Condizionata dalla guerra, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha promesso di accordare in tempi rapidissimi lo status di paese candidato all’Ucraina, bypassando la verifica sui requisiti per avviare questa delicata procedura. Ma, per fortuna, altri, come Macron, mettono in guardia sulla rapidità della procedura, suggerendo cautela, e si chiedono che tipo di paese l’U.E. si mette dentro e se sia corretto e giusto mantenere fuori dall’Unione paesi come l’Albania, la Macedonia e la Serbia che da anni si affannano nel seguire e rispettare i numerosi step che caratterizzano la procedura di adesione, modificando i loro ordinamenti e la loro struttura economica, lavorando sui loro stessi valori per adeguarla all’aequis comunitario.
L’Ucraina nella Unione Europea
Lo Stato che si candida ad entrare nell’Unione dovrebbe essere al momento caratterizzato da un ordinamento compatibile con il rispetto dell’acquis comunitario, condizione indispensabile per ottenere l’adesione all’Unione e per non snaturarne le caratteristiche peculiari, indispensabili per garantirne la coesione. Come abbiamo avuto occasione di rilevare (L’Ucraina nella U. E., Newsletter Crescita Politica n 157, marzo, 2022) oggi, per quanto riguarda l’Ucraina, non sussistono le condizioni minime ed anzi, complice lo stato di guerra, il paese si allontana sempre più dall’aequis comunitario, imponendo la lingua ucraina, non solo ai russi, ma a tutte le minoranze, reprime le minoranze, viola la legge in materia di libertà religiosa optado per la Chiesa di Stato, la parità di genere, i diritti delle componenti LGBT nella società, limitando il diritto di associazione e l’attività di alcuni partiti politici a base etnica. Detto in altri termini l’Ucraina è tutt’altro che un paese di orientamento liberale coerente con le libertà e i diritti assicurati dall’Unione Europea, dei quali peraltro si spaccia di essere un difensore a fronte dell’orco russo: in buona sostanza il paese è largamente dominato dagli oligarchi che si sono arricchiti acquisendo a prezzi stracciati i beni privatizzati della struttura economica sovietica, né più e né meno di quanto è avvenuto in Russia. È un paese su posizioni decisamente sovranista e populista (partito del Presidente) nel quale cresce il ruolo crescente della destra paramilitare, sostenitrice dell’arianismo ucraino filo nazista.
Per non parlare dei parametri economici: il paese già prima della guerra aveva un’economia disastrata e fallimentare: metodi di gestione dell’amministrazione pubblica inefficienti, parametri economici fallimentari; ora la situazione è aggravata dagli eventi bellici e il governo populista che si regge sull’apporto determinante delle forze di
destra estreme è quanto di più lontano possibile dal condividere valori liberali e di libertà.
Per ovviare a questa contraddizione, considerato che “il processo di adesione di Kiev potrebbe richiedere anni o addirittura decenni” Macron si è sforzato di trovare una nuova collocazione ai paesi che ambiscono di entrare nell’U. E. e ha proposto la creazione di una “Comunità politica europea”, diversa dall’Unione Europea che “permetterebbe alle nazioni europee democratiche che aderiscono alla nostra base di valori di trovare un nuovo spazio per la cooperazione politica, la sicurezza, la cooperazione energetica”. Ed ha aggiunto: “Farne parte non pregiudicherà la futura adesione all’Unione europea, né tale Comunità sarebbe chiusa a coloro che l’hanno lasciata”, porgendo la mano anche alla Gran Bretagna.
La proposta di Macron, che abbiamo riportato con le sue testuali parole. Difetta – a nostro avviso – di eccessivo pragmatismo, in primo luogo, per il fatto di consentire una opportunità inattesa e lesiva degli interessi dell’U. E. alla Gran Bretagna la quale, invece, per la sua politica anti-continentale va ripagata aiutandone la dissoluzione, lasciando che venga consumata dalle sue contraddizioni interne e dall’indipendentismo di Scozia e Irlanda del Nord. L’U. E. deve assorbire al più presto l’Irlanda del Nord, che nell’Unione rimane di fatto, e soprattutto la Scozia, ricordandosi che al momento della
Brexit gli scozzesi si raccomandarono che le luci a Bruxelles fossero lasciate accese in attesa del loro ritorno.
Ciò significa creare, facilitare aiutare lo sviluppo di condizioni favorevoli allo svolgimento di referendum sia in Irlanda del Nord che in Scozia, intessendo rapporti economici sempre più stretti tra queste entità e la U. E, accordando ad esse trattamenti privilegiati e di favore. Tanto più che questo orientamento è quanto mai doveroso, ancorché necessario, se si guarda alle 49 proposte e 300 raccomandazioni, con le indicazioni su come realizzarle, presentate nella cerimonia conclusiva della Conferenza sul Futuro dell’Europa, tenutasi a Strasburgo l’8 maggio 2022.
In particolare, i gruppi di lavoro sulla riforma dell’Unione hanno ipotizzato un’Europa all’altezza dei tempi che deve cambiare le proprie regole, in Consiglio procedendo a una riforma dei Trattati che finora l’hanno resa un gigante dai piedi d’argilla. Dovrà allargarsi, aprirsi ai Paesi che vorranno farne parte, dovrà farlo con procedure meno burocratiche, ma rigorose, mantenendo saldo il riferimento all’aequis comunitario e all’insieme di valori che la contraddistinguono, anche se mantenere la barra dritta è tutt’altro che semplice. Invece – a nostro avviso – la paventata abolizione del vincolo
dell’unanimità attualmente rischierebbe di portare nei fatti a un’Europa a due velocità, potenziando l’attacco dissolutore condotto dalla Gran Bretagna, principale responsabile delle odierne disomogeneità per aver facilitato a suo tempo le adesioni.
Cambiare i Trattati
Ciò non significa che altre modifiche dei Trattati siano necessarie e possibili, anche se ben 13 paesi (tra cui Polonia, Romania, Finlandia, Svezia e Ungheria) si oppongono, sostenendo che l’Europa attuale “funziona così com’è” e non ha bisogno di “tentativi spericolati e prematuri” di riforma dei Trattati. Sono da rafforzare le politiche sociali,
coordinare quelle energetiche e di approvvigionamento alimentare, varare politiche contro il dumping e la delocalizzazione, facendo si che le istituzioni comunitarie svolgano un ruolo sempre maggiore, ad esempio, nella salute, sulle questioni di tassazione e di bilancio, impedendo che nello spazio comunitario venga consentito il dumping salariale o degli investimenti, promuovendo una difesa comune alternativa alla NATO: lo suggeriscono e lo impongono le esperienze degli ultimi due anni. Ciò consentirebbe – ed è una precondizione – un miglioramento del funzionamento delle
istituzioni e farebbe crescere la partecipazione dei cittadini, permettendo di avviare verso il superamento della crisi dei regimi a democrazia liberale, recuperando la partecipazione dei cittadini.
Quando Macron ha affermato l’8 maggio a Bruxelles, dando appuntamento ai leader dei 27 Stati membri al vertice previsto per il 23 e 24 giugno, “Essere efficaci significa decidere rapidamente in modo unito, saper investire massicciamente nei posti giusti, non lasciare nessuno sul ciglio della strada, cioè essere europei. Di fronte a questo,
dovremo anche riformare i nostri testi, è ovvio. Voglio chiarire oggi che uno dei percorsi di questa riforma è la convocazione di una convenzione di revisione del Trattato.”, ha ragione.
In assenza dei riformisti
Siamo consapevoli – nel momento stesso nel quale formuliamo questi auspici – che non spetterebbe a noi fare queste proposte e sostenere la necessità di queste politiche istituzionali e contingenti che poco incidono su un necessario mutamento dei rapporti tra le classi. In effetti il nostro compito prioritario rimane quello di occuparsi delle condizioni immediate di vita e di lavoro delle classi sfruttate, messe in ginocchio dalla guerra che il capitalismo porta alle masse diseredate, non ultimo infettando di ideologie patriottarde l’Ucraina e l’Europa intera, con il risultato che il plutocrate Putin e i suoi oligarchi insieme a quelli ucraini e i capitalisti occidentali, lasciano i proletari russi e ucraini dilaniarsi sui campi di battaglia.
Ma si da il caso che i riformisti siano completamente prigionieri di questo meccanismo diabolico e blaterano, lasciano che i Parlamenti vengano esautorati, fungono da megafoni che incitano alla guerra, alimentando costantemente con armi il campo di battaglia, tanto a morire sono i proletari. Ecco perché occorre svolgere una funzione di supplenza e chiedere loro di fermarsi, imporre che si guardino allo specchio e per rendersi conto della miseria nella quale sono caduti, chiedendo loro di reagire, difendendo almeno gli interessi dell’Europa, rifiutando di farsi usare dagli americani e
utilizzare come finanziatori del massacro e agenti di una guerra per procura.
È penoso che occorra ricordare ai capitalisti europei quali sono i loro interessi, che tocchi a dei rivoluzionari richiamarli alla difesa di quelli che sono anche loro interessi, ma è un compito disperato e necessario per conservare uno spazio vitale, un ambito operativo nel quale il cambiamento potrebbe realizzarsi, in altre parole mantenere una speranza che esista ancora un campo nel quale confrontarsi e poter almeno sopravvivere.
Per farlo è necessario soprattutto mantenere lucidità di analisi e capacità di lettura critica di quanto sta avvenendo e al tempo stesso ricordarsi sempre che nostro compito prioritario è quello di partire dalla difesa delle condizioni di vita materiali, dai bisogni, dalle necessità di ognuno, senza trascurare che la guerra esiste anche senza i campi di battaglia e i carri armati, ma che c’è una guerra giornaliera fatta in ogni paese di persone diseredate, lasciate sole, non curate, uccise con un genocidio giornaliero, a gocce, sul posto di lavoro: ben 1221 nel 2021 i morti sul lavoro solo in Italia e la mattanza prosegue anche quest’anno al ritmo di 3 al giorno un media.
La Redazione