ll Regno Unito, secondo gli analisti economici sta precipitando verso una recessione che durerà almeno due anni. Lo si vede dall’inflazione che tocca ormai più dell’11% e che ridurrà gli standard di vita del 7% nel 2023 e 2024. Solo nel 2027-28 le entrate dei cittadini britannici torneranno ai livelli del 2021-22, ma resteranno ancora sotto i livelli pre-pandemici. Il Pil si deteriorerà progressivamente fino ad attestarsi nel 2026 al 4 per cento in meno, il declino del Pil più accentuato di tutta Europa, con una perdita di 100 miliardi derivanti dalla diminuzione degli scambi commerciali che produrranno 40 miliardi di tasse non pagate all’erario entro la fine del decennio. Nell’immediato il paese registra una disoccupazione del 3,8%, ma al tempo stesso
una crescita peggiore di tutti i Paesi Ocse e del G20.
Il governo del premier Sunak e i conservatori individuano le cause di questa situazione nella guerra in Ucraina, nel Covid, nell’inflazione e nella crisi energetica, trascurando la causa principale che risiede nella Brexit. Aver abbandonato il mercato unico collettivo più grande e più vicino del mondo, quello dell’Ue, ha generato profonde disfunzioni nell’economia britannica, soprattutto in tempi di crisi come gli ultimi anni; a soffrirne maggiormente le piccole e medie aziende che esportano – o esportavano – in Europa: per loro un disastro.
Ai calcola che gli accordi commerciali bilaterali che avrebbero dovuto sostituire i rapporti con l’Ue.
produrranno per il Pil soltanto un +0,08% entro il 2035, quello con l’Australia e lo 0,07% con il Giappone entro lo stesso periodo. L’accordo commerciale con gli USA registra forti difficoltà ed è di là da venire, come pure quello con l’India. In compenso le relazioni commerciali con l’Irlanda del Nord, sono impantanati in un pericoloso stallo intorno al Protocollo Brexit che spacca in due il Regno Unito, imponendo controlli tra Belfast
e la Gran Bretagna. Inoltre, le elezioni vinte lo scorso maggio da Sinn Féin, l’ex braccio politico dell’Ira, hanno scatenato il boicottaggio degli unionisti irlandesi che si sentono abbandonati dalla Gran Bretagna.
Sciopero
Malgrado la presenza di rigide leggi antisciopero introdotte dalla Thatcher e lasciate in vigore dai laburisti, sindacati e lavoratori hanno deciso di somministrare al Governo uno sciopero al giorno durante quello che è stato definito “inverno del malcontento.” Certamente lo sciopero più clamoroso è stato quello di infermieri e infermiere, il primo in 106 anni di storia del sindacato Royal College of Nursing (Rcn), che ha immobilizzato totalmente la sanità pubblica britannica “Nhs”, una delle più antiche al mondo, oggi travolta da una grave crisi, per mancanza di personale, per fondi spesi male e con lunghe liste di attesa dopo l’emergenza Covid. Lo sciopero ha portato allo stato di agitazione persistente dei lavoratori in ospedali e pronto soccorso dove le condizioni di lavoro sono cambiate in peggio e per molti lavoratori sono oggi insostenibili. Alla base
dello sciopero degli infermieri c’è una causa comune a tutte le altre agitazioni: i salari bassi di fronte all’inflazione galoppante giunta ai massimi da 41 anni, a fronte di condizioni di lavoro massacranti.
Per tutte queste ragioni, i lavoratori della sanità pubblica chiedono in media il 17% in più di salario in busta paga, anche perché sono molti quelli che dichiarano, a frante di servizi mensa insufficienti, di razionare addirittura il cibo in pausa pranzo per arrivare a fine mese in quanto il loro salario, al netto dell’inflazione, è praticamente tornato ai livelli del 2008. Se le richieste non saranno soddisfatte, si andrà avanti con lo sciopero che coinvolge migliaia di lavoratrici e lavoratori, che hanno previsto il 15 e il 20 dicembre di astenersi dal lavoro, in giorni cruciali per gli ospedali, viste le festività e le ferie natalizie.
Lo sciopero incide su una struttura della sanità al collasso se si pensa che, ad esempio, per quanto riguarda le ambulanze che una chiamata su quattro al numero di emergenza 999 è andata perduta nell’ultimo mese, secondo i dati della stessa Nhs, e almeno 5mila pazienti hanno subito “gravi conseguenze” per esser stati soccorsi in ritardo.
Nell’ultima settimana di novembre si sono messi in sciopero 235 mila lavoratori. Prima sono scesi in lotta gli insegnanti e lavoratori di 150 università, per chiedere salari più alti e pensioni migliori, in tutto 70 mila, per quella che è stata la più grande agitazione dell’alta istruzione nel paese, seguita da un’altra il 30 novembre.
di 50 mila insegnanti in Scozia che hanno incrociato le braccia per la prima volta in 40 anni. Poi 115mila postini e lavoratori delle Poste, hanno rallentato l’arrivo dei regali e degli acquisti del Black Friday, se mai potessero consolare i britannici, e procedono con scioperi a singhiozzo.
Intanto si preparano i ferrovieri del sindacato Rmt (National Union of Rail, Maritime and Transport Workers). Il loro segretario Mike Lynch ha annunciato 8 giorni di sciopero a cavallo delle feste di fine anno: il 13, 14, 16, 17 dicembre e a gennaio il 3, 4, 6 e 7. Già ora nelle ferrovie gli scioperi hanno provocato 120 milioni di euro di perdite nelle casse della società e ciò potrebbe provocare nuovi tagli di personale, oltre ai 10mila già annunciati. E, per tornare ai postini, l’associazione di categoria “Communication Workers Union”, dopo aver rifiutato un aumento della paga del 9%, considerato insufficiente, ha promesso altre agitazioni a dicembre, per i giorni 9, 11, 14, 15, 23 e 24, che potrebbero rovinare la consegna dei regali natalizi nel Paese con perdite sanguinose per il settore del commercio.
La situazione è così esasperante che persino gli impiegati e i burocrati di ministeri come quello dei Trasporti, Border Force e dell’Home Office scenderanno in sciopero a dicembre. Stazioni metro, come Southwark e Lancaster Gate a Londra, sono chiuse da giorni per“mancanza di personale”, anche se non ci sono scioperi in corso. L’unica consolazione è che si è ancora lontani dai livelli di scioperi degli anni Settanta e Ottanta in Inghilterra. Se ad agosto 2022 si sono persi 356mila giorni di lavoro per scioperi, secondo l’Office for National Statistics, furono ben 11,7 milioni di giorni nel settembre 1979 e 3,1 milioni a ottobre 1984, per fare un riferimento ai picchi di quegli anni. E Sunak che è un pragmatico, rispetto al predecessore Liz Truss che pensava di essere la nuova Margaret Thatcher, sembra prepararsi al compromesso.
La Brexit è morta?
La crisi economica morde, l’Europa torna di moda e i Brexiter (i sostenitori della Brexit) sono in allarme: il Regno Unito si trova di fronte a un altro bivio. Dopo aver abbandonato definitivamente l’Ue nel 2020 e a sei anni dal referendum la ferita dell’uscita dall’Europa sembra essersi improvvisamente riaperta. E tutti, persino la Bbc, sono tornati a rimetterla in discussione, mentre sono ancora in molti che si ostinano a
difenderla ma con argomenti sempre meno convincenti.
Una “retromarcia” sarebbe clamorosa e travolgerebbe non solo i conservatori, ma anche molti laburisti che l’hanno fortemente voluta; tuttavia, il contesto economico e finanziario pessimo del Regno Unito induce a riflettere, tanto che – preso atto delle stime dell’organismo governativo Office for Budget Responsability – il governo ha candidamente ammesso, per bocca di Jeremy Hunt – il cancelliere dello Scacchiere, alias ministro delle Finanze britannico – che la Brexit ha avuto ed ha conseguenze negative sul commercio britannico. Perciò è allo studio la possibilità di stabilire con l’Ue un rapporto di associazione, sul modello di quello esistente tra l’Unione e la Svizzera, la quale ha accesso al mercato unico tramite singoli accordi bilaterali,. In cambio deve
accettare un’immigrazione dall’Ue più sostenuta, contribuire al bilancio Ue e subire la giurisdizione della Corte di Giustizia europea, il che vuol dire che il diritto Ue prevale su quello nazionale: esattamente quello che la Brexit avrebbe voluto evitare E questo anche se il Labour, malgrado sia ancora scioccato da come la Brexit abbia dilaniato il partito negli ultimi anni, ribadisce che nel mercato unico Ue non si torna e anzi si professa durissimo sull’immigrazione “a basso costo dall’estero, affinché lavorino i britannici” anche nelle mansioni più umili “e i salari salgano”. Altra utopia dimostratasi sinora irrealizzabile.
D’altra parte la situazione è drammatica e Hunt deve fare ingoiare al paese una manovra lacrime e sangue per ovviare al disastro finanziario lasciato da Truss: 30 miliardi di tagli al welfare e 25 miliardi di tasse in più: un buco complessivo di 55 miliardi, tanto è costato il governo Truss alla Gran Bretagna, Ma Hunt, tra le righe, ha aggiunto due cose che sono sotto gli occhi di tutti: “Abbiamo bisogno di più immigrazione” – visto che i posti di lavoro vacanti oltremanica oscillano tra i 1,3 milioni e 1 milione e mezzo – e soprattutto “i rapporti commerciali con l’Ue devono essere “con meno frizioni” visto quello che succede alla frontiera con l’Irlanda.
Molti politici britannici, anche conservatori avvertono il pericolo del degenerare della situazione irlandese e di quella scozzese che porterebbe il paese a dividersi in tre tronconi.
Ma Sunak, pragmatico brexiter della prima ora, ha dovuto fare marcia indietro per rassicurare gli euroscettici che hanno tenuto in scacco i Tory e i loro leader negli ultimi anni: “Non ci riallineeremo alle regole Ue, andremo avanti per la nostra strada, per esempio con i “porti franchi”, torneremo a crescere presto”.
Negli ambienti economici e finanziari crescono tuttavia i dubbi che il paese possa affrontare contemporaneamente la crisi economica, il collasso drammatico del sistema sanitario nazionale, gli effetti devastanti della crisi energetica e i costi crescenti della guerra, permettendosi di sostenere una aggressione di fatto agli interessi dell’Ue, quando ha invece bisogno di riallacciare i rapporti se non vuole che i pericoli per la
coesione nazionale crescano in un paese ormai balcanizzato dalle sue diverse componenti etniche mentre risorgono i nazionalismi identitari di Irlanda e Scozia.
Un paese uno e trino
Lo scenario che si prepara non è rassicurante e per essere affrontato richiederebbe la rimessa in discussione sia da parte dei conservatori, ma anche dei laburisti, che rispetto alle scelte anti europee sono stati certamente quiescenti e complici, pagandone il prezzo elettorale e politico. Perciò all’Ue conviene aspettare perché, in qualche caso, il tempo e galantuomo, e lasciare che la situazione precipiti fino a sciogliere quella che è ormai un’anomalia: un paese unico per le isole britanniche, laddove è evidente che mentre le popolazioni dell’Irlanda vanno verso la riunificazione dell’isola, i cui interessi sono indissolubilmente legati all’Ue, la Scozia ha interessi divergenti da quelli del resto del paese. La questione scozzese è antica e complessa e se si guarda alla crescita degli indipendentisti si comprende che è giunto il momento in cui il paese scelga finalmente il suo destino. Solo allora i tre tronconi della Gran Bretagna potranno ricucire i loro rapporti reciproci all’interno dell’Europa, né più e né meno di quanto è avvenuto nei Balcani con i paesi che costituivano l’ex Jugoslavia, evoluzione alla quale gli inglesi hanno notevolmente contribuito. A volte la storia si ripete e chi di separatismo
colpisce di separatismo perisce!
La morte di Elisabetta II segna il tramonto di un’epoca, la fine – storicamente inevitabile – di una nazione che ha vissuto e prosperato sulla “guerra da corsa”, assaltando, depredando e conquistando, costruendo sullo sfruttamento di uno dei più grandi imperi del mondo uno Stato a democrazia liberale, con una società civile “avanzata”, ma con altissimi tassi di disuguaglianza, in parte risparmiati ai residenti delle isole britanniche, ma imposti ai popoli dell’impero, con brutalità, spietatezza, violenza e cinismo.
È giunto per i politici britannici il momento di fare i conti con le conseguenze dell’ultimo guizzo di politica imperiale: quella avviata con la Brexsit che non è solo una ricetta in campo economico, istituzionale e sociale, ma anche di politica imperiale, che ha portato con se la destabilizzazione degli equilibri economici e politici dell’Europa, non solo mediante la secessione britannica, ma anche e soprattutto attraverso una politica di
divisione e frantumazione dei paesi dell’Europa che è passata attraverso la creazione di un asse privilegiato della Gran Bretagna con i singoli paesi dell’Europa del Nord,[1] con il sostegno ad una politica di rapido allargamento dell’Ue al fine di ostacolare il progressivo e graduale formarsi dell’aequis comunitario e dell’omogeneità costituzionale e giuridica della Ue e, da ultimo, con il sostegno a un governo oligarchico e illiberale, quello ucraino, ( e non con questo che quello russo sia diverso), allo scopo di trascinare l’Europa in una guerra e recidere l’asse politico che la collegava all’Asia in una visione Euroasiatica di un’Europa dai Pirenei agli Urali. Tutto ciò in nome di un nazionalismo cieco e ottuso, irrealistico, fuori dal tempo, sognando la restaurazione dell’impero!
È perciò giusto che la Gran Bretagna paghi, se possibile il suo rapporto ancillare, tutto costruito sulla comune matrice anglo-sassone con gli Stati Uniti, con la fine auspicata e auspicabile del Regno Unito, affinché i popoli delle isole britanniche possano ritrovare nella fratellanza con i popoli europei un comune futuro di libertà, di prosperità e di pace.
Una cosa è certa: lo spettro della frantumazione dell’unità del paese sarà uno dei problemi della prossima campagna elettorale, anche nel caso improbabile della fine naturale della legislatura nel 2024. Allora la campagna elettorale si svolgerà quando il paese sarà all’apice della crisi economica annunciata- sempre che non si decida per elezioni anticipate che si svolgerebbero nello stesso clima.
In vista di questa scadenza è bene che i laburisti si preparino a discutere e ad affrontare una revisione radicale e profonda della politica internazionale e interna del paese se non si vuole che prevalgano spinte e movimenti politici a carattere populista e sovranista che accentuerebbero la degenerazione economica del paese e delle stesse istituzioni e che a governi bellicisti e guerrafondai succedano governi autoritari e illiberali.
A rischio sono le istituzioni di democrazia liberale e “borghese”, – come si sarebbe detto una volta.
Gianni Cimbalo