DOPO L’AFGANISTAN

Il crollo degli USA e della NATO in Afganistan stanno inducendo tutti gli attori della politica internazionale a riposizionarsi: il processo è appena iniziato e non lascerà nulla di immutato negli attuali rapporti tra gli Stati.
Antiche e consolidate alleanze andranno ridefinite, così come le sfere di influenza politiche, l’accesso al mercato delle materie prime, le vie di traffico, il flusso delle merci verso i diversi mercati e quindi le alleanze e il modo di operare dei singoli attori sulla scena politica ed economica dell’intero pianeta.

Nel pacifico una nuova “line Maginot”.

Quando nel biennio tra le due guerre mondiali i francesi cercarono un modo per arginare una possibile futura invasione tedesca progettarono la “linea Maginot”, una catena di fortificazioni che copriva tutto il confine tedesco e che la Germania spazzò via in poche settimane, aggirandola. Così gli Stati Uniti, considerando perso il presidio del continente asiatico hanno dato vita all’AUKUS (acronimo ricavato dal nome dei tre paesi) che fanno parte dell’alleanza, Australia Stati Uniti e Regno Unito. L’alleanza ha il compito di sorvegliare l’area del Pacifico, dell’Oceano Indiano e del mar della Cina, per fare da deterrente alla potenza economica e alla penetrazione politica cinese nell’area. Come primo passo dota l’Australia di una flotta di sommergibili a propulsione nucleare, per ora, non dotati di armi atomiche. e mira all’integrazione tra i servizi di intelligence e di ascolto e sorveglianza informatica nell’area. Questa alleanza va ad aggiungersi a quella di condivisione dei Five Eyes che include anche Nuova Zelanda e Canada.
È più che legittimo avanzare perplessità sull’efficacia di questa scelta ma intanto già la Cina, ovviamente, protesta, mentre pesanti sono le conseguenze nell’area occidentale: l’Australia disdice un contratto da tempo sottoscritto con la Francia da 90 miliardi di dollari (il costo finale previsto era al momento di 400) per la costruzione di 12 sottomarini con motore elettro nucleare. La decisione metterà certamente in crisi i cantieri navali della Naval Group, che gestisce a Saint Nazare, alle foci della Loira i Chantiers de l’Atlantique che li stavano costruendo. La disdetta del contratto produrrà
una crisi della cantieristica francese già in difficoltà e inciderà anche sullo sviluppo e la sostenibilità economica del nucleare francese. Il colpo politico-economico assestato alla Francia è stato tale da potare al ritiro degli ambasciatori in Australia e Usa per consultazioni e a disdire l’incontro bilaterale dei ministri della difesa tra Francia e Gran Bretagna. A un Macron imbufalito Biden ha offerto in pegno di riconciliazione il sostegno alle avventure francesi nel Sael.
Il progetto relativo ai sommergibili australiani è di lungo periodo e si stima che per essere portato a termine avrà bisogno di almeno 20 anni, ma militarmente e strategicamente ha le gambe d’argilla. Si consideri che l’Australia ha appena 25 milioni di abitanti, un apparato militare fragile e ha già avuto difficoltà notevoli a livello ingegneristico e di know how nel rendere operativi 6 piccoli sommergibili a propulsione convenzionale classe Collins a suo tempo acquistati.
Ne viene che gli equipaggi saranno necessariamente misti a tutto vantaggio degli USA che sembra abbiano chiesto l’uso della base australiana di Perth, aumentando la dipendenza australiana dai partners, tenendo conto che l’Australia non dispone della tecnologia necessaria per fornire ai sommergibili nucleari assistenza e manutenzione. Sarà pertanto inevitabile che questi ricorrano ai porti gestiti dagli USA, i quali sembrano sperare che in futuro l’alleanza, dopo una fase di consolidamento, possa vedere l’ingresso di altre potenze regionali, magari perché preoccupate dalla crescita inevitabile della presenza economica, politica e militare della Cina. Insomma, gli USA costituiscono l “vallo del Pacifico”, ponendosi sulla difensiva.

La crescita delle potenze regionali islamiche

Inevitabili ripercussioni ha l’abbandono dell’Afganistan per l’Arabia Saudita, Iran e il Pakistan, quest’ultimo ben insediato a Kabul per non parlare delle potenze nascenti del Qatar e degli Emirati Arabi. Per alcuni di essi, ben dotati di capitali l’accesso alle risorse minerarie del paese rappresenta un’occasione da non trascurare. In quanto poi alla potenza militare, occorre che non vada sottovalutata l’armatissima Arabia Saudita, il ruolo dell’Iran che è certamente un paese dotato di un esercito tra i più efficienti dell’area e quello del Pakistan che invece l’atomica la possiede da tempo. Tuttavia,
questa è un’area di alta instabilità, sulla quale pesa la presenza cinese, soprattutto in termini economici (capitali da investire, capacità tecnologiche, interessi verso l’oceano Indiano).
Appare al momento fuori dai giochi l’India, anch’essa potenza nucleare, che tuttavia ha carte da giocare per offrirsi come alternativa alla Cina per offrire l’accesso a un mercato di beni di consumo a basso costo che potrebbe attirare le economie di paesi dell’area. È possibile che lo sviluppo economico probabile di quest’area che tutti i dati danno
in crescita vertiginosa finisca per spostare verso Oriente l’interesse di parte dei paesi del Golfo arabico e di quelli del Corno d’Africa, tentati dall’integrarsi in quest’area. Quel che è certo che lo scontro aperto tra la presenza sunnita e quella sciita avrà come terreno di scontro numerosi paesi tra le due aree di influenza e lo scontro non si limiterà allo Yemen, ma andrà ben oltre.
È soprattutto su questo scenario che conta la diplomazia americana per mantenere nell’area un conflitto perenne che allontani la minaccia islamica da altre aree e ne rallenti l’espansione. Ciò significa comunque che conflitti regionali come quello etiopico con il Tigrai rischiano di crescere di importanza strategica e virulenza, a tutto danno delle popolazioni. In quanto poi alle conseguenze per l’Afghanistan occorre che, al di là di ogni retorica, sia chiaro che per l’Occidente i destini del popolo afgano, delle sue donne e dei suoi bambini, non hanno importanza alcuna, servono solo da copertura ipocrita di una guerra fatta per ragioni strategiche ed economiche.

L’Africa abbandonata

Nel nuovo scenario delle relazioni internazionali l’Africa rimane oggetto dell’intervento del fondamentalismo islamico che cerca di espandersi, approfittando del disaggio sociale crescente, della persistenza della depredazione delle sue risorse ad opera degli eredi del colonialismo, della desertificazione incombente, della distruzione delle economie rurali che affama il continente. Tuttavia, sia i residui del colonialismo che l’avanzata delle forze jadiste dovranno fare i conti con la crescente presenza economica cinese che acquista terre e infrastrutture, che sempre più spesso progetta e crea investendo in infrastrutture e infeudando per il futuro l’Africa. La sostanziale ritirata degli USA dal continente prende atto da tempo di questa politica e lascia campo libero alla Cina che non ha difficoltà a distruggere le ultime presenze coloniali.
Ma la crescente penetrazione economica e politica cinese dovrà alla lunga fare i conti con la politica del non intervento negli affari interni praticata dai neocolonialisti di Pechino: quanto più vedrà crescere i suoi investimenti e interessi economici la Cina sentirà il bisogno di garantirli e non è detto che basterà puntare sui rapporti di subordinazione delle borghesie e tecnocrazie locali che crescono all’ombra della sua penetrazione economica.
In questo quadro appare a dir poco patetico il tentativo francese di tenere in piedi la propria presenza nei territori dell’ex impero coloniale, magari coinvolgendo altri paesi dell’UE, come ad esempio gli italiani in Niger, “opportunità” che la Germania è stata ben attenta ad evitare. In questa situazione i paesi dell’Africa sono destinati ad alimentare la
migrazione verso l’Europa, continuando a cedere le proprie risorse umane, minerarie, a subire lo sfruttamento schiavistico della propria manodopera anche infantile, ad essere territorio di sottosviluppo e di sfruttamento para schiavistico sotto diverse forme.

L’America agli americani

Nel mettere in atto questa generale ritirata strategica la tentazione, per il Governo degli USA, è quella di rinverdire l’applicazione della “dottrina Monroe”, rivisitata alla luce dei bisogni di trasformazione dell’economia USA, che ha bisogno di disporre per il periodo necessario a riconquistare competitività di disporre di un’area di mercato protetto nella quale operare ed estrarre il plusvalore necessario. Tuttavia, il ripiegamento dell’America di Biden su sé stessa è il frutto della consapevolezza dei danni che la politica della globalizzazione e lo strapotere delle multinazionali ha prodotto sul tessuto sociale del paese. Il turbo capitalismo internazionale che ha avuto mano libera nel paese ha
gravemente minato gli interessi nazionali. A questo attacco i democratici USA reagiscono rieditando una politica antitrust, come è nella loro tradizione, e varano un pacchetto di politiche sociali all’interno del paese: prendono atto che una larghissima fascia della popolazione si è impoverita. La canalizzazione nelle spese militari di centinaia di miliardi di dollari – gran parte dei quali spesi all’estero- ha privato il paese di risorse; la sanità pubblica è inesistente; i programmi federali di sostegno alla povertà – essenziali per contenere il disaggio sociale – sono privi di risorse; il numero crescente
di morti in guerra è divenuto insopportabile. Il paese è diviso dal conflitto razziale non più latente, che esplode sempre più spesso, mentre aumenta l’insofferenza per una migrazione che d’altra parte è necessaria al mercato del lavoro e all’economia americana.
Il paese è diviso, spaccato in due parti come le elezioni presidenziali hanno evidenziato. Da una parte la vecchia America degli Stati centrali agricoli e sonnacchiosi del paese, che puntano all’economia tradizionale e al petrolio, dall’altra la struttura economica degli antichi Stati industriali che deve reinventarsi per sopravvivere e andare oltre il modello californiano che perde attrattività, per varare un piano di rilancio in qualche modo simile a quello europeo, sfruttando la lotta alla crisi climatica e ricorrendo a una profonda innovazione del modo di produrre e di gestire la società.
In questo contesto riprendere a trattare l’America Latina come il giardino di casa non può che produrre ulteriori danni e rappresenterebbe una scelta miope, sostenuta dall’apparato militare che è alla ricerca di obiettivi per sopravvivere.
La sola alternativa per gli ambienti progressisti degli Stati Uniti e per larga parte delle forze che hanno sostenuto e sostengono Biden è sostenere l’auto determinazione dei popoli, lasciati liberi di utilizzare le loro risorse per migliorare le condizioni di vita della popolazione, tanto più quando questa comincia a capire che è insopportabile essere poveri tanto più quando il proprio paese è ricco. Solo questa scelta metterebbe in grado i democratici statunitensi di affrontare con qualche possibilità di successo il problema e la pressione migratoria.
La tradizionale politica imperialista USA non è più sostenibile né può essere sostituita a livello internazionale da un imperialismo multilaterale anglofono, tanto più se sostenuto da uno Stato in dissoluzione come il Regno Unito che di unito non ha più nulla e da uno Stato-continente ricco di risorse, ma povero di popolazione, come l’Australia. Lo
sganciamento degli USA dalla NATO, l’abbandono a sé stesso dello scacchiere europeo, non salverà gli USA dalla soccombenza nei confronti dell’economia cinese che ha a sua volta i propri pericoli nella natura composita della sua popolazione e dei grandi problemi sociali – sommersi – che caratterizzano il paese.

La multietnicità cinese e la questione sociale nascosta

Dall’Occidente, guardando alla Cina, siamo abituati a vedere il paese come un tutt’uno uniforme ed etnicamente unitario. Tuttavia, benché i gruppi etnici siano ben 56, gli Han rappresentano ben il 92 % della popolazione. Tra i più numerosi i Mongoli, gli Hui, i Tibetani, i Miao, gli Yi, i Zhuang, i Puyi, i Coreani, i Mancesi, i Dong, i Yao che costituiscono certamente comunità di milioni di persone, ma solo in alcuni casi, come per gli Uyguri, musulmani, vi è anche una differente tradizione religiosa. Appare perciò non fondata la tesi di alcuni analisti USA che intravedono in questo fattore una causa di future crisi del paese e addirittura minacce per la sua unità.
Gli elementi di conflitto maggiori sono piuttosto quelli delle differenze tra le diverse zone economiche del paese e soprattutto il motivo principale di preoccupazione economica e sociale è costituito dall’alto numero di anziani tra la popolazione, privi di ogni forma di assistenza. Il tumultuoso sviluppo economico del paese ha prodotto una fortissima
urbanizzazione e gigantesche migrazioni interne con la conseguenza della crisi profondissima della famiglia tradizionale.
Scomparsi i giovani dal nucleo familiare e totalmente assente uno Stato sociale di sostegno alle componenti della popolazione non inserite nel sistema produttivo, si è di fronte a una crescente e diffusa povertà. È quindi la questione sociale la sola a poter rimettere in discussione la potenza del partito-Stato e una forma di capitalismo aggressivo che mantiene un’alta capacità di controllo sociale e non è scalfito dall’assenza di quella libertà politica tanto invocata come essenziale in occidente.
Per ora i successi del partito-Stato, la crescita complessiva dell’economia, la tenuta del paese rispetto ai problemi sanitari generati dalla pandemia, la crescita complessiva dell’importanza del paese soddisfano un orgoglio nazionale tradizionalmente molto forte in Cina.

L’incognita russa

La gestione oligarchica di quello che fu l’impero costruito dall’URSS ha ormai frontiere definite ad Est e verso l’Asia attraverso una rete di Stati cuscinetto. Putin sembra essere riuscito a scaricare all’esterno i conflitti interetnici, come quelli tra georgiani ed armeni e lo stesso conflitto ceceno che è stato posto ai margini della politica nazionale. Dove la situazione appare ancora instabile è certamente in Ucraina e per alcuni versi in Bielorussia, mentre regge il compromesso sul confine moldavo con la creazione della Repubblica di fatto della Transnistria che fa da cuscinetto tra Ue. e Russia.
I problemi della Russia sono anche in questo caso di tenuta interna per una situazione sociale di crisi dovuta all’inefficienza dell’apparato statale, a un reddito insufficiente per la popolazione e alla concentrazione della ricchezza nelle mani degli eredi degli oligarchi che si sono spartite le spoglie dello Stato, attribuendosi la proprietà di interi
comparti produttivi. La gestione personalistica del potere da parte di Putin ha creato intorno al capo un vuoto politico e un’assenza di ricambio di classe politica che sarà risolta con uno scontro di potere al vertice quando inevitabilmente l’era putiniana finirà.
Grazie al sostegno della Chiesa Ortodossa il nuovo zar continua a tenere in mano il paese ma la crescita inarrestabile delle diseguaglianze economiche all’interno del paese è il vero pericolo per i gestori del potere. A differenza del passato non è tanto l’assenza di beni, pur persistente, dal mercato a pesare ma fa ancora più scandalo e semina malessere la consapevolezza della miseria e la concentrazione del benessere nelle mani di pochi, la crescente disuguaglianza. In queste condizioni non resta che confidare nella ripresa dello scontro sociale e della lotta di classe.

L’Europa tra economia green e struttura economica neo-curtense

Ma è sull’Europa che si scaricano la maggior parte delle conseguenze della crisi afgana. La Nato esce a pezzi da una guerra alla quale i paesi che fanno parte dell’Alleanza hanno partecipato senza convinzione, come gregari, sempre subalterni al socio di maggioranza, gli USA, che hanno deciso strategie e azioni e persino il ritiro senza alcun coinvolgimento degli alleati nelle decisioni. Le caratteristiche rovinose del ritiro sono troppo note perché sia necessario parlarne. Alla fine delle operazioni il socio di maggioranza si sgancia di fatto dall’Alleanza e sceglie un’altra scacchiera di gioco, quella dell’Oceano Pacifico.
L’Europa è invitata a fare da sé e a darsi un proprio esercito, se lo ritiene necessario: a difenderla non c’è più l’ombrello americano, come in verità avviene da tempo. Questo fatto nuovo sembra portare alla creazione di un nucleo iniziale di esercito multinazionale della Ue., all’inizio con la costituzione di una sorta di forza di primo intervento, che costringerebbe l’’Unione a dotarsi di un fondo di bilancio comune per la difesa – mettendo insieme almeno parte dei singoli bilanci statali per la difesa – che sul piano politico e istituzionale ne aumenterebbe la coesione, già accresciuta dal debito comune del Recovery Fund. Non è escluso che la proposta di dar vita a questa forza comune verrà formulata dalla presidenza francese dell’Unione che inizia a gennaio 2022, rafforzata dal disappunto della Francia per essere stata scaricata da americani e inglesi con la costituzione della AUKUS. Non va dimenticato che la Francia è potenza nucleare e può quindi costituire l’asse intorno al quale il nuovo esercito potrebbe ruotare, vincendo il tradizionale neutralismo della Germania, imposto dai trattati di pace e grazie al sostegno di molti altri Stati, a cominciare dall’Italia che non ha mai cessato di essere in guerra, partecipando a tutte le missioni possibili di peacekeeping, quando non intervenendo direttamente in combattimento, come in Iraq e in Afganistan e che dispone di un esercito e di armamenti di alta efficacia sia navali che aerei.
A preparare il terreno sembra destinato l’intervento di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, che ha dichiarato in occasione del vertice regionale organizzato nell’ambito del processo di Berlino – l’iniziativa di dialogo intergovernativo lanciata nel 2014 dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, con l’obiettivo di rafforzare la cooperazione regionale nell’ottica del processo di integrazione Ue,[1] -: “Dobbiamo accelerare il processo di allargamento e parallelamente, portare i Balcani occidentali sul nostro percorso affinché diventino più sostenibili, digitali e resilienti”. E ancora: “Il nostro piano economico e di investimento e l’agenda verde per i Balcani porteranno fino a 28 miliardi di euro per connettività e prosperità”. E la presidente della Commissione europea ha proseguito sottolineando l’impegno dell’Ue per “far funzionare il mercato comune regionale” e per “dare alla regione l’accesso al mercato unico e alle catene del
valore industriali europee”.
Al di là degli slogan l’obiettivo è chiaro: i nuovi ingressi servono a rilanciare il processo di aggregazione messo in crisi dalla Brexit e a trovare sostegno tra i nuovi arrivati per contenere le pressioni dei “paesi frugali” da una parte e quelli del gruppo di Visegrád dall’altro. E poi le luci degli uffici un tempo occupati dagli inglesi sono ancora accese,
raccogliendo la richiesta fatta degli scozzesi che si apprestano a richiedere il Referendum per l’indipendenza, pronti a tornare.
D’altra parte se l’Ue, vuole veramente riuscire ad attuare la sua riconversione economica che è la precondizione per reggere il confronto con le altre aree forti del mondo, deve raggiungere la massima coesione territoriale in modo da poter sviluppare sinergie positive tra le diverse aree del suo territorio, conferendo ai paesi della sponda sud del mediterraneo un ruolo di cooperazione con l’economia dell’Unione sia per regolare i flussi migratori che per porre le basi di penetrazione economica verso altri mercati.
Questo progetto politico passa dalla soluzione di numerosi problemi come, ad esempio, quello costituito dal dumping interno tra le economie dei diversi paesi, superabile solo se in prospettiva si lavora nella direzione di regole fiscali e politiche del lavoro comuni. Sembra utopistico, ma è la sola strada possibile perché l’accumulazione capitalistica continui nell’area europea.

Il nostro compito e i nostri interessi

Per i proletari conoscere le strategie del capitale le tendenze dei mercati è essenziale non certo per fare il tifo per questa o quella strategia, ma per mettere a punto quella più opportuna per promuovere e far crescere ovunque la lotta di classe, perché è solo attraverso il conflitto sociale e la lotta irriducibile tra capitale e lavoro che si creano le condizioni per la crescita di un processo rivoluzionario che, facendo esplodere le contraddizioni e le disuguaglianze, inneschi la rivoluzione sociale sempre più necessaria e ineludibile.

[1] Il processo di Berlino è un meccanismo di cooperazione intergovernativa sul tema delle infrastrutture e degli investimenti economici in Sud Est Europa. Ha avuto avvio con la Conferenza di Berlino di fine agosto 2014, seguita dalla Conferenza di Vienna di fine agosto 2015. Le successive conferenze si sono tenute nel 2016 a Parigi, nel 2017 a Trieste, nel 2018 a Londra nel 2019 a Poznan. Nell’ambito del Processo di Berlino, al summit di Sofia sono stati sottoscritti gli impegni per l’erogazione del Piano di investimenti dell’Unione. Per l’alto rappresentante Borrell, “la mobilitazione delle risorse sarà vincolata a una ripresa sostenibile e socialmente giusta”

La Redazione