La guerra del terrore

Una melassa informatica dolciastra e disgustosa ci è piovuta addosso da tutti i mass media in occasione del ventesimo anniversario dell’attentato alle Twin Towers di New York. Le verità ufficiali[1] hanno non poche falle[2] e su queste si sono sviluppate innumerevoli teorie sul complotto, dalle più fantasiose ad alcune acutamente argomentate. È difficile che anche in un futuro non troppo prossimo sarà possibile conoscere tutta la verità, ma alcune cose sono subito evidenti se seguiamo la vecchia teoria del cui prodest.

L’amministrazione Bush jr

La popolarità del nuovo presidente George W. Bush, già eletto con un voto popolare inferiore a quello dell’avversario democratico Al Gore [3], a cavallo dell’estate era in forte calo. Il discorso aggressivo seguente all’attentato, la dichiarazione dell’inizio della “guerra al terrore” rialzarono le sue sorti nell’opinione pubblica per un biennio. È assolutamente improbabile che il Governo abbia ordito la trama dell’attentato; poco probabile che, a conoscenza di quanto si stava preparando, abbia lasciato fare; del tutto certo che abbia colto l’occasione per perseguire i propri obbiettivi. Occorre ricordare che la candidatura di Bush era stata supportata da un’associazione di estrema destra, o in termini correnti neocon, di cui faceva parte, denominata PNAC (Project for a New American Century), la cui strategia dichiarata era quella di un costante e massiccio impegno militare volto a ristabilire il comando USA nel mondo: una politica estera, cioè, puramente muscolare che si riprometteva di perseguire gli interessi nazionali ovunque e comunque.
La notoria scarsa prestezza intellettuale del nuovo presidente, un ex alcolizzato, ne faceva il migliore interprete inconsapevole della propaganda, ma rendeva anche necessario un suo perenne accompagnamento; uno dei massimi dirigenti del PNAC, Dick Cheney, ne fu il vicepresidente per otto anni ed era lui alla Casa Bianca il giorno dell’attentato, mentre il presunto titolare canticchiava canzoncine con gli alunni di una scuola elementare della Florida.
Ma l’associazione non si accontentò del Presidente ombra, ma reale, occupò gran parte dei posti chiave della nuova Amministrazione. Basterà, per capire la situazione un breve elenco.
· Donald Rumsfeld alla Difesa;
· Richard Armitage vicesegretario di Stato;
· John R. Bolton, consigliere ed ambasciatore presso l’Onu;
· Francis Fukuyama membro del Consiglio Presidenziale di Bioetica;
· Paul Wolfowitz Presidente della Banca Mondiale.
E molti altri. Gli effetti della loro presenza si fece presto sentire: guerra all’Afghanistan, guerra all’Irak, Patriot Act con forti limitazioni delle libertà civili, prigione di Guantanamo, etc. Il tutto condito di menzogne (chi non ricorda le presunte armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein?), che potevano essere vendute in buona fede, e quindi con maggiore capacità di convinzione, da chi non ne capiva il contenuto e vi credeva.

Storia dell’Afghanistan

Siamo abituati a considerare l’Afghanistan come un paese tribale, di contadini montanari che vivono nell’isolamento più assoluto rispetto al flusso delle idee che circolano nel mondo. Ma è sempre stato così? Nel secolo scorso il paese ha, con fortune alterne, attraversato un lungo periodo di modernizzazione, abbandonando
progressivamente e con alcuni contraccolpi le più radicali tradizioni islamiche e il tradizionale isolamento [4]. Già dagli anni venti del XX secolo il re Anamullah aveva istituito scuole miste ed abolito il velo per le donne. Le riforme continuarono e si rinvigorirono con il nipote di Anamullah, re Zahir Shah. La democratizzazione del paese stimolò la nascita dei partiti e nel 1978 il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, socialista e filosovietico, prese il potere, dando mano ad una profonda ristrutturazione sociale favorevole alle classi meno abbienti. Guardando le foto della vita sociale tra il 1940 ed il 1980 viene spontaneo chiedersi come sia potuta avvenire una regressione talmente drastica, tale da giustificare la percezione di medioevo contemporaneo che traspare dalle immagini dell’oggi. Che in venti anni di occupazione militare occidentale sia potuta crescere e proliferare tra la popolazione una cultura integralista e una
convergenza di interessi che ha fornito la base sulla quale i talebani hanno costruito l’egemonia.[5]

Strategia USA verso l’URSS

Già nel 1980 [6] avevamo individuato quale fosse la strategia statunitense per destabilizzare dall’interno l’avversario sovietico: fare leva sulla reviviscenza islamica e sulla stimolazione del fondamentalismo religioso per minare la cintura meridionale dell’URSS, abitata appunto da popolazioni musulmane. Fu così intrapresa una campagna volta ad armare e a finanziare i signori della guerra che controllavano le tribù periferiche (mujahidin) perché si ribellassero al governo sovietizzante di Hafizullah Amin. Ciò spinse l’Unione Sovietica a occupare l’Afghanistan il 24 dicembre 1979, dando origine ad una guerriglia durata cinque lustri, che fu rovinosamente perduta da una Unione ormai in disfacimento nel 1993. Durante questo periodo i finanziamenti e gli aiuti ai combattenti islamici da parte degli Stati Uniti si intensificarono; è appena il caso che uno dei maggiori organizzatori della resistenza antisovietica fu Osama Bin Laden.

Gli USA ed il Medioriente

Le immense ricchezze energetiche presenti nei paesi mediorientali, hanno da oltre un secolo, dalla caduta dell’impero ottomano, attirato gli sguardi cupidi delle potenze industriali. Prima della seconda guerra mondiale furono
francesi ed inglesi a gestire, malamente, la situazione tracciando divisioni territoriali funzionali solo ai loro interessi di dominio [7]. In particolare, gli inglesi non trovarono di meglio di far sedere su di un mare di petrolio i re di una piccola tribù del deserto arabico, l’unica all’epoca veramente fondamentalista, i Saud capi, religiosi del wahhabismo.
Gli USA non si sono comportati di certo meglio; hanno stretto forti legami con i Saud (i cui interessi economici con la famiglia Bush sono comunque noti) e tesero a insediare nei territori chiave propri fedeli. Gli USA sono subentrati agli inglesi nel 1945 e come è noto, insieme ai turchi; hanno favorito la nascita ed il rafforzamento dello Stato di Israele, come gendarme della zona, a discapito del popolo palestinese; hanno eliminato qualsiasi tentativo degli Stati del Medio Oriente e della Penisola Arabica di rendersi autonomi nella gestione delle risorse di idrocarburi, fino a destituire con un colpo di Stato il primo ministro persiano Mohammad Mossadeq; hanno sostenuto finanziariamente e militarmente le guerre espansionistiche di Israele; hanno scatenato e sostenuto la guerra dell’Irak di Saddam Hussein contro l’Iran; hanno poi invaso l’Irak pericoloso concorrente dei Saud per la gestione del prezzo internazionale del greggio all’interno dell’OPEC. In particolare, la destituzione di Mossadeq viene indicata come uno dei passaggi nevralgici verso l’inasprimento fondamentalista dei musulmani di quelle regioni. Un palmares (albo d’onore) di tante buone azioni doveva meritare tanta ma poi tanta riconoscenza da rendere ingiustificati gli attentati dell’11 settembre 2001.

Bilancio delle vittime

Ground Zero è divenuto un sacrario. Fiumi di inchiostro e di lacrime sono stati profusi per commemorare le vittime degli attentati alle Torri Gemelle. Nella commemorazione del ventennale gli ex presidenti degli Stati Uniti d’America si sono avvicendati sul palco per leggere i nomi delle vittime che sono state identificate. Il totale dei morti ascende a circa 3.000. In Afghanistan le vittime civili ammontano almeno a 47.000 [8], ma si sa la vita dei barbari vale molto meno. Ma in quella sciagurata guerra durata venti anni sono morti anche oltre 3.500 soldati dei paesi che hanno partecipato alla coalizione (2.448 statunitensi), 444 operatori umanitari e 72 giornalisti; dovremmo dedurne che anche questi caduti contano meno; nessuno ha letto i loro nomi, tanto meno quello dei civili afghani. Tutto ciò in uno solo dei teatri di guerra attizzati dagli statunitensi.

La “vergogna” del disimpegno

Le vergini cuccie del giornalismo, intellettuali e della politica alzano alti lai per il subitaneo disimpegno statunitense da questa guerra inconcludente. Grande commozione ha suscitato la notizia dell’attentato del 26 agosto all’aeroporto di Kabul, durante la ritirata; ancora una volta tra gli oltre 170 morti hanno avuto gli onori della cronaca e del pianto i 13 marines, come se non ne fossero morti tanti di più in analoghi attentati durante l’occupazione del paese. La riprovazione è ricaduta sul nuovo Presidente, Joe Biden, che ha solo ritardato quanto già deciso il suo predecessore.
Nessuno è andato ad inseguire i veri responsabili della carneficina, quei loschi figuri dell’Amministrazione Bush jr. elencati più sopra. Ora questo ventennio di inutile occupazione è costato non solo molte vite umane, ma anche una montagna di soldi: oltre 2,241 miliardi di $ agli USA (8,7 miliardi di € all’Italia; allora c’era Berlusconi al governo, ma nessuno dei successori ha interrotto l’onerosa avventura). Quale contributo alla civilizzazione del paese avrebbero apportato queste risorse se spese per il benessere della popolazione. Ma il conto da fare è un altro se si vogliono capire le
vere cause che hanno indotto gli Stati Uniti ad abbandonare la partita.

Gli scenari

Nonostante le lacrime di maniera versate un pubblico per le morti degli attentati e della guerra, le motivazioni dell’intervento militare e della miserevole ritirata sono da ricercarsi altrove: nell’economia! [9] All’inizio fu la difesa degli interessi statunitensi legati al TAPI (un gasdotto che, attraversando il territorio afghano, doveva trasportare il gas dal Turkmenistan al porto di Karachi: si cercò e non si trovò un accordo con i talebani e da qui l’intervento. In realtà l’occupante non è mai riuscito a controllare l’intero paese e le sacche di resistenza e l’esistenza di vaste aree ancora sotto
il controllo talebano hanno vanificato il progetto. I costi immenso della guerra, più sopra riportati, hanno convinto gli Stati Uniti ad abbandonare la partita, anche in considerazione che la sua prosecuzione avrebbe continuato a pesare economicamente a fronte di ben pochi benefici. Ora la Cina sembra subentrare nel paese tramite accordi commerciali e quindi con ben altri mezzi che quelli militari. Ma il paese è al centro di immensi interessi economici. La maggiore ricchezza attuale è rappresentata dall’oppio, la cui produzione è aumentata sotto l’occupazione americana e questo dà da riflettere. I talebani stanno trattando con la Cina la realizzazione del vecchio progetto del TAPI. Soprattutto il paese è ricco di risorse minerarie strategiche per l’industria elettrica ed elettronica: prima di tutto il litio (nella provincia di Ghazni), necessario per le batterie ricaricabili utilizzate in tutti i dispositivi che adopriamo giornalmente ed ora molto
richieste per la nascente industria dei mezzi per la mobilità elettrica. A Kanneshin nella provincia di Helmand è stato scoperto un giacimento rilevante di terre rare, anche esse indispensabili per l’industria elettronica; la Cina già controlla gran parte dei giacimenti conosciuti, quelli del proprio territorio e quelli presento in Africa, lo sfruttamento di questa altra risorsa le conferirebbe il quasi totale controllo di questo elementi dall’alto valore strategico. In un altro articolo si questo numero vengono trattate le conseguenze geopolitiche che la fine dell’intervento statunitense (e NATO) porte con sé.

[1] https://www.9-11commission.gov/report/911Report.pdf
[2] Ad esempio, le spiegazioni del ritardo dell’intervento dell’aeronautica militare risultano lacunose: le prime anomalie sul volo AA11 vengono segnalate dai controllori di volo alle ore 8.14 dell’11 settembre ed esso si schianterà contro la Torre Nord ben 32 minuti dopo; la Torre Sud verrò colpita dal volo UA175 dopo altri 17 minuti.
[3] Gore ottenne 50.999.897 voti (48,4%), Bush 50.456.002 (47,9%).
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27Afghanistan
[5] A Baczko e G:Dorronsoro,Come hanno fatto a vincere i talebani, “le monde Diplomatique”, il nanifesto, settembre, 2021, pp. 1 , 14-15                                             [6] http://www.ucadi.org/wp-content/uploads/2021/08/SITUAZIONE-ECONOMICA-INTERNAZIONALE.pdf, paragrafo I.2.9.3., pp. 28-29.
[7] Cfr. FILIPPO GAJA, Le frontiere maledette del Medio Oriente, Maquis Editore. Milano 1991.
[8] https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/08/16/afghanistan-il-bilancio-umano-ed-economico-della-guerra-dei-20-anni-170mila-vittime-e-una-spesa
-di-mille-miliardi-di-dollari/6292567/                                                                                 [9] Come siamo prosaici, pensiamo sempre ai “piccioli”

Saverio Craparo