Sovranismo in crisi; l’Ungheria

Dopo 12 anni di potere ininterrotto la Democratura costruita da Viktor Mihály Orbán, Presidente dell’Ungheria, sembra iniziare a mostrare le prime significative crepe. Il progetto politico dell’oligarca ungherese viene da lontano, considerando che è già stato Presidente dal 1998 al 2002 e che lo è ridiventato a causa degli errori dei
suoi avversari politici. La sua storia e le sue strategie politiche dovrebbero far riflettere gli italiani in considerazione del fatto che l’attuale presidente del Consiglio italiano è un attento epigono del premier ungherese, ne condivide, valori e strategia di fondo nell’ottica di dar vita a una teoria politica complessiva per la destra di governo degli anni 2000.
Non si tratta di nazifascismo rivisitato, perché se così fosse sarebbe relativamente facile combatterlo ma di una diversa teoria politico istituzionale che dal fascismo e dal nazismo attinge alcune “idee forti” come il razzismo, l’identità etnica e razziale, il culto pagano della cristianità, il suprematismo bianco per farne un melting pot che sul piano istituzionale si sposa con un modello che supera la divisione classica dei poteri e pur
mantenendo in vita dal punto di vista formale lo stato di diritto e le istituzioni cosiddette democratico liberali, concentra il potere negli organi esecutivi, sterilizzando il Parlamento, violando l’indipendenza della magistratura posta al servizio dell’esecutivo, concentra i poteri in mano del capo dello Stato. In questo contesto le elezioni sono un evento periodico controllato attraverso una legge elettorale maggioritaria che esclude dalla partecipazione, emargina le opposizioni, sterilizza il dissenso.
Un osservatore minimamente attento vi scorgerà molti tratti e aspetti della situazione politica attuale nel nostro paese e dovrà convenire che le opposizioni sia di centro che di sinistra, come l’opposizione extra parlamentare in Italia, sono state così miopi ed imbecilli, incapaci e inadeguati da consegnare il paese nelle mani di queste forze. Ad una ad una sono state demolite le difese della Repubblica nata dalla Resistenza: è stata sconfitta e emarginata politicamente e socialmente l’opposizione extra parlamentare, poi è toccato al movimento operaio e dei lavoratori, poi ancora ai partiti riformisti. La modifica della legislazione sul lavoro attraverso il Job Act e il varo di una legge maggioritaria sono stati il suggello di questa politica.
Una ricostruzione attenta delle parallele e in parte coeve vicende politiche che hanno caratterizzato la storia dell’Ungheria consentirebbe di vedere con chiarezza le immediate assonanze e convergenze con la differenza che il processo, nella Repubblica ungherese, è più avanzato e che è guidato dall’esecutivo da ben 12
anni.
Mihály Orbán governa infatti dal 2010 con il “vantaggio” per noi che possiamo vedere quel che si prepara. All’inizio il premier ungherese è intervenuto sui valori fondanti del paese: la sua mission nel mondo di difensore della cristianità di baluardo etnico, valoriale, razziale nei confronti del resto del mondo, la chiamata alla mobilitazione per contrastare la “sostituzione etnica” del popolo magiaro attraverso l’emigrazione: Da qui
la lotta al declino demografico, le politiche di sostegno alla maternità, la promozione dei matrimoni, soprattutto religiosi, attraverso una legislazione ad hoc; politiche del lavoro di palese sostegno alle imprese, anche mediante l’imposizione per legge di lavoro gratuito per le imprese. Restrizione delle libertà civili di stampa, comunicazione, riunione, associazione. Riforma dell’insegnamento e della scuola, nonché della pedagogia educativa: divieto di educazione sessuale nelle scuole, politiche di genere omofobiche e sessuofobiche, attacco alla maternità responsabile e al diritto all’aborto per le donne.
Quanto è avvenendo in Ungheria dovrebbe farci riflettere sul valore strategico per il governo in carica della politica in alcuni settori e quindi su quale sarà l’operato del ministero dell’istruzione e di quello dell’Università, di quello per la famiglia, della giustizia, oltre che di quello del lavoro, dell’economia e di tutti gli altri. Ne avvertiamo infatti i primi sintomi e ce ne occuperemo nel resto di queste pagine, ma intanto ci
limitiamo a rilevare che le indicazioni del senso di marcia, incompreso dall’inesistente opposizione, è chiarissimo.

Un possibile inizio della crisi

Tornando alla situazione ungherese oggi dopo 12 anni di regime constatiamo che forse si cominciano ad avvertire le prime crepe su impulso del Parlamento Europeo che chiede di sospendere i fondi del PNRR all’Ungheria se non si adatterà ai parametri europei sui diritti, rispettando le libertà costituzionali ed elettorali, l’indipendenza della magistratura, la libertà di espressione, compreso il pluralismo dei media, i diritti delle
minoranze, votando una risoluzione passata con 433 voti favorevoli, 123 contrari e 28 astensioni. La Commissione europea ha poi votato all’unanimità la proposta di sospendere il 65% dei fondi di tre programmi operativi per la Coesione destinati all’Ungheria, perché il rischio posto al budget Ue nel quadro delle violazioni allo Stato di diritto “permane”, nonostante le misure promesse dal governo di Budapest per sistemare i problemi indicati dalla Commissione e il conseguente divieto di assumere impegni legali con i fondi di interesse pubblico per programmi attuati in gestione diretta
e indiretta. Il valore dei fondi in questione è di 7,5 miliardi di euro, circa un terzo di tutti i fondi di Coesione destinati al Paese e quasi pari alla somma che l’Ungheria ha chiesto con il suo Pnrr.
Il corpo è durissimo perché il clan familiare di Orbán e i sodali di FIDEZ che lo circondano vivono e prosperano sui finanziamenti europei facendo ricorso a procedure poco trasparenti per fare man bassa degli appalti relativi ai progetti finanziati con fondi Ue dai quali l’economia del paese dipende fortemente. Non è un caso che la corruzione nel paese sia altissima prova ne sia che la Commissione europea ha chiesto insistentemente al Governo ungherese l’istituzione di un’autorità indipendente anti-corruzione, una riforma degli appalti e altre misure in chiave della lotta alla corruzione.
Queste misure hanno finalmente ottenuto una larga maggioranza anche per il defilarsi della Polonia dal sostegno all’Ungheria a causa delle ambiguità del governo ungherese nella crisi ucraina rispetto alla quale Orbán non solo si è sfilato dalle sanzioni ma pur avendo accolto 250 mila profughi ucraini lo ha fatto ospitando quelli provenienti in
maggioranza dalla Transcarpazia, regione abitata da popolazioni ungheresi e rivendicate da Bucarest che distribuisce passaporti propri alla popolazione, mentre gli ucraini vi praticano una politica di assimilazione chiudendo scuole, vietando l’uso della lingua. Non è un caso che Orbán si è presentato in pubblico, accogliendo i profughi, con una sciarpa sulla quale era raffigurata la Grande Ungheria dei tempi asburgici: una specie di manifesto geopolitico nello stile delle felpe che usa Salvini che non è piaciuta in Polonia e gli altri paesi limitrofi come Romania e Slovacchia che hanno minoranze ungheresi nei propri territori: a difendere Orbán sono rimasti Meloni e Salvini.

Un popolo in lotta

Già all’inizio dell’anno la situazione economica era pesante: da qui un’ondata di scioperi e di rivendicazioni salariali a fronte di stipendi medi dell’equivalente di 650 – 700 euro. Particolarmente grave il disaggio dei lavoratori della Scuola e delle Università. Un inserente di prima nomina guadagna poco più di 400 euro; perciò, le rivendicazioni degli insegnanti ungheresi sono uno dei punti più caldi della politica interna ungherese e da anni vi sono proteste contro stipendi da fame e contro un sistema, quello dell’istruzione, fortemente precarizzato. I fondi per l’istruzione sono scesi del 16% dall’arrivo al potere di Orbán e ciò ha fatto crescere la protesta. Perciò il governo ha deciso a febbraio, attraverso un decreto, di imporre agli insegnanti un “servizio minimo” da garantire in tutte le scuole: la fascia oraria da coprire, però, è essenzialmente quella del regolare svolgimento delle lezioni. Lo sciopero, di conseguenza, sarebbe diventato totalmente irrilevante: da qui la “disobbedienza civile”.
Nel corso dell’anno con la crisi energetica e il ridursi dei fondi europei a causa delle ripetute violazioni dello stato di diritto da parte del governo la situazione economica è peggiorata e l’inflazione è balzata al 20%: ciò ha provocato un’ulteriore crescita del disaggio sociale al punto che insegnanti e studenti sono scesi in piazza in ottobre per opporsi a un sistema corrotto, salari da fame e alle strette sul diritto allo sciopero. Non solo nella capitale, davanti al Parlamento, ma in molte altre città cortei hanno invaso piazze e strade per protestare contro un decreto che limita il diritto di sciopero nelle
scuole.
Approfittando dei poteri speciali attribuitigli per contrastare l’epidemia di covid il governo aveva infatti emanato il Decreto governativo – su alcune norme di emergenza che interessano gli istituti di istruzione pubblica, 36/2022. (II. 11.) contenente norme speciali che si applicano al diritto di sciopero negli istituti di istruzione pubblica durante lo stato di emergenza. La normativa definisce l’ambito dei servizi sufficienti richiesti per la durata dello sciopero, precisando al tempo stesso che, qualora venga esperito un procedimento di ricorso avverso una decisione del tribunale sull’illegittimità dello sciopero, la decisione del tribunale non può avere efficacia fino a quando la decisione non è sottoposta a un giudizio di secondo grado che può intervenire solo dopo 60 giorni dalla pronuncia della sentenza di primo grado. È del tutto evidente che in tal modo viene violata ogni garanzia dello stato di diritto sull’efficacia delle sentenze di un giudice.
Ciò malgrado alla riapertura delle scuole gli scioperi sono ripresi con vigore e il ministro dell’Istruzione ha annunciato che diversi insegnanti verranno licenziati, perché colpevoli di “disobbedienza civile”.
A questo punto, però, le manifestazioni e le proteste non riguardano esclusivamente rivendicazioni salariali, ma sono anche dirette contro la crescente centralizzazione dell’istruzione. Tutti i professori sono stati costretti ad aderire alla Camera nazionale degli insegnanti, le scuole municipali sono state nazionalizzate, l’Autorità Centrale dell’Istruzione decide quali libri di testo devono essere utilizzati e i direttori sono scelti dalle autorità centrali o comunque regionali, con una selezione di natura politica.
Nel tentativo di scaricare su altri la responsabilità di quanto avviene il governo ha annunciato che non è possibile aumentare i salari degli insegnanti perché i soldi necessari sono bloccati da Bruxelles senza dire che quelli bloccati sono fondi che, in ogni caso, non sarebbero mai finiti nelle tasche degli insegnanti, ma avrebbero invece riempito di nuovo i portafogli degli amici di Orbán. La Commissione europea – come abbiamo spiegato – ha proposto di sospendere 7.5 miliardi di euro del Fondo di Coesione per violazione dello Stato di diritto in Ungheria proprio mediante quei
provvedimenti che i dimostranti ritengono illegali. Per il governo ungherese Bruxelles dovrebbe stare alla larga dal sistema d’istruzione, ma spetterebbe all’Ue pagare i salari degli insegnanti del paese quando invece è noto a tutti che i fondi europei possono essere utilizzati per investimenti e infrastrutture ma non per soddisfare la spesa corrente (gli stipendi). Resta il fatto che grazie al bavaglio messo alla stampa la copertura mediatica data alle manifestazioni è inesistente. Poche tracce (o nessuna) di proteste su quotidiani e telegiornali vicini al regime, mentre il silenzio della stampa di opposizione è ormai diventato quasi totale.

Democratura e diritti

Per cogliere la portata e l’eccezionalità di quanto abbiamo riferito occorre considerare che per l’ordinamento giuridico ungherese lo sciopero è l’ultima risorsa, e può essere giustificato solo dalla difesa degli interessi economici e sociali dei dipendenti, non da obiettivi politici: lo sciopero politico è vietato. Lo sciopero è quindi una procedura
legittima, ma ciò non significa che possa essere utilizzata senza limitazioni. Occorre mantenere il buon funzionamento della pubblica amministrazione, perciò la legge sugli scioperi limita notevolmente la partecipazione ai dipendenti delle amministrazioni statali, e ciò vale anche per gli insegnanti. In buona sostanza sul diritto di sciopero prevale la garanzia del funzionamento dei diritti essenziali, ovvero del servizio, soprattutto che pubblico e fino a quando non c’è un accordo tra le parti in conflitto su quali sono i servizi essenziali non è possibile scioperare.
Ne consegue che abitualmente il conflitto viene risolto con la concertazione tra le parti e che il datore di lavoro sia pubblico che privato può esperire davanti alle corti numerose azioni per indurre i lavoratori a recedere dalle loro richieste. Quando le parti non pervengono ad un accordo i lavoratori possono ricorrere alla “disobbedienza civile” ma in quel caso accettano tutte le conseguenze della loro azione che diventa illegittima e può comportare anche il licenziamento in tronco. Questo provvedimento può essere impugnato davanti ai giudici ma l’asservimento del sistema giudiziario al regime non lascia speranze di una positiva soluzione della vertenza.
Per questo motivo le azioni di lotta degli insegnanti vanno viste come un gesto coraggioso e disperato di schierarsi contro il datore di lavoro e in ultima istanza il regime politico a fronte di situazioni di lavoro e retributive insopportabili. E quindi come un gesto coraggioso di rottura dell’ordine sociale esistente che segna una frattura insanabile con il potere ed è foriero di un’opposizione radicale al governo e all’intera struttura di controllo della società.
Questo è il mondo, questa è la società sognata dai sovranisti anche nostrani che pensano di riproporre in una versione moderna ed aggiornata una società caratterizzata dalla presenza di corporazioni, dove il conflitto sociale si ricompone in nome degli interessi della nazione, interpretati dal governo e dalla classe padronale, siano essi imprenditori privati o manager di stato, poco importa.
L’errore è illudersi e coltivare la falsa illusione che questo nel nostro paese non sarà possibile; niente di più falso, è solo questione di tempo, come è stato per la legge elettorale come minaccia di essere con il presidenzialismo, come si vuole che sia con l’istruzione che deve educare esaltando il merito e praticando l’umiliazione, come deve avvenire con le politiche familiari, con quelle sull’emigrazione, sui matrimoni, sui valori etici più diversi.
A fronte di questo programma la sola risposta efficace può essere quella di prendere direttamente in mano la difesa dei nostri diritti ed interessi, organizzarsi per combattere in ogni settore, rispondere colpo su colpo, ricacciando nelle fogne innanzi tutto i falsi oppositori di questo progetto che sono, come in guerra, i collaborazionisti e poi gli utili
idioti che coltivano un’opposizione di facciata, punteggiata di tante convergenze, stimolando e ricercando alleanze con chi nei fatti si oppone a questo progetto e soprattutto:

Non lasciamoli lavorare!

La Redazione