordo tra Ennahda-Ettakol-Congresso della repubblica la Tunisia rischiò di sprofondare nel caos e nella guerra civile. Vennero uccisi Chokri Belaid, leader del partito di sinistra al Watan, freddato il
6 febbraio 2013 davanti alla sua abitazione nel quartiere di El Menzah, a Tunisi, e Mohamed Brahmi, altro esponente della sinistra tunisina, assassinato nel 25 luglio del 2013. I mandanti degli omicidi restano a tutt’oggi ignoti, ma la magistratura sta indagando sul presunto coinvolgimento del servizio segreto “parallelo” di Ennahda che ha dimostrato quali metodi si possono adottare per assicurarsi il potere.
Nel 2016 Ennahda dichiara di imboccare una svolta moderata. Pago di avere islamizzato l’ordinamento attraverso la riforma costituzionale Ennahda, si autodefinisce ora come un movimento “democratico e civile”, i cui valori di riferimento attingono alla civiltà islamica, ma anche a quella moderna; in realtà i suoi legami con i Fratelli Musulmani sono saldi e il partito rimane su posizioni fondamentaliste islamiche.
Il fronte laico tunisino, che si era compattato attorno alla figura di Beji Caid Essebsi, si è scisso fino a sparire quasi completamente dalla scena politica, grazie alla strategia di Ghannouchi, leader di Ennahda. Nell’ottobre del 2019, quando si sono tenute le seconde elezioni parlamentari post-rivoluzione, l’elettorato tunisino ha subito una profonda frammentazione in seguito alla grave crisi economica (tuttora in corso) e alla crescente preoccupazione per la corruzione.
Ennahda ha perso 17 seggi, ma è stato – come si è detto – il partito più votato dai tunisini in un contesto caratterizzato da una storica astensione di quasi il 90% anche perché le elezioni sono state boicottate dai partiti di opposizione.
Le trattative per il nuovo governo si sono concluse con la formazione del governo presieduto da Elyes Fakhfakh del partito socialdemocratico che è rimasto in carica per appena 5 mesi, travolto da un’accusa di corruzione: il Governo si era insediato il 27 febbraio, dopo mesi di infruttuose consultazioni e stallo politico post elettorale e dopo un braccio di ferro tra Saied e Ennahda Rashid Ghannouchi, conclusosi a favore del Presidente che aveva minacciato lo scioglimento del Parlamento. Nei mesi a seguire, Ennahda, che detiene la maggioranza relativa dei seggi in Parlamento (55 su 217), non ha mai rinunciato a chiedere l’inclusione di Qalb Tounes e El Karama, partiti islamisti, in una coalizione di governo in cui ha lamentato una crescente marginalizzazione, vedendo anche diminuire la sua influenza in Parlamento, dove si era opposto alla cessione di “poteri speciali” all’esecutivo per fronteggiare l’emergenza Covid-19. Le dimissioni di Fakhfakh sono avvenute dopo che il Governo aveva contenuto la diffusione del coronavirus, ma non aveva potuto evitare le ricadute economiche e sociali delle misure di confinamento e della chiusura dei confini.
Il 25 luglio 2020, nel mezzo di una crisi politica, Saïed ha nominato Hichel Mechichi. Un tecnocrate indipendente capo del governo, incaricandolo di formare un governo in un mese e ottenere la fiducia dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo: il presidente incaricato l’11 agosto ha formato un governo composto interamente da indipendenti. La composizione del suo governo, che includeva otto donne, oltre a un ipovedente ha suscitato le riserve di Ennahda e degli altri partiti islamici. Il 2 settembre successivo, il governo ottiene la fiducia con 134 voti contro 67 da parte dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo. Ma dopo appena 10 mesi, il 25 luglio 2021, il Presidente dopo forti proteste della popolazione contro il governo, esautora il Primo Ministro Hichel Mechichi, licenzia i ministri della Difesa e della Giustizia, e sospende i lavori del Parlamento. A metà dicembre 2021 annuncia un referendum sulla riforma costituzionale e sospende il Parlamento sino alla fine del 2022 e invocando l’art. 80 della Costituzione tunisina assume i pieni poteri e dichiara lo stato di emergenza. Conferisce l’incarico di primo ministro alla professoressa Najla Boiden, prima donna a diventare premier in Tunisia e in tutto il mondo arabo.
Kaïs Saïed mette sotto tutela il paese
A fronte delle decisioni adottate dal Presidente Ennahda denuncia un colpo di stato. La sua tesi è condivisa da politologi e giuristi, in particolare per quanto riguarda la sospensione dei lavori parlamentari tanto più perché il Presidente sospende l’attuale Costituzione nel settembre 2021 e decide di sottoporre a referendum una nuova versione della legge fondamentale; il 22 settembre 2021, conferma con proroga le delibere relative allo scioglimento dell’Organo provvisorio di controllo di costituzionalità dei disegni di legge e sospende stipendi e benefici del Presidente dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo e dei suoi membri; si attribuisce il potere di governare per decreto, recuperando di fatto il potere legislativo; fa una serrata critica al ruolo dei partiti. La nomina del governo presieduto della Bouden non è dunque che l’ultimo atto di un colpo di stato istituzionale, peraltro sostenuto da manifestazioni popolari e in dicembre denuncia che 25 luglio 2022 si terrà il referendum sulla nuova Costituzione. Nel febbraio un decreto presidenziale scioglie il Consiglio superiore della magistratura per sostituirlo con un nuovo organo provvisorio. Questi provvedimenti sono accompagnati e sostenuti da un crescente repressione, da arresti da forti limitazioni della libertà di stampa e dall’imposizione della censura; Molti degli arrestati sono accusati di “cospirazione contro lo Stato”.
Non sembra esservi dubbio sul fatto che le scelte politiche di Kaïs Saïed sembrano ispirarsi all’antiparlamentarismo di Karl Schmitt quando, individuando nel conflitto endemico tra i partiti politici la causa profonda della crisi politica ed economica del paese, parte dalla realtà effettuale del conflitto di interessi del quale i diversi partiti si fanno portatori per individuare le categorie del “politico”, ricondurle alla contrapposizione della conflittualità “privata” e della conflittualità “politica” per proporre se stesso come arbitro e giudice, fuori dalla morale e dal diritto, assumendo su di se l’onere della “decisione” politica alla quale da la forma di una dittatura personale.
Tutto ciò premesso vi sono le condizioni affinché la Banca Mondiale e gli organismi internazionali soddisfino la richiesta della Tunisia di 1,7 miliardi di prestito per far fronte alla crisi che sta portando al collasso il paese ? Il regime instaurato da Saïed riuscirà ad impedire il collasso e a controllare il paese, impedendo il temuto esodo di massa; riuscirà a garantire il confine sud dell’Europa per far fronte ai migranti ? A Saïed e al suo governo si è rivolta la Meloni offrendo alla Tunisia sostegno in sede internazionale e i benefici del cosiddetto piano Mattei.
Contraddizioni e rischi della “carta” tunisina
Nella messa a punto della propria strategia antimmigrazione il Governo Meloni punta sulla “carta” tunisina. Di conseguenza ha dichiarato che si sta adoperando affinché, per sostenere la richiesta di prestito di fronte alle istituzioni bancarie internazionali preoccupate per la svolta autoritaria in atto nel paese e per la conseguente instabilità politica: contro il prestito si è schierato infatti il Dipartimento di Stato USA.
In quanto poi al cosiddetto piano Mattei, la Meloni che lo ha proposto, pensa a un “modello di cooperazione non predatorio, in cui entrambi i partner devono poter crescere e migliorare”, ma poco si comprende come su come questa formula possa applicarsi della Tunisia.
Interventi a favore dell’agricoltura tunisina, il settore di maggiore sofferenza per l’economia del paese, si scontrano con la difficoltà che le sue produzioni sono concorrenziali con quelli del meridione italiano ai quali contendono il mercato europeo per i minori prezzi a causa del costo infimo della manodopera in Tunisia e altrettanto avviene per eventuali sovvenzioni e aiuti al turismo tunisino diretto concorrente di quello del meridione d’Italia . Dove finirebbe allora il nazionalismo e il sovranismo peloso della maggioranza di governo?
Poiché in ambedue i settori i paesi sono concorrenti la sola scelta che l’Italia potrebbe fare è aprire all’immigrazione selettiva, partendo dalla emigrazione qualificata di manodopera, visto il buon grado di formazione culturale e professionale di parte della popolazione o ancora mediante l’apertura di luoghi e opportunità di formazione professionale, alla quale poi far seguire i visti di emigrazione: ma queste scelte non sembrano essere nelle corde di un governo emigrazionofobico come quello attuale.
Altra più probabile scelta è quella di finanziare, con il concorso dell’Unione Europea – come è avvenuto per la Turchia – il paese. affinché contrasti l’emigrazione sorvegliando e militarizzando le coste, vigilando sulle frontiere con l’Africa australe in modo da bloccare gli arrivi sulla costa, spostando lo sbarramento nel deserto. Inutile dire che questa scelta sosterrebbe la militarizzazione del paese e contribuirebbe a comprimere ancora di più le libertà civili interne. Tutto questo mentre interessi ben più forti scendono in campo: la Cina, anche per il tramite dell’Algeria si sta adoperando a penetrare economicamente nel paese par legarne il mercato e la produzione ai suoi traffici.
[1] Il 6 giugno 2008 centinaia di disoccupati scendono in piazza a Redeyef, nella zona di Gafsa, alle porte del Sahara, per chiedere lavoro soprattutto nelle miniere di fosfati di cui la regione è ricca. Per disperdere i manifestanti la polizia apre il fuoco, uccidendo un giovane di 25 anni e ferendone altri 18. La rivolta è fallita per mancanza di appoggio nelle grandi città della costa. [2] La rivoluzione del 2010-2011 si riallaccia a una tradizione tunisina dove le rivolte contro il potere centrale avevano spesso origine rurale. Basti ricordare la rivolta di Abou Yazid “Sahib El Himar” (l’uomo con l’asino) nel X secolo (originario di Tozeur nel Djérid), o a quella di Ali Ben Ghedhahem nel 1864 ( da Kasserine); rivolte contadine contro lo stato centrale e contro la sua pressione fiscale ritenuta insopportabile. Dalla metà degli anni ’90 di questo secolo le scelte in materia di politica agricola hanno privilegiato i consumatori e il mercato a danno dei produttori agricoli, accrescendo la precarietà delle popolazioni rurali, che era all’origine della rivoluzione.
البحر البيض بينهما